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Senza Tasi le tasse sulla casa scendono sotto 50 miliardi

Senza Tasi le tasse sulla casa scendono sotto 50 miliardi

da Repubblica

L’assenza della Tasi porta una tregua fiscale sugli immobili: secondo un’analisi pubblicata dal Centro Studi ImpresaLavoro, quest’anno – dopo il livello record raggiunto nel 2015 con un gettito di 52,3 miliardi di euro), gli introiti per le casse pubbliche derivanti dalla tassazione degli immobili si fermeranno a 49,1 miliardi con una flessione quantificabile nel 6,1 per cento. “La pressione fiscale risulterà a fine anno comunque ancora ben lontana dai livelli del 2011, rispetto ai quali l’incremento risulta di 11,4 miliardi su base annua, segnando in termini relativi un corposo più 30,2 per cento”, annotano gli estensori della ricerca.

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Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Il martedì di Imu-Tasi: 12 miliardi e nell’83% delle città saldo a rischio rincaro – La Repubblica

Roberto Petrini – La Repubblica

Conto alla rovescia per il tax­Day sulla casa. Martedì 19,7 milioni di proprietari di prima casa e 25 milioni di proprietari di altri immobili saranno chiamati a pagare rispettivamente l’acconto Tasi e la prima rata dell’Imu. Un doppio prelievo fiscale che vale almeno 12 miliardi (9,7 di Imu e 2,3 di Tasi). La data rischia di essere un vero e proprio «martedì nero»: tra acconti e saldi Irpef, Ires e Irap e altro i contribuenti saranno chiamati a versare altri 38 miliardi.

Il costo medio della Tasi, secondo il consueto rapporto della Uil servizio politiche territoriali, sarà di 180 euro medi (90 euro da versare con l’acconto), ma se si prendono a riferimento le città capoluogo l’importo sale a 230 euro medi (115 euro per l’acconto), con punte di 403 euro. Cifre decisamente più alte per quanto riguarda l’acconto Imu sulle seconde case: il costo medio in questo caso è di 866 euro di cui 433 euro da pagare con l’accconto di giugno, con punte di 2.028 euro a Roma (1.014 euro l’acconto) e 1.828 euro a Milano (914 euro di acconto). Tra le città in cui l’acconto Tasi prima casa sarà «mini», la classifica vede in prima fila Asti (10 euro), seguita da Ascoli Piceno (23 euro) e da Crotone con 26 euro.

Le sorprese tuttavia non sono finite. Quest’anno non dovrebbe verificarsi il caos del 2014 quando si rimase nell’incertezza dell’aliquota in attesa delle delibere: si pagherà infatti con l’aliquota approvata dai Comuni per l’anno 2014.Tuttavia questo sollievo potrebbe essere solo apparente, perché i Municipi hanno tempo fino al 31 luglio per approvare i bilanci e le relative delibere Tasi- Imu: di conseguenza in sede di saldo, il 16 dicembre, potrebbe arrivare la «stangata» dell’aumento. Ad oggi infatti, secondo uno studio dell’Agefis, l’associazione dei geometri fiscalisti, solo il 16,5 per cento dei Comuni ha deliberato le nuove aliquote, il restante 83,5 per cento potrebbe riservare una sgradevole scoperta al contribuente. In pochissimi casi, a parte la virtuosa Valle d’Aosta che raggiunge un 81 per cento, nelle regioni italiane si trovano percentuali superiori al 20 per cento. Al Sud le delibere non raggiungono il 10 per cento. «Dove non c’è delibera non si possono dormire sonni tranquilli», dice Mirco Mion, presidente dell’Agefis.

La pressione fiscale sulla casa è comunque in crescita: secondo una rilevazione del Centro studi ImpresaLavoro il totale delle imposte che gravano sugli immobili sono cresciute rapidamente negli ultimi quattro anni, passando dai 38 del 2011 agli oltre 50 nel 2014. Si attende per il prossimo anno la più volte annunciata local tax: «Cambierà il nome, ma non la sostanza delle cose, bisogna rivedere le addizionali comunali Irpef, avverte Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil.

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

Imprese: ecco il conto salato della bolletta energetica – LaRepubblica.it

LaRepubblica.it

“Le nostre imprese sono costrette a pagare una bolletta energetica salatissima, di gran lunga la più cara tra le grandi economie europee”. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro rivela quanto sia impietoso il raffronto del costo italiano (tasse incluse) per l’elettricità con quello sostenuto dai nostri principali competitor: +14% rispetto alla Germania, +30% rispetto al Regno Unito, +49% rispetto alla Spagna e addirittura +91% rispetto alla Francia. Non solo. Risultiamo nettamente perdenti anche nei confronti degli altri Stati confinanti, che da tempo attraggono imprese e capitali italiani grazie a una tassazione e a un costo del lavoro decisamente inferiori a quelli del cosiddetto Belpaese: +46% rispetto all’Austria, +89% rispetto alla Croazia e +105% rispetto alla Slovenia.

L’analisi di ImpresaLavoro è stata condotta elaborando i dati Eurostat, di cui aveva dato conto Repubblica.it, relativi al secondo semestre 2014 e considerando il prezzo praticato a una media industria italiana, con un fabbisogno energetico annuo tra i 500 e i 200 mWh (megawattora).

Il prezzo finale sostenuto dalle nostre imprese è composto dal costo netto dell’energia e dal totale di imposte e accise che lo Stato applica loro. Se considerata prima delle tasse la nostra energia risulta la quarta più cara in Europa, costando come quella portoghese e leggermente meno di quella britannica, irlandese e spagnola: 0,1052 centesimi di euro per kWh (chilowattora). Il discorso però cambia se vengono incluse le imposte, che da noi hanno incidono in maniera rilevantissima (pesano fino al 48% se si considerano anche le imposte sul valore aggiunto e il 25% se non si considera l’Iva e altre imposte che le aziende possono recuperare) e che fanno quindi diventare la nostra energia in assoluto la più cara d’Europa: 0,1735 centesimi di euro per kWh (chilowattora).

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

La crisi taglia le rimesse: sono ai minimi dal 2007

Repubblica.it

La crisi colpisce anche le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia: negli ultimi 10 anni le somme dirette verso i paesi d’origine dei migranti hanno raggiunto i 60 miliardi di euro, ma il trend rilevato da un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia mostra chiari segnali di sofferenza.

Osservando la ripartizione per anno, infatti, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (-7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (-38%), il livello più basso dal 2007.

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Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Fisco, la burocrazia per pagare le tasse costa 7.559 euro a impresa

Repubblica.it

L’Italia è un paese nel quale costa parecchio anche essere in regola con il fisco. Secondo i dati elaborati dal Centro Studi ImpresaLavoro, un’azienda media spende ogni anno 7.559 euro per sbrigare adempimenti burocratici relativi al pagamento delle imposte: una cifra che non ha eguali in Europa e che rappresenta una vera e propria tassa ulteriore e mascherata che le nostre imprese sono costrette a sostenere.

Il numero è frutto dell’incrocio di due dati: quello reso noto dalla Banca Mondiale all’interno del rapporto Doing Business e relativo alle ore annue necessarie per svolgere adempimenti fiscali nonché quello relativo al costo orario medio del lavoro nel nostro paese così come sostenuto dalle aziende e rilevato da Eurostat.

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Tfr in busta paga, rischio flop

Tfr in busta paga, rischio flop

Valentina Conte – La Repubblica

Optare per il Tfr in busta paga, dal prossimo primo marzo, può costare caro. Il 40% in meno di ricchezza futura, se si scelgono i soldi subito anziché lasciarli in azienda. Addirittura tra due e tre volte in meno, se si rinuncia al fondo pensione. Anche per questo, la misura inserita dal governo Renzi nella legge di Stabilità rischia il flop. In ogni caso, nelle più rosee previsioni, l’auspicato impatto sui consumi non andrà oltre lo 0,1%. L’ufficio parlamentare di Bilancio, nella sua analisi della Finanziaria 2015, lo scrive chiaro: solo 2,7 miliardi dei possibili 4 miliardi richiesti verrebbero consumati. Il resto a bollette, rate, tasse.

Se dunque pure il caos burocratico fosse superato in tempo utile (manca ancora il decreto attuativo della norma a pochi giorni dalla sua entrata in vigore), i lavoratori ci penseranno bene. Primo, perché non si tratta di risorse extra (come il bonus da 80 euro), ma di soldi propri, di fatto un trasferimento di patrimonio. Secondo, perché le tasse sono più alte (l’anticipo è soggetto agli scaglioni ordinari Irpef e non alla più conveniente tassazione separata riservata alla liquidazione futura). La relazione tecnica alla legge di Stabilità quantifica queste entrate extra in 2,2 miliardi quest’anno e 2,7 il prossimo. Denari che andranno a compensare l’Inps, per i mancati incassi del Tfr dalle aziende più grandi, sopra i 50 addetti. Terzo motivo, perché ci si perde.

Basta guardare ai conti fatti per Repubblica da Progetica. Un trentenne che oggi guadagna mille euro netti al mese, può certo avere 2.800 euro nei prossimi 40 mesi (dal primo marzo al 30 giugno 2018). Ma rinuncia a 4.500 euro futuri, ottenuti lasciando i soldi in azienda, oppure ad 8 mila euro, destinando il Tfr alla previdenza integrativa. Peggio ancora per un quarantenne con busta paga da duemila euro: incassa circa 5.500 euro in poco più di tre anni, da qui al 2018, ma rinuncia nei due casi a 9.200 e addirittura 13.600 euro. Un cinquantenne con salario da 2.500 euro, porta a casa oltre 7 mila euro ora grazie all’idea del premier Renzi, sacrificando però oltre 11 mila e 13 mila euro, nei due casi (azienda e fondi), quando dovrà andare in pensione. E le perdite future, avverte Progetica, potrebbero essere anche più ingenti, se la speranza di vita del lavoratore fosse più ampia di quella stimata dall’Istat (nei tre casi, pari a 22, 21 e 20 anni, con età della pensione a 67 anni). Augurabile.

Il possibile flop della misura non è d’altronde legato solo al mero ed ovvio calcolo delle convenienze personali. Ma anche ad alcuni dati di fatto. Se, come scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare di Bilancio, almeno un terzo dei più bisognosi saranno tentati (redditi bassi e difficoltà di reperire credito), tra questi non vi saranno i giovani precari. I cocopro non hanno Tfr, i contratti a tempo determinato sono abituati a ricevere la liquidazione ad ogni cambio di contratto. E questo purtroppo avviene spesso. Chi ha già optato per i fondi è fuori. Come pure gli statali. L’operazione è poi irreversibile: si sceglie ora, si incassa fino al 30 giugno 2018, senza possibilità di rinunciarvi. In aggiunta, problemi di liquidità e contabilità per le aziende (soprattutto piccole). Infine, il segnale contraddittorio a giovani e famiglie: dopo aver caldeggiato il secondo pilastro per integrare magre pensioni, ora si spinge al consumo. Non solo, si aumentano anche le tasse sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%). Un capolavoro.

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Delude Garanzia Giovani, pochi fondi e zero assunti

Filippo Santelli – La Repubblica

«Mi sono iscritto a maggio, aspetto ancora di essere contattato», si sfoga un 24enne sardo. A una ragazza di Roma, 23 anni, è andata poco meglio: «Sono stata chiamata per un colloquio, ma si sono limitati a illustrarmi il programma». Per un suo corregionale invece, 25 anni, il messaggio è stato diretto: «Mi hanno detto che offerte di lavoro non ci sono, le aziende che hanno aderito sono pochissime». Non sta funzionando Garanzia Giovani, il piano che avrebbe dovuto garantire agli under29 che non studiano né lavorano, i Neet, un’opportunità di formazione o impiego. Lo dicono le testimonianze, anonime ma numerose, raccolte dal centro studi Adapt e dal sito Repubblica degli Stagisti. E lo confermano pure i numeri ufficiali del ministero. Perché su un milione e 700mila giovani Neet italiani una frazione, 340mila, si sono registrati alla Garanzia, solo 139mila sono stati contattati da un centro per l’impiego per il primo colloquio e appena 11mila e 775 hanno ricevuto una proposta di stage, contratto o corso professionale. Uno ogni 30, su per giù. Con tempi di attesa ben superiori ai quattro mesi promessi.

«Anche solo per attivare un tirocinio, il processo è molto articolato», spiega Luigi Olivieri, 50 anni, dirigente dei servizi per il lavoro della provincia di Verona. Prima bisogna provare l’interesse del mercato per una determinata figura professionale e raccogliere la disponibilità di un certo numero di imprese. Quindi ottenere l’approvazione della Regione. E solo allora preparare una graduatoria dei giovani, organizzare un incontro con l’azienda e scrivere il loro progetto formativo. «Il tutto prende due mesi e mezzo», continua Olivieri. Ogni territorio ha definito regole e criteri diversi, è il federalismo delle politiche per il lavoro. Ma le difficoltà a avviare proposte concrete è una costante. In Veneto sono stati impegnati solo 8 milioni di euro, sui 40 ricevuti per corsi di formazione e programmi di inserimento lavorativo. In Sicilia solo 25 milioni su 178. «La modalità scelta, basata sulle candidature dei giovani, non permette di attirare le aziende», dice Olivieri.

Anche il governo sembra averlo capito. Due decreti del ministero del Lavoro, ora al vaglio della Corte dei Conti, cercano di rendere più appetibile per le imprese l’adesione a Garanzia Giovani. Il primo corregge l’attuale sistema di profilazione dei ragazzi, che li classifica in base alla loro occupabilità. Al momento sette su dieci finiscono nelle classi meno svantaggiate, con incentivi più bassi per chi li assume. Il secondo allarga il bonus anche ai contratti di apprendistato e a quelli a termine di durata inferiore ai sei mesi, e permette di cumularlo con altri tipi di facilitazioni economiche o contributive.

«Ma così Garanzia Giovani diventa ancora di più un sistema di incentivi a pioggia per le assunzioni, poco efficaci», ragiona il direttore di Adapt Michele Tiraboschi, secondo cui è l’impianto stesso della misura a non funzionare. «L’obiettivo iniziale era creare un sistema che prendesse in carico, orientasse e formasse i giovani, che li rendesse più occupabili », dice. Questo lavoro, almeno in prima battuta, lo dovrebbero fare i centri pubblici per l’impiego. Che però in Italia restano a corto di fondi (500 milioni di euro l’anno, contro i 5 miliardi stanziati della Francia) e di personale qualificato (solo il 25% dei dipendenti è laureato). E senza certezze sul domani, proprio come le Province da cui dipendono. Nascerà un Agenzia nazionale per il lavoro, ma non prima di aver riformato il Titolo V della Costituzione, riportando la competenza sulle politiche attive a livello centrale. Non a caso, la parte del Jobs Act che procede più lenta.

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

Aldo Fontanarosa – La Repubblica

Su prezzi e tariffe, le intenzioni di Poste Spa sono bellicose. Nei documenti spediti al governo in vista della privatizzazione, che dovrebbe avvenire nel 2015, la società di Francesco Caio delinea una manovra tariffaria dolorosa per le famiglie. Torna intanto la lettera ordinaria che – nei piani di Poste – dovrebbe costare un euro. Arriveranno per davvero le lettere ordinarie? Poste si impegna a consegnare il 90% di queste missive low cost entro massimo 4 giorni dalla spedizione.

C’è poi la lettera prioritaria. Oggi la prioritaria deve arrivare entro un giorno e costa 80 centesimi. Questa è la tariffa base per gli invii fino a 20 grammi di peso. Nei progetti di Poste, la Nuova Prioritaria ci farà spendere 3 euro. Da 80 centesimi a 3 euro: un bel salto in avanti. Colpisce che le Poste vorrebbero farci pagare di più per un servizio peggiore. Nel senso che la vecchia prioritaria giunge a destinazione in una giornata nell’89% dei casi, mentre la Nuova arriverebbe puntuale solo nell’80% degli invii. L’obiettivo di qualità si abbasserebbe.

Eccoci alla famosa raccomandata. Oggi la tariffa base è di 4 euro (sempre che la nostra busta pesi massimo 20 grammi). Nel nuovo schema, la raccomandata salirebbe sia pure di poco a 4 euro e 25 centesimi. Anche qui, però, lo standard qualitativo si abbasserebbe. La vecchia raccomandata – che è tracciata e ci dà la garanzia legale dell’invio – arriva a casa del destinatario in 3 giorni (questo nel 92,5% dei casi). La nuova raccomandata verrebbe consegnata in 4 giorni e solo nel 90% dei casi. Stesso schema: paghi di più per stare peggio.

Sempre più spesso gli italiani evitano la fila all’Ufficio postale e utilizzano il computer. Scrivono la lettera al pc e – grazie al sito delle Poste – la inviano. Le Poste stampano la lettera e la portano a destinazione nella versione fisica, materiale. Anche qui la società di Caio progetta degli aumenti. La ordinaria che nasce online – un’altra novità – costerebbe 70 centesimi. La prioritaria online invece 1,8 euro (contro i 70 cent di oggi). Nessuna variazione per la particolare raccomandata che nasce online, confermata a quota 3,3 euro.

Queste sono, dunque, le intenzioni delle Poste. Che però devono superare l’esame dell’Autorità per le Comunicazioni. Come già nel 2013, spetta all’AgCom approvare la manovra di Poste. Due anni fa, l’Autorità diede semaforo verde con la sua delibera numero 728. E gli aumenti delle tariffe scattarono dal primo dicembre del 2014. Se autorizzati anche solo in parte, i ritocchi daranno una spinta alla privatizzazione di cui hanno discusso ieri – al ministero dell’Economia – l’ad di Poste Francesco Caio, il capo del Dipartimento del Tesoro Vincenzo La Via e il capo della Segreteria Tecnica del ministro Fabrizio Pagani, oltre ai consulenti (advisor) di ministero e società.

La trincea delle lobby

La trincea delle lobby

Luigi Guiso – La Repubblica

Con il progetto di riforma delle banche popolari approvato ieri dal Consiglio dei ministri (dieci di esse, le più grandi, dovranno diventare Spa entro un anno e mezzo) Renzi replica il modello di attacco frontale usato per l’articolo 18, questa volta contro una delle più forti e trasversali lobby finanziarie italiane. L’iniziativa, se andrà a buon fine, può avere conseguenze rilevanti per la governance di una parte importante delle banche, migliorare il governo societario e accrescere il grado di concorrenza nel mercato del credito. Un aiuto ai correntisti, al risparmio e alla crescita. La parte centrale della riforma si riduce all’abolizione del voto capitario. Ovvero, della regola vigente per questa tipologia di banche per la quale il diritto di voto degli azionisti (soci) è indipendente dal numero di azioni (quote) detenute. Ogni socio ha diritto a un voto in assemblea, anche se possiede la metà del capitale.

Quale è il problema di un simile assetto di governo? Principalmente la difficoltà del passaggio di mano del controllo. In una società per azioni è sufficiente comprare i titoli sul mercato per scalzare un gruppo di controllo. Chi è disposto a pagare in proprio per comprare azioni che gli consentano di assumere il controllo ha un fondato motivo per ritenere di poter gestire la società meglio di quanto non faccia il management in carica. Il voto per azione garantisce che questo passaggio possa avvenire, quindi che si possa conseguire un vantaggio di efficienza. I potenziali guadagni possono essere notevoli ma saranno altrettanto grandi le perdite se il meccanismo di riallocazione del controllo funziona male.

Nelle banche popolari (e in genere nelle società cooperative) il cambio di controllo richiede che qualcuno metta d’accordo la metà più uno dei soci per scalzare la gestione corrente, se questa non funziona. È semplice capire i limiti del meccanismo. Se un socio è insoddisfatto della gestione, per estromettere il gruppo dirigente deve prima riuscire a convincere la maggioranza dei soci e portarne in assemblea un numero sufficiente. È ragionevole pensare che questa capacità di mobilizzazione e di coordinamento esista se si tratta di piccole cooperative, dove bastano poche telefonate per spiegare le cose e convincere altri soci a partecipare a una azione collettiva contro la dirigenza in carica. Ma per cooperative con migliaia e migliaia di soci, come accade ad esempio nelle grosse banche popolari (la Popolare dell’Emilia ne ha 90mila), chi mai tra i singoli soci sarà disposto a spendere il proprio tempo (e i propri soldi) per radunare altri soci nella speranza di raggiungere una maggioranza che consenta di estromettere il management in carica? Il beneficio, in termini di maggior efficienza della banca, va a tutti i soci, mentre il costo di gestione del dissenso pesa solo sul coordinatore. Inoltre, la capacità di mobilizzazione del gruppo che esercita il controllo è molto maggiore di quella di qualunque socio, rendendo arduo qualsiasi piano per estromettere il vertice. Da questo punto di vista le vicende della Popolare di Milano sono emblematiche.

Di fatto, nelle banche popolari la struttura cooperativa – e il voto capitario che la caratterizza – è servita ai gruppi di controllo di alcune per perseguire le loro ambizioni di costruzione di piccoli imperi, rimanendo al riparo dalla possibilità di un take over, come ad esempio nel caso del gruppo Banca Popolare dell’Emilia Romagna. L’abolizione da parte del governo del voto capitario è un passo da giudicare con estremo favore. Non si tratta di un attacco allo spirito mutualistico del movimento cooperativo, come i rappresentanti di queste banche si sono già affrettati a sostenere. Non lo è perché le grandi banche popolari di “mutualistico” hanno ben poco, mentre le piccole – che di cooperativo hanno ancora parecchio (soprattutto le Bcc) – conserveranno le loro caratteristiche. Di più: il provvedimento è una presa d’atto tardiva, perché nessun governo prima d’ora aveva osato opporsi al potere di influenza delle popolari più grandi.

Se il governo riuscirà a portare a termine la riforma saremo di fronte a una svolta molto importante. Ma il fuoco di sbarramento della lobby è già cominciato e i cannoni spareranno dalle trincee di tutti gli schieramenti politici. A destra come a sinistra. La battaglia in Parlamento si annuncia durissima. Prepariamoci a vedere schierata tutta la potenza di interdizione di cui sono capaci le banche popolari, a riprova che di ‘cooperativo’ hanno poco, ma di politico moltissimo.

Il dilemma di Draghi

Il dilemma di Draghi

Stefano Micossi – Affari & Finanza

La Bce non può più rinviare la decisione di acquistare titoli a lungo termine dell’eurozona in gran quantità ( quantitative easing, o QE): perché l’inflazione mensile e annua in dicembre è diventata negativa, sta sotto l’1 per cento da ottobre 2013 ed è prevista scendere ancora; perché il suo bilancio si sta sgonfiando, invece di aumentare; perché il nuovo strumento di rifinanziamento delle banche ‘mirato’ alle imprese, il Tltro, non sta funzionando per la scarsa domanda di prestiti dall’economia.

La credibilità della Banca Centrale Europea è a rischio, le misure usuali delle attese d’inflazione nei principali paesi dell’eurozona puntano a zero. Se vuol esser creduta sull’obiettivo d’inflazione – il due o ‘vicino al’ due per cento – la Bce dovrà indicare un programma di acquisti adeguato. Può adottare un programma mensile open-ended – dunque potenzialmente illimitato – legato alla realizzazione dell’obiettivo d’inflazione, oppure continuare gli interventi fino al raggiungimento del target sulla dimensione del bilancio della Bce (i due ‘trilioni’ già decisi dal Consiglio direttivo). Se gli acquisti si fermassero a 500 miliardi, come qualcuno lascia trapelare, la credibilità dell’annuncio sarebbe in questione. Data la dimensione limitata del mercato delle obbligazioni private, inevitabilmente, gli acquisti dovranno includere ammontari consistenti di titoli pubblici.

Nell’intenso fuoco di sbarramento in atto contro il QE, molte voci ne negano l’efficacia, ma i loro argomenti non sono convincenti. L’intervento sosterrà l’attività economica sia spingendo al ribasso il cambio dell’euro (come già sta avvenendo per l’effetto annuncio, finalmente!), sia facilitando la riduzione dell’eccesso di debito (deleveraging) pubblico e privato attraverso la riduzione dei tassi a lunga – che a tal fine devono restare per molto tempo al di sotto del tasso di crescita nominale del pil. La discesa dei tassi sui debiti pubblici trascinerà al ribasso anche quelli sulle obbligazioni e i prestiti privati, dato che nelle condizioni attuali di segmentazione dei mercati finanziari il costo dei primi agisce come un ‘pavimento’ per quello dei secondi. Gli effetti espansivi saranno più intensi se finalmente la Commissione allenterà i vincoli del patto di stabilità per gli investimenti, come già indica la nuova comunicazione sulla ‘flessibilità’ pubblicata martedì scorso.

Due questioni cruciali da risolvere riguardano la scelta sui titoli da acquistare e la gestione dei rischi per il bilancio della Bce. Ogni acquisto di titoli da parte della banca centrale modifica anche lo spread tra i rendimenti dei titoli dei paesi dell’eurozona. Il processo di convergenza degli spread sarebbe più rapido se la Bce concentrasse i suoi acquisti sui titoli dei paesi più indebitati, ma avverrebbe anche se la Bce comperasse solo Bund tedeschi. Infatti, la nuova liquidità finirebbe comunque per affluire sul mercato dei titoli più rischiosi, che garantiscono rendimenti più elevati. Nella visione della Bundesbank, però, la riduzione degli spread è fonte di azzardo morale, attenuando l’incentivo a correggere gli squilibri di bilancio nei paesi spendaccioni; ma una politica monetaria espansiva che non modifica i prezzi relativi delle attività finanziarie semplicemente non esiste.

La soluzione più lineare e meno controversa per la Bce è di acquistare i titoli dei paesi dell’eurozona in proporzione data da una chiave non controversa, come le quote dei paesi membri nel capitale della Bce o nel pil aggregato dell’Eurozona. È importante che allo stesso tempo i paesi indebitati mantengano l’acceleratore pigiato sulle riforme economiche, che resta il miglior viatico per la capacità di Draghi di convincere i colleghi del Consiglio direttivo a espandere. La Bce ha gli strumenti per aumentare la pressione su chi eventualmente perdesse la direzione (Grecia post-elezioni inclusa).

La seconda questione cruciale è come gestire possibile perdite della Bce sul suo portafoglio titoli. Nel caso di una banca centrale nazionale, il rischio degli interventi di mercato aperto ricade automaticamente sul bilancio pubblico, che è il garante ultimo dell’offerta di moneta e delle passività della banca centrale. Nel caso della Bce, invece, un back-stop fiscale non esiste; peggio, se la Bce assumesse tali perdite a seguito dell’insolvenza di un debitore sovrano dell’eurozona, ciò configurerebbe secondo alcuni una violazione del divieto di bail out previsto dall’articolo 125 del Trattato di Lisbona.

La soluzione logica sarebbe di guardare per questa funzione di back-stop al bilancio del Meccanismo europeo di stabilità, che già costituisce il nucleo di una futura capacità fiscale dell’eurozona, ma per i tedeschi per ora questa è una bestemmia. Se ogni stato garantisse le perdite sui suoi titoli, l’effetto sui tassi dei paesi indebitati potrebbe attenuarsi fino a scomparire; superare il problema facendo acquistare da ogni banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune. In pratica, il problema è meno intrattabile di quel che sembra: con ogni probabilità all’inizio la Bce registrerà consistenti guadagni in conto capitale sui titoli acquistati, man mano che i tassi scenderanno. Questi guadagni costituiranno un cuscinetto più che adeguato per coprire eventuali perdite su alcuni dei titoli in portafoglio. In effetti, già in occasione della ristrutturazione del debito greco, nell’estate del 2011, la Bce compensò le sue perdite con guadagni realizzati in precedenza.