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TFR in busta paga

TFR in busta paga

NOTA

La scarsissima adesione dei lavoratori (0,05%) all’anticipazione del TFR in busta paga, prevista dal Governo Renzi come opportunità per i dipendenti di aziende private a partire dal 2015 e fino al 2018, rischia di costare al fisco fino a 7,9 miliardi di euro nel lungo termine, mentre nel breve l’equilibrio sarebbe garantito dalle maggiori entrate contributive. Lo sostiene una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati della Ragioneria Generale dello Stato.
Il Governo si attendeva un’adesione dei lavoratori compresa tra il 40% (nelle aziende più piccole) e il 60% (nelle aziende più grandi), nonostante l’opzione determini uno svantaggio fiscale concreto costituito da una maggiore tassazione del TFR anticipato in busta paga rispetto a quello accantonato ai fini della “liquidazione” di fine rapporto.
Proprio in virtù di questa maggiore tassazione, il Governo aveva stimato di raccogliere nel 2015­ 2018 oltre 7,9 miliardi di maggiori entrate di tipo fiscale (IRPEF), accettando però nel contempo di perdere i versamenti contributivi del TFR per le aziende più grandi per un totale di 8,7 miliardi.
Considerati anche i 100 milioni di euro di spesa per la dotazione iniziale del Fondo pubblico di garanzia connesso, e altre spese residuali nette stimate per altri 57 milioni, l’operazione nel periodo 2015-­2018 avrebbe determinato nel suo complesso una spesa di 952 milioni di euro.
La risposta dei lavoratori, che almeno per il momento sembrano aver rifiutato in modo compatto la costosa opportunità dell’anticipo in busta paga (si perdono non solo le agevolazioni fiscali ma anche la rivalutazione degli importi), non costituirà dunque un problema per le casse dello Stato nel breve periodo e anzi dovrebbe consentire nell’immediato di liberare risorse.
Ma le minori entrate fiscali sono coperte nel breve da maggiori entrate contributive (il versamento al fondo TFR tesoreria/INPS per le aziende oltre i 50 dipendenti), che a differenza delle prime si trasformeranno in debito per lo Stato nel momento in cui gli interessati matureranno il diritto alla corresponsione delle somme.
«In poche parole quindi, la perdita c’è ma si vedrà solo nel lungo periodo, e rischia di costare molto alle casse dello Stato» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Inoltre l’ipotesi di rendere più conveniente l’anticipo del TFR con un apposito sgravio fiscale, in modo da favorire l’adesione dei lavoratori, determinerebbe da subito una riduzione delle entrate e una perdita di gettito contributivo per la quale andrebbe trovata da subito una nuova copertura. Un’ipotesi che però appare difficilmente percorribile».

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Tfr in busta paga, rischio flop

Tfr in busta paga, rischio flop

Valentina Conte – La Repubblica

Optare per il Tfr in busta paga, dal prossimo primo marzo, può costare caro. Il 40% in meno di ricchezza futura, se si scelgono i soldi subito anziché lasciarli in azienda. Addirittura tra due e tre volte in meno, se si rinuncia al fondo pensione. Anche per questo, la misura inserita dal governo Renzi nella legge di Stabilità rischia il flop. In ogni caso, nelle più rosee previsioni, l’auspicato impatto sui consumi non andrà oltre lo 0,1%. L’ufficio parlamentare di Bilancio, nella sua analisi della Finanziaria 2015, lo scrive chiaro: solo 2,7 miliardi dei possibili 4 miliardi richiesti verrebbero consumati. Il resto a bollette, rate, tasse.

Se dunque pure il caos burocratico fosse superato in tempo utile (manca ancora il decreto attuativo della norma a pochi giorni dalla sua entrata in vigore), i lavoratori ci penseranno bene. Primo, perché non si tratta di risorse extra (come il bonus da 80 euro), ma di soldi propri, di fatto un trasferimento di patrimonio. Secondo, perché le tasse sono più alte (l’anticipo è soggetto agli scaglioni ordinari Irpef e non alla più conveniente tassazione separata riservata alla liquidazione futura). La relazione tecnica alla legge di Stabilità quantifica queste entrate extra in 2,2 miliardi quest’anno e 2,7 il prossimo. Denari che andranno a compensare l’Inps, per i mancati incassi del Tfr dalle aziende più grandi, sopra i 50 addetti. Terzo motivo, perché ci si perde.

Basta guardare ai conti fatti per Repubblica da Progetica. Un trentenne che oggi guadagna mille euro netti al mese, può certo avere 2.800 euro nei prossimi 40 mesi (dal primo marzo al 30 giugno 2018). Ma rinuncia a 4.500 euro futuri, ottenuti lasciando i soldi in azienda, oppure ad 8 mila euro, destinando il Tfr alla previdenza integrativa. Peggio ancora per un quarantenne con busta paga da duemila euro: incassa circa 5.500 euro in poco più di tre anni, da qui al 2018, ma rinuncia nei due casi a 9.200 e addirittura 13.600 euro. Un cinquantenne con salario da 2.500 euro, porta a casa oltre 7 mila euro ora grazie all’idea del premier Renzi, sacrificando però oltre 11 mila e 13 mila euro, nei due casi (azienda e fondi), quando dovrà andare in pensione. E le perdite future, avverte Progetica, potrebbero essere anche più ingenti, se la speranza di vita del lavoratore fosse più ampia di quella stimata dall’Istat (nei tre casi, pari a 22, 21 e 20 anni, con età della pensione a 67 anni). Augurabile.

Il possibile flop della misura non è d’altronde legato solo al mero ed ovvio calcolo delle convenienze personali. Ma anche ad alcuni dati di fatto. Se, come scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare di Bilancio, almeno un terzo dei più bisognosi saranno tentati (redditi bassi e difficoltà di reperire credito), tra questi non vi saranno i giovani precari. I cocopro non hanno Tfr, i contratti a tempo determinato sono abituati a ricevere la liquidazione ad ogni cambio di contratto. E questo purtroppo avviene spesso. Chi ha già optato per i fondi è fuori. Come pure gli statali. L’operazione è poi irreversibile: si sceglie ora, si incassa fino al 30 giugno 2018, senza possibilità di rinunciarvi. In aggiunta, problemi di liquidità e contabilità per le aziende (soprattutto piccole). Infine, il segnale contraddittorio a giovani e famiglie: dopo aver caldeggiato il secondo pilastro per integrare magre pensioni, ora si spinge al consumo. Non solo, si aumentano anche le tasse sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%). Un capolavoro.

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

Scippo da 9 miliardi sui risparmi

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Gianni Zorzi, docente di Finanza dell’impresa e dei mercati e consulente per l’area Finanza di “ImpresaLavoro” – Panorama

Un fantasma si aggira, da anni, per l’Italia: la paura di un prelievo forzoso sui risparmi. Tipo quello di Giuliano Amato nel 1992, quando il Fisco incamerò improvvisamente il 6 per mille sulle giacenze dei conti correnti. In realtà questo timore appare infondato. Perché lo Stato ha già, di fatto, colpito pesantemente il risparmio degli italiani con una patrimoniale strisciante che, secondo una ricerca realizzata dal centro studi ImpresaLavoro, vale circa 9 miliardi di euro. Tanto per fare un confronto, se oggi venisse replicata la manovra di Amato sui conti correnti, si tratterebbe di un prelievo di 3 miliardi, un terzo rispetto agli aggravi imposti dal 2011 ad oggi dai governi di Mario Monti, Enrico Letta e Matteo Renzi.

Come si arriva a questo dato? Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale: in prima istanza, l’aumento tra la fine del 2011 e la metà del 2014 delle aliquote sui redditi di natura finanziaria che sono più che raddoppiate, passando dal 12,5 al 26 per cento, salvo eccezioni (come i titoli di Stato); in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni: oggi pesa per lo 0,2 per cento sui depositi di titoli (azioni, obbligazioni, titoli di Stato), sui depositi bancari, sui fondi e su alcune polizze, e per 34,20 euro per i conti correnti oltre una giacenza media di cinquemila euro.

Risultato: secondo le nostre ricerche, basate su dati e indici Banca d’Italia, Abi, ministero dell’Economia e Fideuram, la somma di questi interventi corrisponderebbe a un aumento del prelievo fiscale di 9 miliardi annui (corrispondente al 130 per cento in più) per il periodo 2011-2015. In particolare, l’incremento delle imposte sui rendimenti porterebbe un gettito pari a 11,2 miliardi nel 2015 a fronte dei 6,5 stimati per il 2011, nonostante la riduzione dei rendimenti medi di titoli di stato e di conti correnti e depositi bancari e postali; l’imposta di bollo, applicabile su quasi 2.200 miliardi di controvalore di attività finanziarie e depositi, dovrebbe pesare per oltre 4,4 miliardi nelle tasche degli italiani con un incremento di 4 miliardi rispetto al 2011; la Tobin tax, applicata dal marzo 2013, fornisce invece un prelievo marginale che non supera alcune centinaia di milioni l’anno, tanto da non superare, secondo alcune analisi, i costi commerciali derivanti dalla riduzione degli scambi di attività realizzati sui mercati italiani. A queste somme si aggiunga la stima del gettito sui conti correnti che continua a pesare sui risparmiatori persone fisiche nel caso di giacenze medie superiori a cinquemila euro, che risulta pari a circa 0,6 miliardi annui.

Quindi il prelievo complessivo sul risparmio degli italiani passerebbe dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015. La crescita del prelievo appare vertiginosa anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di Stato che dei depositi bancari (e senza considerare che negli ultimi cinque anni la ricchezza complessiva degli italiani si è ridotta di 814 miliardi di euro per colpa della crisi e della tassazione sugli immobili, come rivela un’indagine pubblica sulla Repubblica). C’è poi il capitolo previdenziale, cioé l’incremento della tassazione sulla rivalutazione di strumenti di previdenza come i fondi pensione e le casse previdenziali, nonché del trattamento di fine rapporto (Tfr).

Dopo un lungo tira e molla, gli aumenti sono stati approvati nella Legge di stabilità, e ora sono in vigore (con effetto peraltro retroattivo) sui rendimenti realizzati a partire dall’anno 2014. Per la previdenza complementare (fondi pensione, piani individuali pensionistici) si passa dall’11,5 al 20 per cento, mentre per le casse previdenziali di categoria l’incremento è dal 20 al 26 per cento. In entrambi i casi, l’aliquota sulla quota dei fondi investita in titoli di stato è agevolata al 12,5 per cento, ed è infine previsto un credito d’imposta condizionato che potrebbe in linea teorica compensare gli aumenti. Sul trattamento di fine rapporto, invece, la rivalutazione viene ora tassata al 17 per cento anziché all’11. Questi aumenti si ripercuotono sui montanti contributivi (cioè il capitale che il lavoratore ha accumulato nel corso degli anni lavorativi) specie per chi è a inizio carriera. Nello studio è emerso infatti che l’incremento delle aliquote applicate sui fondi pensione al 20 per cento potrebbe ridurre il montante contributivo di una percentuale compresa tra il 5 e l’8,6 per cento, mentre un eventuale ulteriore aumento al 26 per cento lo ridurrebbe di un importo tra l’8,3 ed il 14,1 per cento. Considerazioni analoghe si possono esprimere naturalmente anche sulle casse previdenziali, i cui giovani iscritti si dovranno attendere prestazioni a fine carriera ulteriormente ridotte di una percentuale compresa tra il 3,3 e il 5,5 per cento, mentre il giro di vite sul Tfr potrebbe ridurre le liquidazioni di chi si affaccia oggi al mondo del lavoro di un importo compreso tra il 3,6 e il 6,2 per cento.

Tornando al quadro generale dei guadagni di natura finanziaria, le varie riforme intervenute di recente hanno mirato soprattutto all’incremento generalizzato delle aliquote, evitando perciò di considerare alcune storture del particolare sistema di fiscalità vigente. Come la doppia tassazione degli utili delle società di capitali distribuiti sotto forma di dividendi (sono tassati sia gli utili che i dividendi), e il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite nel regime del risparmio amministrato. Si tratta di norme che, nel loro insieme, possono aumentare anche notevolmente il prelievo effettivo operato sulle tasche dei risparmiatori: per esempio, la tassazione su alcuni guadagni continua a intervenire anche se nel frattempo la stessa o altre attività detenute fanno registrare delle perdite. Si può quindi chiudere in perdita un portafoglio di investimenti, oppure in alcuni casi anche un singolo investimento, ed essere stati nel frattempo ugualmente tassati. Per i piccoli risparmiatori, tra rendimenti in picchiata e tassazione in aumento, il rebus investimenti si fa ancora più complesso.

La tassazione del risparmio in Italia

La tassazione del risparmio in Italia

ABSTRACT

Secondo le più recenti rilevazioni di Banca d’Italia, il totale delle attività finanziarie detenute dalle famiglie supera i 3.800 miliardi di euro. Su questa massa di attivi si è registrato a partire dalla fine del 2011 un progressivo e repentino inasprimento fiscale, che potrebbe proseguire nel futuro prossimo colpendo anche le rivalutazioni sugli strumenti della previdenza complementare. La stretta fiscale ha assunto forme diverse: in prima istanza, l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; in secondo luogo, l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; infine, la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.
Nell’immaginario collettivo persiste ancora lo spettro di un possibile e improvviso prelievo forzoso sulle attività finanziarie, come quello del 6 per mille operato sui conti correnti dal Governo Amato nel 1992; in realtà, tale intervento peserebbe oggi sulle tasche degli italiani per circa 3 miliardi di euro una tantum, mentre l’incremento della fiscalità ordinaria sul risparmio delle famiglie ha già assunto, in pochi anni e nel suo complesso, dimensioni ben più rilevanti. Secondo le nostre ricerche, infatti, ciò corrisponderebbe a un incremento di 9 miliardi annui (corrispondente al +130%) per il periodo 2011-2015, e si dovrebbe per 4,7 miliardi all’aumento delle aliquote sui rendimenti, per 4 miliardi all’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e per 0,3 miliardi alla Tobin Tax. Secondo le stime, basate su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram, il prelievo complessivo passerebbe quindi dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 attesi per il 2015.
L’incremento appare vertiginoso anche in considerazione del drastico calo della redditività, sia dei titoli di stato che dei depositi bancari. Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali, e trattamento di fine rapporto. Lo studio mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.
Tornando alle rendite finanziarie in generale, lo studio evidenzia che le varie riforme succedutesi in questi anni non hanno provveduto a risolvere alcune delle criticità intrinseche alla normativa, quali la doppia tassazione degli utili distribuiti sotto forma di dividendi, il complesso e non sempre equo meccanismo di compensazione tra guadagni e perdite. Si è rilevata anche la complessità dei calcoli di convenienza relativi alle opzioni di affrancamento concesse dal legislatore al momento degli aumenti fiscali. Vi è inoltre l’aspetto relativo alla tassazione di favore concessa ai titoli di stato rispetto ai titoli emessi da banche e imprese, a partire dal 2012. Le famiglie italiane potrebbero consolidare le tendenze riscontrate nel periodo 2011-2013, con la riduzione in misura lieve dell’impiego diretto nei titoli di stato (-1,3%), e un forte incremento di quello indiretto costituito da fondi comuni (+30,7%) e polizze vita (+9,5%), che godono di un’aliquota intermedia determinata dal peso della componente investita nel debito pubblico.
Scarica il Paper di Impresa Lavoro: La tassazione del risparmio in Italia tendenze evolutive ed effetti
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«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

«Troppi oneri»: il Tfr in busta non convince

Luigi Grassia – La Stampa

Continuano ad arrivare stime sulla propensione dei lavoratori italiani a incassare subito il Tfr maturato nel 2015 anziché aspettare la fine del rapporto d’impiego, nonostante lo svantaggio fiscale per chi sceglie la prima soluzione. Un’indagine della Confcommercio e della società Format Research rivela che i dipendenti che vogliono prendere i soldi al più presto sono una quota abbastanza piccola, solo il 18,1%. Peraltro questo già basta a preoccupare le aziende sul piano finanziario. Il campione riguarda i dipendenti delle imprese fino a 49 addetti; sono quelle per cui la scelta farà la differenza, infatti fino a ora trattenevano tutte le somme accantonate per il Trattamento di fine rapporto e le usavano come liquidità propria – mentre le aziende da 50 dipendenti in su versano i fondi all’Inps, quindi per loro niente cambia con una diversa destinazione del Tfr.

L’indagine si occupa in via preliminare di un problema di informazione e rivela che il 91,9% dei lavoratori dipendenti sa della possibilità di ricevere in busta paga il Tfr che maturerà nel 2015. Quanto alle intenzioni, il 18,1% dice di voler approfittare di questa opportunità, il 18% è indeciso e ben il 63,9% dei lavoratori dice di non volerlo assolutamente fare. Ma queste sono cifre medie, che vanno scomposte. L’intenzione di anticipare l’incasso del Tfr è più forte della media fra i lavoratori di sesso maschile, fra i giovani fino a 34 anni, fra i dipendenti delle imprese del Nord-Ovest, fra i «single», fra coloro che vivono ancora con la famiglia di origine, e fra chi è operaio o comunque svolge mansioni a carattere esecutivo. Come saranno usate le somme che i lavoratori incasseranno in anticipo? Il 60% di chi vuole subito il Tfr lo utilizzerà per maggiori consumi o per spese di cui ha necessità urgente, mentre l’altro 40% dice che ritirerà il denaro extra per risparmiarlo. Se ne deduce che un certo effetto di espansione dei consumi, come spera il governo, dovrebbe esserci. Naturalmente lo scotto è che peggioreranno le prospettive previdenziali.

Le imprese italiane con un numero di addetti fino a 49 sono circa un milione e mezzo. Una parte di queste nel 2015 dovrà versare un extra a una parte dei dipendenti e questo peggiorerà la condizione finanziaria media delle aziende, che sono già provate da anni di crisi economica e da una domanda interna ferma. Difficile valutare l’impatto positivo dei maggiori consumi, ma è certo che l’eventuale beneficio andrà a tutte le imprese, anche a quelle sopra i 50 addetti, mentre l’aggravio finanziario sarà solo per le più piccole. Dall’indagine risulta che a trovarsi più in difficoltà per le nuove regole sul Tfr saranno le aziende con un numero di dipendenti compreso fra 20 e 49, quelle che operano nel ramo industriale (anziché nel terziario) e quelle collocare nelle regioni del Nord Ovest e del Nord Est. Fra le imprese dell’industria (cioè manifattura e costruzioni) il 34,3% (circa 170 mila) subirà richieste di anticipo del Tfr in busta paga da parte di alcuni dipendenti. La quota sarà invece più bassa, attorno al 10%, fra le aziende del terziario (cioe commercio, turismo e servizi) e questo corrisponderà ad altre 110 mila imprese coinvolte, in totale 280 mila.

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Il calo del Pil abbatte le future pensioni

Vitaliano D’Angerio e Matteo Prioschi – Il Sole 24 Ore

Effetto Pil sulle pensioni. Perla prima volta dalla riforma Dini (1995), quanto messo da parte per la pensione non sarà rivalutato. Anzi. Dal “salvadanaio previdenziale” verranno invece tolti dei soldi. Il motivo è tutto in una percentuale: -0,1927 per cento. È il tasso di capitalizzazione 2014 per la rivalutazione dei montanti contributivi che viene calcolato ogni anno dall’Istat sulla base della serie storica del Pil (ultimi 5 anni). Quest’ultimo non cresce dal secondo trimestre 2011 e soprattutto sconta ancora il -5,5% registrato nel 2009. Il 27 ottobre scorso, ministero del Lavoro e Istat hanno inviato a ministero dell’Economia, Inps e Casse di previdenza un documento che sancisce il coefficiente negativo. «Si sottolinea che per la prima volta dall’entrata in vigore della legge sopra citata – si legge nel documento Istat – il coefficiente di rivalutazione risulta inferiore all’unità, a causa della dinamica negativa del Pil nominale nel periodo considerato».

Il «taglio»
La gravità del momento emerge anche dal testo della lettera. Ma che significa nel concreto?
Esempio: i 10mila euro versati fino a oggi nel corso della vita lavorativa andranno moltiplicati per 0,998073. Risultato? 9.980,73 euro. Senza dimenticare che in termini reali, e quindi al netto dell’inflazione, le pensioni contributive avevano già perso potere d’acquisto. «Decurtare una parte del montante contributivo è un fatto scandaloso – dichiara Giuseppe Romano, responsabile ufficio studi Consultique ed esperto di previdenza -. Tanto più che si arriva a tale decisione dopo l’inasprimento fiscale sulla previdenza integrativa».

Vale per tutti
Inoltre va ricordato che l’applicazione del tasso negativo riguarda tutti e non solo coloro che hanno cominciato a lavorare dopo il 1995, post legge Dini: la riforma Monti-Fornero del 2011 ha infatti stabilito il metodo contributivo pure per le persone che hanno iniziato un’attività lavorativa prima del 1995, in relazione ai contributi versati a partire dal 2012. Per questo motivo, diventa sempre più urgente la “busta arancione” ovvero l’estratto Inps con le stime della pensione attesa dal varo della riforma Dini. Il direttore generale Inps, Mauro Nori, ne ha garantito l’invio entro dicembre nella recente audizione alla commissione bicamerale di vigilanza.

Casse in movimento
Ci sono poi alcune Casse di previdenza che, in virtù della loro autonomia, hanno chiesto ai ministeri competenti di utilizzare un altro tasso di rivalutazione. È il caso dei consulenti del lavoro (Enpacl) e degli ingegneri (Inarcassa). «L’assemblea ha approvato questa modifica – spiega Alessandro Visparelli, presidente Enpacl -. Attendiamo la risposta. Agganceremo la rivalutazione al gettito contributivo complessivo della categoria. È previsto un rendimento minimo dell’1,5%». Stesso discorso per ingegneri e architetti che, dopo il via libera dei ministeri, legheranno la rivalutazione alla variazione media quinquennale del monte redditi degli iscritti. Anche qui vi è un rendimento minimo dell’1,5 per cento. A tale modifica infine vi sta lavorando pure l’Enpap, l’ente di previdenza degli psicologi: «Sì, stiamo pensando anche noi di individuare un diverso tasso di rivalutazione con la garanzia di un rendimento minimo», afferma Federico Zanon, vicepresidente di Enpap.

Fondi pensione e Tfr
Un valore minimo per il tasso di rivalutazione “generale”, invece, per il momento non è previsto da alcuna norma. A fronte del recente andamento dell’economia e delle previsioni per i prossimi anni, sarebbe opportuno un intervento legislativo che escluda la possibilità di applicare un tasso negativo, impedendo così l’erosione del montante accumulato, oppure consenta un’erosione “controllata” che nella peggiore delle ipotesi annulli le rivalutazioni degli anni precedenti ma non intacchi il capitale versato. L’applicazione di un indice negativo a un singolo anno non incide in modo consistente sulla pensione però si deve tener conto che ciò potrebbe ripetersi in futuro e che l’importo complessivo dell’assegno su cui potranno contare i lavoratori potrebbe ridursi ulteriormente quale effetto di due provvedimenti contenuti nel disegno di legge di Stabilità: l’opzione, per tre anni, di incassare subito il Tfr e l’aumento della tassazione sui fondi di previdenza complementare e le Casse dei professionisti.

Non si cresce con questa frittata

Non si cresce con questa frittata

Giorgio Mulè – Panorama

Oramai la frittata è fatta. Mettetevi il cuore in pace e non aspettatevi miracoli dalla legge di Stabilità, l’insieme di misure che avrebbe dovuto far uscire un’Italia Sfinita dalle secche della recessione. Panorama ha provato a far cambiare verso a una manovra che ci è apparsa fin dall’inizio sbagliata alla radice. Per tre motivi innanzitutto: perché tradiva clamorosamente l’impegno di tagliare cum grano salis l’enorme montagna della spesa pubblica, perché non stimolava gli investimenti, perché rubava il futuro ai giovani attraverso l’imbroglio dell’anticipo del Tfr e l’incremento delle tasse sui fondi pensione.

Le nostre analisi e le nostre preoccupazioni hanno trovato puntuale riscontro in tutti i pronunciamenti di chi, in Italia e in Europa, è chiamato a dare un giudizio di merito sulla legge di Stabilità: Banca d’Italia, Istat, Unione europea. La nostra crescita, per il 2015, è stata definita a Bruxelles «tiepida», «fragile» o addirittura «molto fragile», gli effetti della manovra sull’economia «nulli» dall’Istat per il biennio 2015-16, perché il governo metterà in circolo denaro aumentando ancora la spesa pubblica, mentre sulle pensioni Bankitalia ha annunciato l’apertura di un potenziale baratro dovuto alla possibilità di intascare il Tfr per i prossimi tre anni. Per non parlare della mannaia che incombe con le «clausole di salvaguardia», una gragnuola di nuove tasse sotto forma di aumento dell’Iva a cominciare dal 2016 e fino al 2018, e i nuovi balzelli che le regioni (già sul piede di guerra e recalcitranti per i risparmi da fare) potrebbero inventarsi dopo il taglio dell’Irap.

In questa situazione si inserisce il defatigante dibattito tutto interno al Partito democratico sul Jobs act con le lacerazioni e le minacce da una parte e dall’altra che hanno oggettivamente stufato. Chi potrebbe assumere non lo fa a causa della totale incertezza della normativa, chi potrebbe investire si tiene alla larga da un Paese incapace di tradurre in atti concreti gli annunci. Ma insomma: quando si potrà avere una linea chiara, senza bizantinismi e rinvii sine die? Quando si potrà capire se per i licenziamenti disciplinari sarà o meno prevista la possibilità che un giudice intervenga disponendo il reintegro con l’inevitabile indeterminatezza del suo giudizio? Tutto questo senza dimenticare che a ridosso di Natale, tanto per invogliare gli italiani a predisporsi con il migliore auspicio ai consumi, saremo chiamati a saldare il conto dell’Imu e della Tasi, ultimo atto di una tassazione della casa che non conosce eguali nel mondo moderno. E con questo la frittata è completa. Se Renzi, come dichiara a Bruno Vespa, vuol governare fino al 2023, faccia pure. Ma se non cambia registro, siamo fritti.

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Ecco perché il Tfr in busta costa caro al lavoratore

Paolo Baroni – La Stampa

Il Tfr un busta paga può certo far comodo, soprattutto ai redditi più bassi, ma è anche vero che rischia di creare un grosso buco nelle pensioni future, come ha denunciato lunedì Bankitalia. Quanto grosso? Proviamo a mettere assieme due conti.

Ipotizzando un salario netto di 1.650 euro (30 mila euro lordi/anno ) scegliendo di dirottare il Tfr in busta paga, secondo i calcoli dell’economista Stefano Patriarca pubblicati su lavoce.info, in 4 anni si incassano 9.232 euro, in pratica 164 euro in più al mese per 14 mensilità. Di contro, però, con 35 anni di anzianità il nostro lavoratore tipo, non iscritto alla previdenza complementare, a fine carriera oltre a maturare una pensione pari a 1.511 euro mensili dovrebbe rinunciare a circa 15 mila euro di liquidazione incassando 90.247 euro anziché i 105.227.

Nel caso di un lavoratore iscritto alla previdenza complementare l’impatto dell’operazione-Tfr, anziché sulla liquidazione, sarebbe sull’assegno integrativo. Ed anche in questo caso la perdita è evidente. Un lavoratore che non prende il Tfr in busta paga e dirotta sul fondo integrativo Tfr contributi dell’azienda e suoi contributi, dopo 35 anni ottiene un assegno mensile pari a 752 euro (346 con 20 anni di contributi). Chi prende il Tfr in busta paga per 4 anni rinuncia a circa 100 euro al mese di pensione integrativa: percepirà infatti un assegno di 651 euro al mese anziché di 752 (da sommare sempre alla pensione principale da 1.511 euro/mese).

Non sorprende dunque se il Mefop, la società che ci occupa dello sviluppo dei fondi pensione, ha buon gioco a sostenere che la previdenza complementare per un lavoratore è comunque sempre il miglior investimento. Quello che sorprende, forse, è che stiamo parlando di una società controllata dal ministero dell’Economia. E si badi bene: la convenienza, sostengono al Mefop, resta anche a fronte dell’aumento al 20% delle tasse sui fondi pensione. In questo caso i calcoli prendono in considerazione uno stipendio lordo iniziale di 18mila euro che cresce di un 1% medio annuo, una inflazione media annua del 2% ed un rendimento lordo del fondo pensione e del Tfr del 3% annuo: la scelta del Tfr in busta paga assicura 61,88 euro al mese per 14 mensilità, che in 5 anni diventano 4.331. Tenere in azienda questo Tfr per 5 anni prima di andare in pensione genera invece 5.532 euro netti di capitale, mentre investirlo in un fondo pensione ne frutta 6.096. Se la misura di anticipo del Tfr non fosse a termine, come chiede esplicitamente la stessa Banca d’Italia, in 10 anni si otterrebbero invece 8.663 euro in più di stipendio a fronte di 12.859 euro che verrebbero accumulati in azienda e 14.063 capitalizzati nel fondo pensione. Con un reddito di 25 mila euro, si otterrebbero invece 6.015 euro cash, a fronte rispettivamente di 7.602 e 8.467 euro dopo 5 anni di versamenti in azienda o nel fondo pensioni. Che diventano 12.033 di stipendio in più dopo 10 anni, a fronte di 17.692 euro accumulati in azienda e ben 19.532 euro prodotti grazie al fondo pensione.

Se oltre al Tfr si calcolasse anche la contribuzione del datore di lavoro e quella del lavoratore, più aumentano gli anni di contribuzione e ovviamente più la forbice si allarga. Il «top» si tocca con 40 anni di versamenti: il Tfr in busta paga (con 25 mila euro di reddito) varrebbe 57.881 euro (103 euro netti in più al mese) a fronte dei 167.948 che si otterrebbero lasciando il Tfr in azienda ed i 271.678 della previdenza integrativa. Che in base alle attuali regole corrispondono ad una rendita annua di 16.840 euro oppure in 135.800 euro di capitale più una rendita annua di 8.419 euro. Allora, conviene il Tfr in busta paga? Secondo la società del Tesoro assolutamente no.

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Il Tfr in busta, il fisco vince anche sotto i 15mila euro

Enrico Marro – Corriere della Sera

Bisognerà aspettare il testo definitivo del disegno di legge di Stabilità, quello che arriverà alla Camera. Ma se verrà confermato il nuovo regime fiscale sul Tfr (il Trattamento di fine rapporto) e sul fondi pensione, c’è da scommettere che questa sarà una delle parti sulle quali si concentreranno le richieste di modifica in Parlamento. Non solo perché le norme sarebbero retroattive, a partire dal 2014, ma perché penalizzanti sul piano fiscale. Bocciata, in particolare, l’operazione Ttr in busta paga. Non sarebbe per nulla conveniente trasferire il flusso annuale del trattamento di fine rapporto nella retribuzione mensile, nemmeno per quelle fasce di reddito che si collocano nella parte bassa.

Maurizio Benetti, esperto del settore ed ex dirigente generale dell’Inpdap, spiega che l’operazione non converrebbe neppure per le retribuzioni inferiori a 15 mila euro, quelle cioè che rientrano nel primo scaglione Irpef con aliquota del 23 per cento, questo perché, con l’aumento del reddito conseguente all’anticipo del trattamento di fine rapporto nello stipendio, diminuirebbero le detrazioni da lavoro dipendente e quindi «l’aliquota effettiva sul Tfr in busta paga sarebbe del 27,5%», un livello superiore a quello stabilito dal regime di tassazione separata previsto per chi lascia il Tfr in azienda e lo ritira al momento del pensionamento (liquidazione) oppure per chi se lo fa anticipare per gli usi consentiti dalla legge (acquisto della casa, spese per la salute, eccetera).

Per i redditi che arrivano fino a 15 mila euro infatti l’aliquota sarebbe intorno al 23%. E non scatterebbero le addizionali Irpef regionale e comunale, come invece sullo stipendio. Il governo, però, difende la manovra, sottolineando che si dà solo una possibilità in più al lavoratore il quale, se vuole, può prendere mensilmente il Tfr. Cariche di critiche arrivano in Parlamento anche le norme della manovra che prevedono l’aumento dall’11 per cento al 17 per cento dell’aliquota sulla rivalutazione annuale dello stesso trattamento di fine rapporto (ricordiamo che il possibile anticipo non vale per i dipendenti pubblici, i collaboratori domestici e i lavoratori agricoli) e al 20 per cento sui rendiment dei fondi pensione e al 26 per cento sugli investimenti delle casse previdenziali dei professionisti.