valentina conte

Tfr in busta paga, rischio flop

Tfr in busta paga, rischio flop

Valentina Conte – La Repubblica

Optare per il Tfr in busta paga, dal prossimo primo marzo, può costare caro. Il 40% in meno di ricchezza futura, se si scelgono i soldi subito anziché lasciarli in azienda. Addirittura tra due e tre volte in meno, se si rinuncia al fondo pensione. Anche per questo, la misura inserita dal governo Renzi nella legge di Stabilità rischia il flop. In ogni caso, nelle più rosee previsioni, l’auspicato impatto sui consumi non andrà oltre lo 0,1%. L’ufficio parlamentare di Bilancio, nella sua analisi della Finanziaria 2015, lo scrive chiaro: solo 2,7 miliardi dei possibili 4 miliardi richiesti verrebbero consumati. Il resto a bollette, rate, tasse.

Se dunque pure il caos burocratico fosse superato in tempo utile (manca ancora il decreto attuativo della norma a pochi giorni dalla sua entrata in vigore), i lavoratori ci penseranno bene. Primo, perché non si tratta di risorse extra (come il bonus da 80 euro), ma di soldi propri, di fatto un trasferimento di patrimonio. Secondo, perché le tasse sono più alte (l’anticipo è soggetto agli scaglioni ordinari Irpef e non alla più conveniente tassazione separata riservata alla liquidazione futura). La relazione tecnica alla legge di Stabilità quantifica queste entrate extra in 2,2 miliardi quest’anno e 2,7 il prossimo. Denari che andranno a compensare l’Inps, per i mancati incassi del Tfr dalle aziende più grandi, sopra i 50 addetti. Terzo motivo, perché ci si perde.

Basta guardare ai conti fatti per Repubblica da Progetica. Un trentenne che oggi guadagna mille euro netti al mese, può certo avere 2.800 euro nei prossimi 40 mesi (dal primo marzo al 30 giugno 2018). Ma rinuncia a 4.500 euro futuri, ottenuti lasciando i soldi in azienda, oppure ad 8 mila euro, destinando il Tfr alla previdenza integrativa. Peggio ancora per un quarantenne con busta paga da duemila euro: incassa circa 5.500 euro in poco più di tre anni, da qui al 2018, ma rinuncia nei due casi a 9.200 e addirittura 13.600 euro. Un cinquantenne con salario da 2.500 euro, porta a casa oltre 7 mila euro ora grazie all’idea del premier Renzi, sacrificando però oltre 11 mila e 13 mila euro, nei due casi (azienda e fondi), quando dovrà andare in pensione. E le perdite future, avverte Progetica, potrebbero essere anche più ingenti, se la speranza di vita del lavoratore fosse più ampia di quella stimata dall’Istat (nei tre casi, pari a 22, 21 e 20 anni, con età della pensione a 67 anni). Augurabile.

Il possibile flop della misura non è d’altronde legato solo al mero ed ovvio calcolo delle convenienze personali. Ma anche ad alcuni dati di fatto. Se, come scrivono gli esperti dell’ufficio parlamentare di Bilancio, almeno un terzo dei più bisognosi saranno tentati (redditi bassi e difficoltà di reperire credito), tra questi non vi saranno i giovani precari. I cocopro non hanno Tfr, i contratti a tempo determinato sono abituati a ricevere la liquidazione ad ogni cambio di contratto. E questo purtroppo avviene spesso. Chi ha già optato per i fondi è fuori. Come pure gli statali. L’operazione è poi irreversibile: si sceglie ora, si incassa fino al 30 giugno 2018, senza possibilità di rinunciarvi. In aggiunta, problemi di liquidità e contabilità per le aziende (soprattutto piccole). Infine, il segnale contraddittorio a giovani e famiglie: dopo aver caldeggiato il secondo pilastro per integrare magre pensioni, ora si spinge al consumo. Non solo, si aumentano anche le tasse sui fondi pensione (dall’11,5 al 20%). Un capolavoro.

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

La paralisi delle riforme, mancano all’appello 700 decreti attuativi

Valentina Conte e Roberto Mania – La Repubblica

Si fa presto a dire riforme: solo per attuare quella della pubblica amministrazione del ministro Marianna Madia ci vorranno almeno 77 decreti attuativi. Ventisei – ha calcolato la Cgil – per applicare, entro dodici-diciotto mesi, il decreto convertito in legge e pubblicato già sulla Gazzetta ufficiale (quello sulla mobilità degli statali, per capirci) e ben 51 per il disegno di legge delega (il “cuore” della riforma) che deve ancora cominciare il suo iter parlamentare. Tempi lunghi, insomma, al di là della promessa, e degli sforzi, della Madia di rendere totalmente operativo il decreto entro la fine di quest’anno. Anche per il Jobs Act di Giuliano Poletti serviranno per ciascuno dei cinque articoli di cui è composta la legge delega «uno o più decreti legislativi». Dunque almeno cinque. Senza pensare che tra sessanta giorni, altri due decreti legge – giustizia sui processi civili e Sblocca Italia – saranno leggi bisognose di attuazione. E dunque di regolamenti ministeriali. Passo dopo passo, la montagna si è stratificata a tal punto che per dare compimento a tutti i provvedimenti dei governi della Grande Crisi – Monti-Letta-Renzi – servono ancora 699 decreti attuativi, come confermato ieri dallo stesso Renzi e da Maria Elena Boschi, ministro (appunto) per l’Attuazione del programma.

Il passaggio delle riforme dalla carta all’attuazione pratica non è mai lineare e soprattutto non è mai veloce: le Province, per dire, sono ancora vive e vegete. La legge Delrio le avrebbe cancellate, ma senza i relativi decreti attuativi è come se le norme fossero scritte sulla sabbia. I decreti per la loro abolizione dovevano arrivare a luglio, ora tutto è slittato a questo mese. Vedremo. Ma questo è il nostro sistema di produzione legislativa nel quale solo una parte del compito spetta a Parlamento e governo mentre tutta la parte applicativa viene delegata ai “potenti” uffici ministeriali. L’ha scritto Sabino Cassese, uno dei maggiori studiosi italiani del diritto amministrativo: «Ma chi è il legislatore? Formalmente il Parlamento, nei fatti le burocrazie operanti sotto il comando del governo. Per lunghi periodi della storia italiana, attribuzione di pieni poteri al governo, controllo dei governi sul Parlamento, deleghe del Parlamento all’esecutivo hanno consentito alle burocrazie e ai governi di legiferare. Quasi nessuna delle grandi leggi della storia italiana è prodotto del solo Parlamento».

D’altra parte – è il governo Renzi che lo certifica nel suo “Monitoraggio sullo stato di attuazione del programma di governo“ aggiornato al 7 agosto scorso – il 62% dei provvedimenti legislativi varati dall’attuale esecutivo ha bisogno per essere effettivamente attuato di altri decreti, visto che meno della metà (precisamente il 38%) si applica da solo: in termini assoluti, su 40 solo 15 sono autoapplicativi. Risultato: servono 171 regolamenti. In percentuale il governo Renzi si muove nella media dei suoi predecessori. È stato infatti il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle sue ultime Considerazioni, a ricordare come delle 69 riforme approvate dai governi tra il novembre del 2011 (quando si insedia l’esecutivo di emergenza guidato dal professor Mario Monti) all’aprile del 2013 (governo di Enrico Letta) solo la metà era stata realizzata a dicembre 2013. Anche questo incide sulla nostra scarsa competitività. Ancora oggi, alla vigilia della nuova legge di Stabilità, mancano all’appello 59 provvedimenti attuativi della legge di Bilancio del governo Letta. Di più: per 25 di quei provvedimenti è addirittura scaduto il termine entro il quale andavano adottati.

Il decreto soprannominato enfaticamente “Decreto del fare” è rimasto al palo per circa la metà dei previsti decreti attuativi: su 79 ne sono stati adottati 40. Ne mancano ancora 39 per 12 dei quali sono pure scaduti i termini temporali. Pensiamo se fosse stato chiamato con un altro nome… Pessima la performance del “Destinazione Italia”: dei 32 decreti attuativi richiesti ne mancano ancora 26, dunque ne sono stati applicati solo sei. Continua ad essere in affanno anche il “Salva Italia” (governo Monti, fine 2011): mancano tuttora 12 decreti attuativi per cinque dei quali è scaduto il termine. Nel complesso ci sono ancora 258 provvedimenti amministrativi da adottare per rendere completamente operative le leggi varate dal governo Monti; 273, invece, per quelle del governo di Enrico Letta. In tutto ce ne sono da varare ancora 531 (ieri la Boschi ha detto che sono scesi a 528) relativi ai precedenti governi che sommati ai 171 dell’esecutivo Renzi fanno 702 decreti mancanti al 7 agosto, ora diminuiti a 699.

Come sempre, in questa lunga stagione di crisi economica, la parte del leone la fa il ministero dell’Economia: sono 36 su 171 i provvedimenti che devono essere definiti dalla struttura guidata da Pier Carlo Padoan. Segue il ministero dell’Ambiente con 24 e poi la presidenza del Consiglio dei ministri con 22. Vero è che il governo Renzi ha smaltito un arretrato del 40% targato Monti-Letta da quando si è insediato, a febbraio (889 provvedimenti da approntare, portati in agosto a 531, ora a 528). Innalzando così la percentuale di attuazione rispettivamente di 12 punti percentuali (governo Monti al 64%) e ben 23 punti (governo Letta al 37%, poco più di un terzo).

Ma ciò che colpisce è l’incredibile vacanza di decreti per leggi importanti, ormai “datate”. È il caso ad esempio della legge Fornero del lavoro, la molto discussa 92 del 2012. Ebbene, anche in questo caso mancano all’appello sei decreti attuativi su 16. Nel frattempo però, si sono succeduti ben due governi, l’attuale ha già modificato la disciplina dei contratti a termine e si appresta a varare il nuovo Codice del lavoro tramite il Jobs Act. La stratificazione normativa e la corsa a legiferare ad ogni costo portano a questi paradossi. Negando benefici concreti a chi poi deve applicare le regole, vecchie e nuove. Anzi aggiungendo confusione e favorendo conflitti interpretativi. Per rimanere nel campo del lavoro, c’è da segnalare l’assurda storia del credito d’imposta previsto dal decreto Sviluppo 83 del 2012 (“Misure urgenti per la crescita del Paese”), entrato in vigore il 26 giugno di due anni fa e predisposto dall’allora ministro Corrado Passera. La norma assicura benefici fiscali (un abbattimento del 35% del costo aziendale per un massimo di dodici mesi) a quelle imprese che assumono a tempo indeterminato ricercatori, laureati o dottorati per svolgere attività di ricerca e sviluppo. Ecco, fino a pochi giorni fa questo bonus non era operativo, pur essendo previsto da una legge dello Stato. L’attuazione era demandata al solito decreto interministeriale da emanare entro 60 giorni. Decreto arrivato il 23 ottobre 2013 (oltre un anno dopo, governo Letta) che a sua volta prevedeva un “decreto direttoriale” del ministero dello Sviluppo, firmato il 28 luglio scorso (governo Renzi) e pubblicato in Gazzetta ufficiale solo il 9 agosto scorso. Oltre due anni dopo la legge che lo istituisce, “urgente” e “per la crescita del Paese”. Con una disoccupazione giovanile alle stelle, la fuga dei cervelli e la spesa in ricerca ai minimi storici, passaggi burocratici biblici come quelli descritti lasciano davvero attoniti.

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Lo scandalo dei fondi europei: 500mila progetti di formazione non sono serviti a creare lavoro

Valentina Conte – La Repubblica

Una montagna di miliardi, sfuggita di mano. Ogni anno l’Italia spende cifre impressionanti in progetti finanziati con fondi strutturali europei, eppure nessuno è in grado di valutarne gli effetti. Se ad esempio favoriscono davvero l’inclusione sociale, se creano nuova occupazione e se questa è strutturale e come viene retribuita. Anzi, va persino peggio. Non solo non conosciamo l’efficacia della spesa, ma ogni euro di fondi ricevuti ce ne costa due in tasse: uno da versare all’Europa come membri dell’Unione e un altro come cofinanziamento, obbligatorio per utilizzare quei fondi. Eppure, nonostante il clamoroso black-out informativo, in cinque anni sono stati messi in campo ben 504mila progetti di formazione, per una spesa di quasi 7 miliardi e mezzo. Con quali benefici? La risposta dello studio curato dagli economisti Roberto Perotti e Filippo Teoldi e pubblicato sul sito lavoce. info è una sola: i benefici sono ignoti.
«Nessuno riesce a districarsi tra piani europei, nazionali e regionali», osserva Perotti, docente alla Bocconi e in passato consigliere economico di Renzi. «Centinaia di documenti stilati per fissare obiettivi che nessuno rispetta. E i soldi diventano una mangiatoia pazzesca per sindacati, assessorati regionali e provinciali». La soluzione per Perotti è una sola: «Non diamo più soldi a Bruxelles, così non rischiamo di vederli finire nelle mani dei maestri dello spreco, in un sottobosco politico parassitario». La tesi è ardita, ma suffragata dai numeri dello studio dal titolo “Il disastro dei fondi strutturali europei”.
Nel 2012 l’Italia ha versato 16,5 miliardi come contributi alla Ue e ne ha ricevuti in cambio solo 11, di cui 2,9 di fondi strutturali, tra Fse (per formazione, sussidi al lavoro, inclusione sociale) e Fesr (sussidi alle imprese e infrastrutture). Questi fondi per essere spesi devono essere “doppiati” tramite il cofinanziamento, dunque denari italiani. «Ottima idea, per coinvolgere il beneficiario. Ma se prendiamo il solo Fse, appena il 4% del finanziamento totale viene dalle Regioni (quasi niente dalle Province), il resto è finanziato in parti uguali da Stato italiano e Ue»». I soldi di questo fondo dunque «sono completamente gratuiti per i soggetti che poi attuano il progetto, cioè Regioni e Province». Di qui la prima stortura. «Lo scopo del cofinanziamento è completamente negato».
Lo studio passa poi ad esaminare la spesa per i progetti di formazione, che rappresentano la quasi totalità dei progetti dell’Fse (504 mila su 668 mila). Nel periodo 2007-2012 (dati OpenCoesione) ben 7,4 miliardi su 13,5 sono stati impiegati qui. La valutazione di questi corsi è «un’industria che non conosce crisi» e tiene in vita «decine di centri di ricerca» che hanno prodotto tra 2007 e 2011 ben 280 documenti di valutazione, per la stragrande maggioranza «inutili, un sottobosco nel sottobosco». Poiché nessuno è davvero in grado di raccontare l’efficacia dei corsi. Le variabili di solito citate sono la percentuale di soldi spesi e il tasso di occupazione. Ma la prima non è per forza indice di successo: si possono spendere molti soldi in progetti inutili o dannosi. E la seconda spesso è effetto della congiuntura, se non si riesce a misurare i posti di lavoro che davvero i corsi di formazione e gli stage favoriscono.
Il confronto europeo è poi agghiacciante. Se l’Italia tra 2007 e 2013 ha offerto corsi a 21mila persone, la Francia aveva 254mila iscritti e la Germania 208mila (dati del network di esperti sulla spesa dell’Fse per l’inclusione sociale). Ebbene, tra quelli che hanno completato le attività (appena 233 italiani, contro 50mila francesi e 32mila tedeschi), solo il 14% risultava poi occupato in Italia, contro l’85% della Francia e il 35% della Germania. Ma, aggiunge lo studio, «è possibile che i partecipanti italiani abbiano ricevuto servizi non finalizzati a trovare un posto di lavoro». Ma allora a che cosa servono questi corsi?

La Commissione europea, lo scorso marzo, sosteneva che grazie ai fondi Ue in Italia sono stati creati tra 2007 e 2013 più di 47mila posti, 3.700 nuove imprese, banda larga estesa a più di 940mila persone, sostegno per 26mila pmi, 1.500 chilometri di ferrovie e progetti di depurazione delle acque. La Corte dei Conti però, in febbraio, diceva che dal 2003 ad oggi gli “euro-furti” (frodi, imprenditori fasulli, finti progetti, costi gonfiati, incarichi irregolari) hanno raggiunto la cifra record di un miliardo e 200 milioni. Solo nel 2012 ne sono stati scovati 344 milioni (al top la Sicilia con 148 milioni finiti nelle tasche sbagliate, vedi il caso del deputato pd Genovese che secondo le accuse in cinque anni avrebbe lucrato ben 6 milioni di euro di fondi europei destinati proprio alla formazione professionale). Nel 2013 poi la Guardia di Finanza ne ha recuperati altri 228 di milioni. Arrivati come fondi strutturali, poi finiti nelle tasche del malaffare. E certo non usati per creare posti o crescita.