Corriere della Sera

Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Nel 2015 il 60% dei contratti fissi con gli incentivi pubblici

Francesco Di Frischia – Corriere della Sera

Su dieci contratti a tempo indeterminato stipulati nel 2015, in 6 casi il datore di lavoro ha beneficiato degli sgravi contributivi previsti dallo Stato. In termini assoluti su 2 milioni e 363 mila assunzioni a tempo indeterminato o trasformazioni di contratto a termine, 1 milione e 442 mila hanno potuto usufruire degli incentivi straordinari previsti dal governo. È il risultato di un’analisi fatta dal Centro studi «ImpresaLavoro» elaborando dati Inps. Per capire quanto siano stati importanti i contributi pubblici sul numero totale delle nuove attivazioni a tempo indeterminato, è utile analizzare il loro andamento mensile: a dicembre, ultimo mese disponibile per accedere al beneficio, sono stati attivati 181.900 contratti a tempo indeterminato contro gli 81.558 medi mensili del resto dell’anno, fa notare l’associazione che facendo trapelare un po’ di preoccupazione si chiede: «Cosa succederà quest’anno?».

Complessivamente nell’ultimo anno sono stati attivati 5 milioni e 408 mila nuovi rapporti di lavoro, (+11,1% rispetto al 2014). Di questi contratti, sottolinea ImpresaLavoro, il 62% è rappresentato da assunzioni a termine (3 milioni e 353 mila), il 3,4% da contratti di apprendistato (184 mila) e il restante 34,6% (1 milione e 87 mila) da assunzioni a tempo indeterminato. I contributi statali hanno riguardato tra queste nuove attivazioni il 57,7% dei casi. Grazie anche a questi incentivi i nuovi contratti a tempo indeterminato sono cresciuti su base annua del 46,9%. È calato invece drasticamente il ricorso all’apprendistato (-20,3%) e rimangono stabili i contratti a termine (-0,4%). Un altro aspetto importante del mercato del lavoro tocca le trasformazioni: lo scorso anno se ne sono registrate 578 mila a tempo indeterminato (+44,8% rispetto al 2014). L’85% di queste trasformazioni sono riferite a contratti a termine con una crescita del 49,4%. Il restante 15% è costituito da contratti di apprendistato trasformati in rapporti a tempo indeterminato: in questo segmento la crescita su base annua è stata del 23,2%. Gli sgravi contributivi previsti dal governo hanno così influito su queste trasformazioni al punto che il 73,8% di questi contratti ne ha potuto beneficiare.

«L’analisi dell’andamento degli occupati in Italia – commenta Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – segnala come non vi sia stato un incremento sensibile dei nuovi posti di lavoro e come la decontribuzione abbia favorito l’attivazione di nuovi contratti a tempo indeterminato perché molto vantaggiosi e la trasformazione di rapporti di lavoro a termine o atipici. Un obiettivo perseguito dal governo con l’impiego di risorse consistenti».

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Carburanti, prezzi record in Italia: +17% sulla media UE

Carburanti, prezzi record in Italia: +17% sulla media UE

Francesca Basso – Corriere della Sera

Come sempre i dati vanno intrecciati. Se da un lato in questi giorni abbiamo assistito a una rafflca di ribassi sui carburanti per effetto della depressione dei mercati petroliferi internazionali (ieri però è tomata un po’ di calma e il prezzo medio nazionale praticato in modalità self della verde andava da 1,580 a 1,615 euro al litro, pompe no-logo a 1,572), dall’altro il prezzo di benzina e diesel nel nostro Paese continua a rimanere alto se paragonato al resto d’Europa: +17% rispetto alla media Ue, +9% nei confronti della Germania, +13% della Francia, +19% rispetto alla Slovenia e +26% all’Austria.
Una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, su elaborazione dei dati della Commissione europea (Weekly Oil Bulletin, 27 Luglio 2015), mette in evidenza che per l’incidenza di tasse e accise siamo sul podio: bronzo all’Italia con un peso del 63%, argento all’Olanda con il 64% e oro alla Gran Bretagna con il 66%. Tradotto sul prezzo della verde: 1,6164 euro al litro in Italia, 1,6460 euro in Olanda e 1.6338 euro al litro in Gran Bretagna, a fronte di un prezzo medio europeo di 1,3872 euro al litro. I cinque Paesi nei quali è più conveniente rifornirsi sono la Repubblica ceca (1,2245 euro al litro), la Lettonia (1,2217 euro), la Polonia (1,2135), la Bulgaria (1,1801) e l’Estonia (1,1710). Nel diesel siamo i secondi più cari d’Europa con 1,4329 euro al litro. Il primato resta al Regno Unito con 1,6410 euro, mentre il prezzo medio europeo è di 1,2206 euro.

20150807CorrieredellaSera

Una buona scuola anche se è privata

Una buona scuola anche se è privata

Giorgio Vittadini – Corriere sella Sera

Questa settimana sono attesi i decreti attuativi del pacchetto sulla «Buona scuola» con cui il governo intende «riscrivere le regole» del sistema formativo, come ha ribadito di recente il premier Matteo Renzi. Il progetto cerca di chiudere definitivamente l’annosa questione dei circa 123mila precari (obbligo imposto dall’Unione Europea), impiegando a questo scopo quasi tutti i fondi disponibili e lasciando ben poco ad altri obiettivi previsti nel piano, come la formazione degli insegnanfi o l’innovazione tecnologica. La proposta tocca anche altri punti importanti, come la carriera dei docenti legata al merito ma, nei complesso, avrebbe potuto essere più coraggiosa. Non bisogna dimenticare intatti che dalla scuola dipende chi saranno gli adulti di domani e come porteranno avanti la vita del Paese.

Studi internazionali certificano che una proposta formativa di qualità dipenda da: un progetto chiaro, condiviso, partecipato in modo attivo; un potere centrale che dialoga con le scuole flssando poche regole essenziali e controllando il raggiungimento degli obiettivi. Si tratta – alla radice – dei temi dell’autonomia, rimasti per lo più sulla carta a diciotto anni dalla legge 59 che sancì la trasformazione delle scuole in «istituzioni scolastiche dotate di autonomia gestionale e personalità giuiidica». Nemmeno il secondo principio essenziale all’evoluzione del sistema formativo, quello della parità scolastica, ha fatto passi avanti dalla legge 62 voluta ormai quindici anni fa dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, legge che, benché rimasta senza copertura finanziaria, ha equiparato scuole Statali e paritarie in un unico sistema pubblico.

Anche in tema di parità, studi comparati sui sistemi scolastici, insieme all’evidenza dei cambiamenti sociali in atto, mostrano come continuare a far coincidere «scuola pubblica» con «scuola gestita dallo Stato» sia ormai anacronistico e deleterio per il bene del servizio pubblico. Sistemi di scuole autonome e paritarie, di diritto pubblico e privato, sono concepiti ormai in tutti i Paesi avanzati per favorire una competizione virtuosa tra scuole in funzione della qualità e per costruire un sistema che valorizzi forza ideale, creatività ed energie presenti nel tessuto sociale, secondo il principio di sussidiarietà. È utile ricordare che in Italia le scuole paritarie sono promosse da ordini religiosi ma anche da laici di diverse estrazioni culturali e che il finanziamento pubblico della scuola privata è previsto è previsto in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea garantendo l’accesso e l’iscrizione libera e gratuita per tutti i gli studenti.

È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni, ma ad esempio a partire da una sperimentazione controllata, che preveda una autonomia piena, didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole statali. E, per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie. Questo permetterebbe senza traumi di continuare sul piano economico la strada intrapresa da Berlinguer su quello giuridico. E sarebbe un riconoscimento per i 2 miliardi e 680 milioni di euro che lo Stato risparmia grazie all’esistenza delle scuole paritarie con il loro milione di studenti. Nell’orizzonte delle riforme verso cui deve avviarsi il nostro Paese questo nuovo approccio alla scuola, prima o poi, dovrà essere intrapreso.

La dignità del lavoro autonomo

La dignità del lavoro autonomo

Dario Di Vico – Corriere della Sera

Due emendamenti e il governo ha rimesso le cose al loro posto. Nei confronti delle partite Iva erano stati commessi in sede di legge di Stabilità altrettanti errori/amnesie, non erano stati bloccati gli aumenti della contribuzione alla gestione separata Inps e si era ritoccato il regime dei minimi Irpef pasticciando e aumentando di fatto la pressione fiscale. Ieri, dopo lungo penare, e dopo diverse esternazioni del premier Matteo Renzi orientate al pentimento, la maggioranza ha trovato il modo di riparare. Il fatto stesso che il veicolo legislativo utilizzato sia il Milleproroghe – e non potrebbe essere altrimenti – la dice tutta sul carattere last minute di questa scelta. Tra le debolezze della politica dobbiamo abituarci a convivere anche con questa variante: di fronte a problemi che sarebbe facile esaminare con cura e risolvere per tempo si architettano, invece, soluzioni sbagliate per poi correre ai ripari con il fiato corto e all’ultimo minuto. Aggiungo che diversi parlamentari della maggioranza ieri hanno enfatizzato il risultato raggiunto ma vale la pena ricordare loro che stanno festeggiando un pareggio, non certo una vittoria.

Il difficile, per certi versi, comincia adesso. Se il governo, insieme in verità a un folto gruppo di parlamentari dell’opposizione, si è finalmente reso conto che la presenza di tante partite Iva e freelance non è una sciagura per l’economia, bisogna passare a una fase costruttiva che cerchi di tenere insieme riconoscimento professionale, promozione, welfare e carico fiscale. O nestamente non pare che una visione di questo tipo la si possa rintracciare, per ora, nel pur ricco dibattito interno al Pd ancora influenzato dalle problematiche della sinistra novecentesca. Il ministro competente, Giuliano Poletti, avrebbe potuto per tempo spingere in avanti la riflessione e invece gli è mancato il coraggio. Tra i tecnici che accompagnano l’azione del governo c’è sicuramente una maggiore percezione – rispetto al Pd – della discontinuità ma non hanno ancora oltrepassato le colonne d’Ercole del laburismo: il riconoscimento della modernità del lavoro autonomo.

Molte cose, infatti, ci stanno cambiando sotto gli occhi. La scomposizione del ciclo produttivo dovuta alla Grande Crisi è stata profonda e capita che anche in medie aziende ci possa essere un direttore commerciale, pienamente inserito nell’organigramma, ma inquadrato a partita Iva. E che dire del mutamento dei confini tra lavoro in ufficio e lavoro a casa? In quante professioni e in quanti bacini di competenze il numero degli indipendenti sta ormai superando il numero dei dipendenti? Si potrebbe continuare a lungo e portare cento esempi ma per prima cosa occorre cambiare metodo, individuare soluzioni di medio periodo e non solo emendamenti. Penso alla previdenza: i conti in attivo della gestione separata dell’Inps sono stati usati di volta in volta a copertura di altre spese ma è forse arrivato il momento di individuare un altro schema. Qualche idea circola tra gli addetti ai lavori e la si potrebbe vagliare con maggiore attenzione, anche perché quando arriverà a casa dei freelance l’attesissima busta arancione con la previsione delle loro pensioni non sarà un giorno facile per il governo in carica.

Anche sul terreno fiscale forse è giunta l’ora di cambiare registro. Le partite Iva possono concorrere a generare ripresa e ricchezza? Se la risposta è sì, anche le scelte di merito devono essere conseguenti e vanno adottate norme che incentivino a crescere. E non, come capita oggi, norme che inducono a rifiutare lavori per paura di uscire dal regime dei minimi.

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

L’idea del governo di adottare una «terapia d’urto» per chiudere definitivamente le graduatorie ad esaurimento è «comprensibile», ma «assumere tutti e subito i circa 140 mila precari avrà effetti molto negativi sulla scuola italiana abbassandone la qualità e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire». Il grido dall’allarme sul decreto che Matteo Renzi dovrebbe presentare domenica prossima a Roma e il consiglio dei ministri approvare il 27 febbraio, è contenuto in un documento della Fondazione Agnelli, che da anni monitora e studia il sistema scolastico italiano: gli insegnanti che si stanno per assumere non sono quelli di cui la scuola avrebbe bisogno. Il direttore Andrea Gavosto e la sua squadra hanno confrontato numeri e proposte di quella che sarà la più grande «stabilizzazione di precari» della scuola degli ultimi trent’anni, mentre al ministero dell’Istruzione stanno scrivendo il testo del decreto, cercando di far tornare i conti di questa imponente operazione. Il punto di partenza dell’analisi della Fondazione Agnelli è che la promessa di assunzione di tutti i precari nelle graduatorie ad esaurimento non è stata preceduta da «un’analisi dei profili professionali necessari alla scuola italiana, ma si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare», spiega Gavosto. Dei problemi denunciati dalla Fondazione si stanno occupando anche nel governo e nel Pd, tanto che il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato che ci saranno delle correzioni.

Musica ed economia
Ma alcuni punti fermi restano. Come le ore di musica alle elementari: nelle graduatorie ci sono circa diecimila insegnanti di musica o strumento che verranno assunti a settembre. Così per economia e materie giuridiche, che il ministro Stefania Giannini ha annunciato verrà introdotta nelle superiori per una/due ore alla settimana, ma solo in terza e quarta, perché se si ampliasse l’offerta all’ultimo anno sarebbe necessario poi cambiare anche l’esame di maturità: ci sono almeno 3.000 insegnanti di questa classe di concorso nelle graduatorie, che altrimenti seguendo l’attuale fabbisogno della scuola che è di circa 200/400 insegnanti di economia ci metterebbero decenni ad essere assorbiti. Invece per una materia come la matematica non ci sono in molte regioni, a partire dalla Lombardia insegnanti in numero sufficiente nelle graduatorie ad esaurimento, neppure per coprire i posti di ruolo disponibili l’anno prossimo. Secondo gli esperti di «Voglioilruolo», il sito per prof che censisce graduatorie e scuole, risultano già esaurite le graduatorie per matematica a Como, Milano, Mantova, Ascoli Piceno, Roma, Pisa e Grosseto, Frosinone e Foggia: «In provincia di Milano – si legge nel testo della Fondazione Agnelli – servono ogni anno tra i 50 e i 100 insegnanti di matematica, nelle Graduatorie ad esaurimento ce ne erano a settembre solo 31».

La carica dei supplenti
Come si farà con gli altri posti? «Probabilmente continueranno ad essere almeno in parte coperti dai supplenti delle graduatorie di istituto, come avviene ora». Con il paradosso che in queste materie così importanti continueranno le difficoltà che si vorrebbero cancellare, a partire dai cambi continui di supplenti. «Non solo, se non si cambia il criterio di assunzione, si crea un problema di equità perché i prof che sono in queste graduatorie di istituto sono persone mediamente più giovani, con una preparazione e un’anzianità di servizio non inferiore a quella di chi verrà assunto, ma destinati a non diventare di ruolo», e a restare precari per chissà quanto tempo. Si aggiunga che proprio per materie importanti come quelle scientifiche proprio in questi giorni l’Ocse ha lanciato l’allarme: solo con professori più preparati ad affrontare le classi, usando metodi anche innovativi, si potranno migliorare la preparazione e i risultati dei ragazzi, che continuano a «soffrire» nei test proprio in queste discipline.

Nuove assunzioni
Il problema di questi precari fuori dalle graduatorie ad esaurimento è ben chiaro, non solo ai sindacati che oggi incontreranno il ministro Giannini, ma anche al governo tanto che il sottosegretario Faraone ha dichiarato che si sta pensando anche a loro, e qualcosa nel testo definitivo ci sarà: «Aspettate a dire chi sarà dentro e chi sarà fuori». Non sarà possibile cambiare molto ma potrebbero essere assunti almeno in parte a partire dall’anno prossimo, prima del concorso, per ora annunciato ma non indetto: il rischio restano i ricorsi in massa al Tar. «Ma il turn over nei prossimi anni è intorno ai 13 mila insegnanti all’anno. Si può ritenere che l’ingresso in ruolo dei 140 mila in blocco ostacoli per i prossimi dieci anni l’ingresso dei giovani neolaureati», si legge ancora nel documento elaborato dalla Fondazione. A tutto questo si aggiunge che i maestri e i professori che verranno assunti a settembre vivono lontano da dove il loro lavoro servirebbe. Le proiezioni sul numero di studenti in Italia nei prossimi dieci anni dicono che al Sud diminuiranno e cresceranno al Nord. E invece, per esempio, in una regione come la Sicilia, ci sono quasi 20 mila precari. Nel decreto, anche per non avere «migrazioni» di professori si sta pensando di irrobustire, con le nuove assunzioni, le scuole nelle zone più problematiche o dove i risultati dei ragazzi nei test internazionali non sono all’altezza, e dunque in molte aree del Sud.

La formazione rinviata
C’è un ultimo non secondario problema che non è stato risolto nei piani del governo: secondo l’approfondimento della Fondazione, di moltissimi di questi insegnanti non si sa nulla, se non i requisiti formali. «La metà di questi precari, che resteranno nella scuola per i prossimi venti anni, risulta non ha insegnato nelle scuole pubbliche negli ultimi anni – continua Gavosto – Una parte certamente lavora nelle scuole private, ma altri potrebbero aver intrapreso altre carriere e tornerebbero soltanto ora in vista di un posto a tempo determinato. Come pensiamo di prepararli al loro lavoro? Non è prevista alcuna verifica della loro preparazione e l’idea di un anno di prova non è sufficiente». Anche di questo si stanno occupando al ministero. Sempre Faraone: «Quest’anno i fondi sono per le assunzioni, il prossimo saranno per la formazione».

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

E Cottarelli disse: la riforma Madia? Non ha risparmi

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Gli ormai mitici testi della spending review dell’ex commissario Carlo Cottarelli, reclamati da più parti in nome della trasparenza, restano tuttora coperti dal mistero. In compenso l’Istituto Bruno Leoni ha dato alle stampe l’ultimo discorso ufficiale del commissario: la «Lectio Marco Minghetti», tenuta a fine 2014, commentata da Lucrezia Reichlin (London Business School) e Nicola Rossi (Università Tor Vergata Roma). Parole, quelle di Cottarelli, che suonano talvolta caute, talaltra accusatorie. Come quando afferma che «non bisogna farsi illusioni: la riforma è stata avviata ma è lontano dall’essere completata», o quando ammette che la parte del leone nella spending «l’hanno fatta i tagli alle spese di beni e servizi», e che va verificato ex post che «gli enti territoriali siano riusciti effettivamente a raggiungere i risparmi» senza aumenti di tasse.

Ed ecco i messaggi in bottiglia: al ministro della Funzione pubblica, Marianna Madia, dice che «gli obiettivi della riforma della P.a. non sembrano includere, almeno non esplicitamente, il risparmio di risorse»: «Spero si possa ovviare» è la chiosa. E ancora: «Non si può tar tinta che (con i tagli ndr) non ci siano risparmi in termini di personale». Al governo (Letta e Renzi, l’incarico di Cottarelli è a cavallo tra i due esecutivi) rimprovera la mancanza di obiettivi: «In un anno non ho mai sentito dire che una certa proposta di spesa non è accettabile perché è contraria ai nostri principi fondamentali su quello che lo Stato dovrebbe fare». Ma anche che «occorre riconoscere che spesso scelte impopolari sono necessarie». E possono «comportare revisioni che toccano non solo i soliti “pochi privilegiati”, ma anche un’ampia fascia della popolazione».

Ed è ancora un’accusa quella del commissario che dice: «La complessità dei testi legislativi è tale che i vertici dei ministeri a partire dai ministri hanno difficoltà» a seguirne la definizione: «Non è talvolta chiarissimo chi abbia scritto materialmente questo o quell’altro comma». O quando, sull’attuazione delle leggi, sollecita «controlli di sostanza e non di forma» e «penalità in caso di mancata implementazione». Infine una curiosità: proponendogli l’incarico, il ministro del Tesoro, Fabrizio Saccomanni, spiegò che «si cercava una figura che elevasse il profilo del dibattito sulla revisione della spesa». D’accordo sul profilo ma il bilancio, commenta Rossi, è «piuttosto deludente». Alla spending è «mancata una motivazione» di fondo, conclude Lucrezia Reichlin.

Redditi, uno su quattro sotto i 10mila euro

Redditi, uno su quattro sotto i 10mila euro

Enrico Marro – Corriere della Sera

«La distribuzione del carico fiscale e contributivo tra i lavoratori e le famiglie», illustrata nel Focus diffuso ieri dall’Istat, mostra un Paese dove il prelievo sul lavoro è eccessivo, in alcuni casi supera lo stipendio netto, ma pieno di incongruenze, spiegabili solo con un alto livello di evasione. Risultato: la progressività insita nel sistema penalizza molto chi non evade, in particolare coloro che hanno un reddito medio-alto. I dati sono del 2012. Data la crisi, la situazione dei redditi non ha subito cambiamenti di rilievo, mentre sul carico fiscale il governo Renzi è intervenuto prima con il bonus di 80 euro al mese e il taglio dell’Irap e poi con gli sgravi sulle assunzioni a tempo indeterminato.

Il costo medio del lavoro dipendente al lordo delle imposte e dei contributi sociali è stato di 30.953 euro nel 2012, ma al lavoratore sono entrati in tasca solo 16.498 euro netti (1.375 euro al mese), il 53,3%. Il resto, cioè il 46,7%, è andato in imposte e contributi, di cui il 25,6% a carico dei datori di lavoro e il 21,1% dei lavoratori. Il cuneo fiscale e contributivo cresce all’aumentare del reddito e quindi in genere con l’età, il titolo di studio, l’anzianità di servizio. Tra i dirigenti era del 52,2%. Passiamo ora dai dipendenti ai lavoratori autonomi. Il loro reddito lordo è stato in media di 23.432 euro, cioè circa 7.500 euro in meno di quello dei dipendenti, ma il netto praticamente lo stesso: 16.237 euro. Per gli autonomi, infatti, il cuneo fiscale e contributivo rappresentava in media il 30,7%.

L’incidenza delle imposte dirette sui redditi lordi al netto dei contributi sociali, continua l’Istat, è stata del 21,3% per i dipendenti, del 17,5% per i pensionati e del 17,1% (Irap inclusa) per gli autonomi e, tra questi ultimi, del 14,7% per gli artigiani e del 15,5% per i commercianti. «Il minor carico fiscale delle famiglie con reddito da lavoro autonomo — si legge nel Focus — particolarmente visibile nella classe di reddito fino a 15 mila euro, è da attribuire agli effetti di alcuni provvedimenti in materia di tassazione dei redditi degli autonomi e alla revisione al ribasso dei parametri degli studi di settore».

I dati che appaiono più distanti dalla realtà riguardano la distribuzione dei redditi lordi. Il 25,8% si colloca sotto i 10 mila euro (meno di 833 euro lordi al mese), il 54% tra 10 mila e 30 mila, il 17,6% tra 30 mila e 70 mila e solo il 2,4% oltre i 70 mila. Confermate le differenze tra lavoratori. I dipendenti con un reddito fino a 15 mila sono il 39%. Superano il 55%, invece, tra gli autonomi. Nel 2012 l’aliquota media del prelievo fiscale a livello familiare è stata del 19,4%: meno nel Mezzogiorno (16,3%), più nel Nord-Est (19,9%), nel Centro (20,1%) e Nord-Ovest (21%). «Data la progressività del sistema, l’aliquota media d’imposta cresce più che proporzionalmente all’aumentare del reddito». In particolare, «per i redditi superiori a 55 mila euro l’aliquota media applicata al reddito da lavoro dipendente risulta di 8 punti superiore alla componente da lavoro autonomo».

Sempre ieri, la Svimez ha diffuso uno studio sulla crisi e i redditi delle famiglie: sono mediamente scesi del 24,8% nel periodo 2007-12 nel Sud mentre al Nord sono cresciuti dell’1,7%. Infine, l’Ocse certifica che nel 2013 il Pil procapite in Italia era inferiore del 30% rispetto alla media dei primi 17 Paesi industrializzati mentre lo era del 22,7% nel 2007. Pil procapite che, dice l’Istat, è stato in media di 26.700 euro nel 2013 con forti differenze: 17.200 euro nel Mezzogiorno, 31.700 euro nel Centro-Nord. Al primo posto c’è la provincia di Bolzano con 39.800 euro, ultima la Calabria con 15.500.

Diecimila licenziati in un anno, ora anche il manager è partita Iva

Diecimila licenziati in un anno, ora anche il manager è partita Iva

Dario Di Vico – Corriere della Sera

A suonare l’allarme è stato Silvestre Bertolini, presidente della Cida, la confederazione dei dirigenti pubblici e privati. Secondo i numeri che ha dato ieri a Roma in un’assemblea sono circa 10 mila i manager privati rimasti senza lavoro nell’ultimo anno e per affrontare quest’emergenza la Cida chiede ammortizzatori sociali. In sostanza vuole che il governo nell’ambito dei decreti attuativi del Jobs act preveda contratti di ricollocazione anche per i dirigenti e crei un apposito Fondo presso l’Inps. Ora al di là delle richieste di carattere sindacale è positivo che i riflettori inquadrino il mondo della dirigenza. Va detto innanzitutto che a fronte di quelle 10 mila uscite non si sono persi altrettanti posti di lavoro, il turnover non è bloccato.

Secondo una recente e ampia indagine di Manageritalia – che fa parte del Cida – sui dati Inps, dal 2008 al 2013 il numero dei dirigenti è -4,5% mentre i quadri sono cresciuti del 10%. Capita infatti che persino un direttore di albergo con 80 camere o il direttore di un grosso supermercato venga assunto come quadro. Vale la pena ricordare come per la natura delle imprese italiane i dirigenti in Italia siano di meno che nelle altre aziende europee: nel 67% dei casi sono solo parenti dell’imprenditore.

Il numero complessivo diminuisce anche perché le multinazionali stanno andando verso strutture più piatte, dovute a un processo di accentramento dei livelli decisionali e in qualche caso di accorpamento dei country manager di Paesi limitrofi. Va infine tenuta presente la diffusione di figure contrattuali ibride che vanno dalla consulenza, al co.co.pro. o addirittura alla partita Iva con mono-committenza. In alcune medie aziende persino il direttore commerciale è a partita Iva. Sono state le ristrutturazioni aziendali a determinare quel grosso ricambio nella dirigenza di cui parla Bertolini. Il turnover tra i dirigenti privati è da sempre attorno al 20% l’anno, ma ora si può stimare che si sia passati dai 5 mila licenziati l’anno agli attuali 10 mila e la spiegazione del raddoppio sta nella chiusura di aziende ma anche nell’adozione di strutture manageriali piatte, di modelli organizzativi toyotisti e nel fatto che le Pmi continuano a non utilizzare manager esterni alla famiglia e nell’effetto spiazzante del digitale. Basta pensare l’impatto di una struttura di vendite online sulle tradizionali competenze commerciali.

Secondo l’indagine di Manageritalia prima si stava più a lungo nelle aziende, anche 8 anni, oggi si è passati a una media di 6. «Le competenze diventano vecchie in mesi e non più in anni» commenta Enrico Pedretti, il direttore marketing. Si raccontano così storie di dirigenti diventati tassisti, di altri che hanno dato vita a una start up, aperto un negozio o una catena di lavanderie in Brianza oppure del manager Dior che ha ristrutturato la casa di campagna a Siena e lanciato un agriturismo. Si è abbassato anche il livello delle indennità di buonuscita e spesso sono di soli sei mesi di stipendio e questo ha spinto la Cida a chiedere maggiore interlocuzione con il governo. Da qui a concepire dei veri ammortizzatori sociali però ce ne corre.

Riscoprire la cultura del lavoro

Riscoprire la cultura del lavoro

Maurizio Ferrera – Corriere della Sera

Per il mercato del lavoro italiano il 2015 potrebbe davvero essere l’anno di svolta. Grazie alla ripresa dell’economia, le imprese dovrebbero tornare ad assumere. E il Jobs act le incentiverà a offrire occupazione stabile, disciplinata dal nuovo contratto a tutele crescenti. Secondo gli esperti, entro la fine dell’anno questo tipo di contratto sarà adottato per circa la metà delle nuove assunzioni. Non si tratterà solo di un cambiamento di regole. Gradualmente si affermerà una nuova logica di rapporti fra imprese, lavoratori e Stato: più simile a quella degli altri Paesi europei, più efficace e inclusiva. È una grande scommessa, che sarà vinta solo nella misura in cui ciascuno capirà qual è la posta in gioco e come interpretare bene la propria parte. Per le imprese, tornare ad assumere in forma stabile significa recuperare la cultura del lavoro (quello dei propri dipendenti) come investimento, come un fattore produttivo che va coltivato dall’interno.

Le statistiche segnalano che negli ultimi vent’anni in Italia non si sono registrati molti progressi, ad esempio, in termini di addestramento on the job o di formazione permanente. I dipendenti precari sono stati poi relegati su binari secondari, spesso utilizzati come risorsa «usa e getta». Non è un caso che i lavoratori italiani si sentano molto meno impegnati e coinvolti nell’organizzazione aziendale rispetto ai loro colleghi Ue. Lo scarso successo (sinora) dell’apprendistato e di tutte le forme di raccordo fra scuola e imprese è, almeno in parte, un segnale di poca attenzione per l’insostituibile ruolo che i datori di lavoro devono giocare nel contesto educativo e culturale dal quale reclutano il proprio capitale umano.

Anche per i lavoratori è necessario un cambiamento di mentalità. Veniamo da una tradizione in cui il posto fisso a vita è stato per generazioni l’obiettivo più ambito. Ancora oggi, a dispetto del precariato, l’Italia è il Paese Ue in cui la durata media del rapporto di lavoro è più lunga (15 anni) e in cui il numero di impieghi nel corso della vita è il più basso: due, rispetto ai quattro della Francia e ai cinque della Danimarca. Si tratta di una media che sconta l’inamovibilità del nostro pubblico impiego e l’onda lunga dell’articolo 18. Ma l’aspettativa del tempo indeterminato a vita è ancora molto radicata, anche fra i giovani. Contrariamente a quanto è successo nei Paesi nord europei, l’avvento della flessibilità in Italia ha coinciso con la precarizzazione, ossia uno stato di perenne insicurezza, frequenti interruzioni di reddito, «intrappolamento» nei settori meno qualificati del mercato del lavoro. Non sarà facile recuperare il significato positivo della parola flessibilità e convincere i giovani che – se si svolgono in contesti adeguati – la mobilità territoriale, il cambiamento del posto di lavoro o delle mansioni non sono un dramma e anzi possono diventare un’occasione di crescita. Senza questo salto culturale, le nuove logiche occupazionali sottese al Jobs act non potranno dare i frutti sperati. Per ottenere effetti virtuosi dalla riforma deve cambiare soprattutto lo Stato. Non so se il governo Renzi ne sia pienamente consapevole, ma la sfida è enorme.

La flessibilità non degenera in precarietà solo se l’amministrazione pubblica è in grado di fornire efficienti servizi di ricollocazione e formazione. Il nostro deficit inizia dalle scuole: la metà degli studenti italiani dichiara di non aver ricevuto alcun consiglio e consulenza mirata sui percorsi lavorativi post licenza e sulle proprie potenzialità. Negli altri Paesi questa è la norma per la quasi totalità degli allievi. La metà, di nuovo, dei lavoratori italiani dichiara che, in caso di perdita del posto di lavoro, la probabilità di trovarne un altro è molto bassa. Il dato medio Ue è inferiore di venti punti. Il segnale è chiaro: i servizi per l’impiego sono totalmente inadeguati rispetto alle esigenze di un mercato del lavoro flessibile. Difficile pensare di poterci allineare in tempi rapidi ai modelli nordici. Ma è urgente avviare un processo di riforma almeno simile a quello seguito da Francia e (soprattutto) Germania.

Qualche settimana fa l’Economist ha aperto una discussione sulla crescente diffusione del «lavoro a rubinetto»: la produzione di servizi in forma completamente decentrata da parte di mini-imprese capaci di sfruttare app, cellulari e tecnologia. Sarebbe la fine del lavoro dipendente come l’abbiamo conosciuto finora. È uno scenario futuribile da rivista settimanale, ma anche un segnale di quanto rapidamente l’economia stia cambiando grazie al progresso delle conoscenze. Vista dall’Italia, l’epoca del lavoro a rubinetto sembra un film di fantascienza. Ma non possiamo tirarci indietro rispetto alle concrete sfide di adattamento che oggi ci si pongono davanti. Rimbocchiamoci le maniche e facciamo uno sforzo collettivo per oltrepassare la soglia della flexicurity. Sarebbe un grande successo, e basterebbe per almeno una generazione.

Enti, fondazioni e authority: il collocamento dei non rieletti PD

Enti, fondazioni e authority: il collocamento dei non rieletti PD

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello. Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio.

Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi. Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica.

In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli. Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli. In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama.

Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano , ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione.

Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex. Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab srl, società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom.

La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli. Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi.

Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna.