scuola

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

Si diventa più liberi nella scuola pubblica o in quella privata?

E’ una domanda fondamentale raramente posta in Italia dove, per motivi storici, le scuole private sono state per decenni essenzialmente scuole cattoliche e quelle pubbliche, invece, scuole laiche che avrebbero dovuto iniettare negli studenti i valori prima del Regno e poi della Repubblica. Sempre per ragioni storiche, la libertà non era tra i valori che avessero grande priorità né nelle scuole private né in quelle pubbliche.

Interessante vedere come alla domanda rispondono M. Danish Shakeel e Corey A. De Angeliis nel EDRE Working Paper No. 2016-9. Insegnano e conducono ricerche alla University of Arkansas, dove diversi decenni orsono ha preso avvio il movimento dei diritti civili di cui la libertà è valore essenziale. Il saggio è intitolato Who is more free? A Comparison of the Decision Making of Private and Public School Principals (Chi è più libero un confronto del metodo decisionale dei presidi delle scuole pubbliche e private).

La letteratura economica e pedagogica sulla scuola pone l’accento sui risultati degli studenti in termini di apprendimento specialmente nelle discipline matematiche e scientifiche (quelle che meglio si adattano ai confronti internazionali, come quelli pubblicati periodicamente dall’Ocse). Il metodo utilizzato è differente poiché l’accento è sui valori,segnatamente sulla libertà.

L’analisi si basa sulla School and Staffing Survey SASS (del 2011 e del 2012) e riguarda in particolare la capacità dei presidi ad incidere su decisioni importanti delle scuole a loro affidate. Sotto il profilo tecnico, tramite una serie di regressioni statistiche per studiare le differenze (su sette temi principali) in cui i presidi di scuole pubbliche e private prendono decisioni. Vengono utilizzati due modelli: uno che tiene conto del background e della caratteristiche dei presidi ed uno che invece non ne tiene conto. La conclusione è che i presidi delle scuole private hanno una maggiore sfera di azione nelle principali aree di attività. E quindi riescono meglio dei presidi delle scuole pubbliche ad inculcare principi di libertà negli allievi.

Scuola, Stato e pluralismo educativo

Scuola, Stato e pluralismo educativo

di Carlo Lottieri

Ha in sé qualcosa di grottesco la volontà del ministro francese Najat Vallaud-Belkacem di escludere da tutte le scuole della Repubblica (in quanto ritenuta “sessista”) la favola di Cappuccetto Rosso. Sempre più spesso stupidità e politicamente corretto procedono assieme, restringendo gli spazi di libertà dei singoli. Sullo sfondo di tale vicenda, però, c’è una questione più generale che riguarda il nostro paese non meno che la Francia: e si tratta dei programmi ministeriali.

In Italia come in Francia, come in molti altri Paesi occidentali e non solo, le scuole sono istituzioni che godono di una libertà molto limitata. Un po’ ovunque, insomma, la classe politica di governo pretende di definire e orientare cosa deve essere insegnato nelle aule e in che modo. D’altra parte, fin dal diciannovesimo secolo l’istruzione di Stato è un pilastro fondamentale di un progetto ben preciso che punta a controllare l’intera società, tenendo sotto controllo gli spazi in cui i giovani definiscono i loro principi, valori e ideali.

In tal modo le aula scolastiche di Stato sono destinare a essere di volta in vola fasciste, laiciste, clericali, comuniste, tecnocratiche e via dicendo. Le classi politiche proiettano le proprie logiche sull’intera società e usano il sistema d’istruzione per manipolare le giovani menti. La relazione tra il giovane e la famiglia viene progressivamente svuotata, per favorire una maggiore uniformità culturale e “costruire” buoni cittadini, contribuenti ed elettori.

L’argomento usato dai difensori dell’educazioni di Stato è ben noto. Alle istituzioni pubbliche spetterebbe il compito di “liberare” la società dai pregiudizi. Un’élite di persone illuminate avrebbe insomma il compito di far crescere una società più moderna, aperta e tollerante, anche se poi resta sempre da definire quale si il vero contenuto di tali modernità, apertura e tolleranza. Senza dubbio l’idea di un’istruzione pubblica e comune a tutti muove comunque dalla tesi che vi è chi possiede un punto di vista e, per questa ragione, ha il diritto e il dovere di controllare il sistema d’istruzione.

L’alternativa esiste e si chiama pluralismo educativo. Opponendosi alla visione tecnocratica e statalista, questa tesi valorizza la diversità dei punti di vista e la necessità di meccanismi concorrenziali, così che all’interno della medesima società si possa scegliere tra proposte educative diverse. In tal modo ogni scuola dovrebbe essere spinta a sviluppare una propria modalità d’insegnamento e a individuare i contenuti più adatti a una vera crescita umana e professionale.

In questa visione le famiglie sono centrali. In una società liberale, d’altra parte, l’argomento statalista secondo il quale taluni genitori possono usare la propria funzione per inculcare idee violente, fondamentaliste ed estreme non può essere utilizzato per spogliare padre e madre del diritto a educare i figli secondo i propri valori. In linea di massima, nessuno ama i propri figli come la madre e il padre, e per questo motivo è bene che l’educazione sia primariamente nelle loro mani.

Ovviamente un padre che manipola il figlio fino al punto da spingerlo a trasformarsi di una “bomba umana” perde il diritto a prendersene cura, ma questa situazione-limita non può essere chiamata in causa per dissolvere la centralità della famiglia e per negare un fatto cruciale: e cioè che le scuole devono sempre rispondere di fronte ai genitori dei ragazzi di ciò che insegnano e del modo in cui lo fanno. Solo se gli istituti scolastici fanno di tutto per andare incontro alle esigenze delle famiglie possono sperare di avere un buon sistema educativo.

Abbiamo insomma bisogno non già di miniatri che ci dicano cosa i bambini devono leggere, quali materie devono studiare, in quali valori devono credere, ma invece di un mercato di soluzioni educative dierse fra loro, con o senza Cappuccetto Rosso. E abbiamo necessità di dirigenti scolastici che siano animati da uno spirito imprenditoriale e comprendano la necessità di mettersi al servizio dei giovani e delle loro famiglie, sforzandosi d’individuare le soluzioni migliori. La scuola, come ogni altro ambito, può funzionare se non è fuori mercato. È bene che lo si comprenda alla svelta.

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Otto motivi per bocciare “la buona scuola”

Davide Giacalone – Libero

Stiamo assistendo all’ennesimo spreco. La Camera dei deputati vota la riforma della scuola, consegnandola al Senato in un tripudio di politichese fine a se stesso. Ma per l’istruzione è ancora un’occasione persa. Per anni, ancora, parleremo di riforme scolastiche, con un percorso lineare che, a confronto, l’arabesco sembra un’autostrada nel deserto. Vediamoli, i punti qualificanti della riforma. Ma prima osserviamo il contesto: l’opposizione di destra non è riuscita a trovare una posizione o una tesi che ne rendesse distinguibile la politica; quella di sinistra, interna ed esterna alla maggioranza, insegue fantasmi e slogan che la relegano fra i ferri vecchi di un ideologismo estraneo alla realtà; il ministro dell’Istruzione non ha avuto alcun ruolo significativo, se non quello di essere rimasta al suo posto, cosa che deve all’avere cambiato partito, tradito gli elettori e trasmigrato trasformisticamente nel partito del nuovo capo; il governo esulta per la vittoria, ma, come vedremo, su non pochi punti mente sapendo di mentire. Ora la carovana trasloca al Senato, ove la più risicata maggioranza rende più emozionanti i voti. Il tutto, però, ignorando la sostanza. Cui ora mi dedico, dividendola in 8 punti.

1. ASSUNZIONI

La sostanza più sostanziosa consiste in 160mila assunzioni. Roba da matti, ma è così. Quanti insegnanti servono e a cosa, quindi di cosa devono essere capaci, sarà stabilito dopo averli assunti. Che altro devo dire? Giusto che 100mila sono promessi per quest’anno, dalle graduatorie a esaurimento. Quelle in cui c’è tanta gente che non ha fatto nulla di male, ma non ha mai neanche fatto un concorso. Cittadini truffati, che a loro volta incarnano una truffa. Per assumerli con un pizzico di cervello occorrerebbe fare i piatti entro giugno, quando la legge non sarà stata approvata. Quindi, delle due l’una: o non verranno assunti, o lo saranno a piffero. Propendo per la seconda. Intanto si vota, poi si vede. Achille Lauro sarebbe commosso. Assunta questa massa di persone i precari non saranno esauriti, quindi andranno a prender punti di vantaggio in un ipotetico futuro concorso. Mentre passano in coda quelli che il concorso lo hanno fatto e vinto, nel 2012. Pensare che la scuola sia un diplomificio non è bello, ma questa è un assumificio, che è pure peggio.

2. AUTONOMIA

La legge sventola la bandiera dell’autonomia scolastica. Al punto che nasce il Ptof (Piano triennale di offerta formativa). Il fatto è che quella bandiera garrisce al vento già da tempo, senza che abbia prodotto nulla di men che ridicolo. La libertà culturale non può essere territoriale, semmai individuale. Ha un senso se le famiglie possono scegliere la scuola, portandosi dietro i soldi. L’autonomia è una gran presa per i fondelli, se poi tutto confluisce nell’esame di Stato che presiede al totem baluba del valore legale del titolo di studio. Il Ptof «esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell’ambito della loro autonomia». Vorrei sapere cosa ha studiato chi compita in tal modo. Ma vorrei anche sapere come può esistere un esame di Stato se ciascuno fa quel che gli pare. Esiste perché la premessa è falsa. Tutto qui.

3. LAVORO

Ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Bene, una buona cosa. Se fosse una cosa, però. Negli ultimi tre anni della secondaria ci sarà alternanza fra scuola e lavoro. Almeno 400 ore nei tecnici e professionali e 200 per gli altri. Occhio al punto rivelatore: si potranno fare anche durante le vacanze. Questi hanno confuso l’attività lavorativa a scopo formativo con i lavoretti per guadagnarsi le vacanze, che da noi non esistono perché il datore di lavoro rischia la galera. Quel sistema funziona dove le aziende mettono bocca nella formazione e le scuole mettono piede nelle aziende. Altrimenti si chiamano «gite». Funzionano, inoltre, se non si limitano a occupare ore, ma se possono poi essere valutate. Chi e come dovrebbe farlo è un mistero che la riforma lascia tale.

4. SUPER PRESIDE

Il super preside non esiste. Egli, infatti «nel rispetto delle competenze degli organi collegiali, garantisce un’efficace ed efficiente gestione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche e materiali». Come ora, che non riesce a farlo. Possono scegliere chi assumere? No, possono piluccare negli albi territoriali. Possono formare una squadra di docenti che li coadiuvino. Funzionava cosi anche nella mia scuola, e parliamo dello sprofondo del secolo scorso. Possono valutare, confermando o allontanando, i neo assunti con contratto annuale. Ma a parte il fatto che quelli sono i 100mila cui è stata promessa la stabilizzazione a vita, come li giudica? Con che criteri? La verità è che tutto il capitolo dell’autonomia e dei poteri è un gran gargarismo, se a quelli non si legano i soldi, se al risultato formativo, misurato sugli studenti, non si associa la destinazione dei fondi.

5. SOLDI

A proposito di fondi, non è passata l’idea del 5 per 1000, che il contribuente potrebbe assegnare alla scuola frequentata dai figli. È stato stralciato, non cancellato. Avrei due obiezioni: a. Pago già, per la scuola, con le imposte sul reddito e le tasse d’iscrizione, quell’idea può venire solo a gente che non s’è mai guadagnata da vivere o ha sempre evaso le tasse, sicché non sa cosa significa pagare due volte la stessa cosa; b. In quel modo i soldi vanno non dove c’è la migliore qualità, ma genitori più ricchi.

6. DETRAZIONI

Buona la possibilità di detrarre, fino a 400 euro l’anno, le spese sostenute per mandare i figli alla scuola privata. Ma trattasi di occasione persa. Intanto perché 400 euro sono pochi. Poi perché si sarebbe dovuto operare in modo da far diventare ricche le scuole pubbliche buone, introducendo il buono di cui la famiglia dispone liberamente. Quello avrebbe comportato libertà di scelta, ma anche di premio alla qualità. Invece no, solo lo sconticino. Buono per il principio, ma solo per quello.

7. TECNOLOGIA

Nuove materie e nuovi insegnamenti restano lettera morta, perché sommersa dai vecchi insegnanti. 30 milioni sono stanziati per favorire l’aggiornamento tecnologico e la cultura digitale. Errore: bastava usare i soldi che ogni hanno si fanno buttare alle famiglie nei libri di testo, in questo modo disponendo di cifre serie (30 milioni non lo è) e digitalizzazione reale. In quanto al bonus di 50 euro a insegnante, dico solo che con le scarpe di Lauro, almeno, si camminava.

8. VALUTAZIONE

In quanto alla nuova scuola, intesa come nuova formazione culturale, è relegata nelle deleghe al ministro. Mica è di quello che si occupa la riforma. Aggiungete che continua a non esserci una valutazione costante, oggettiva e indipendente degli studenti e della loro crescita, quindi dei loro insegnanti e delle loro scuole. Per premiare i migliori. Tutto questo, quindi, non può che andare nel capitolo degli sprechi e delle occasioni perse.

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Sulla scuola tutti d’accordo: niente riforma, solo assunzioni

Davide Giacalone – Libero

Dalle stanze del governo assicurano che non si faranno barricate, in tema di riforma della scuola. Non sarà come per la riforma elettorale, dicono. Già questo solo serve a capire molto, visto che la riforma del sistema elettorale non è materia governativa, ma parlamentare, al contrario del riordino scolastico. Come a dire: sulla vita dei partiti, delle liste e degli eletti, non molliamo, sul resto accordiamoci.

Ma c’è una seconda ragione, per cui le barricate non avrebbero senso, perché a parte il gusto del baccano i due fronti, presunti contrapposti, sono totalmente convergenti nel volere assunzioni di massa nella pubblica amministrazione. L’unica differenza è che al governo promettono 160mila assunzioni, mentre gli oppositori ne vorrebbero di più. Come selezionarli, chi paga e a che servono sono quesiti lasciati a chi non abbia di meglio da fare nella vita. A chi non eccelle nell’arte del propagandista.

Ieri è stato reso pubblico il rapporto BetterLife, elaborato dall’Ocse. Su 36 paesi l’ltalia si colloca al gradino 23. Non un granché. Sull’istruzione, però, tocchiamo il minimo: 30. Ma degli indici percettivi non mi fido mai. Meglio guardare i risultati dei test Pisa: l’Italia è ai primi posti solo in un caso: giorni persi per studente. Siamo prodigi nel marinare la scuola. Matematica, lettura e scienze nessun primeggiare e spesso sotto la media. Desolante. Disaggregando i dati scopri che l’Italia scolastica riproduce quella produttiva: aree d’eccellenza europea e lande abbandonate alla deriva.

Non cambia nulla

Con la riforma in discussione tutto questo si consolida e conferma, perché si assumono quelli che già ci sono, posponendo anche i pochissimi vincitori di concorso vero. Si raccontano bubbole sulle nuove materie, ma le si mette nelle mani dei vecchi insegnanti. Ciò comporta il consolidarsi delle differenze di censo e di posizione geografica. Dicono: noi spenderemo soldi per la scuola. Falso: li spenderete per fare assunzioni. Roba neanche da democristiani governanti, ma da clientelari decadenti. Ecco la conferma: Davide Faraone, sottosegretario all’istruzione, si domanda perché ci si oppone al potenziamento dei presidi, tanto sono quelli che ci sono già. Si stupisce del fatto che tutti non vedano l’evidenza: non cambia nulla. E, comunque, il governo ha già mollato: l’autonomia scolastica resterà in mani collegiali. Non ci saranno misurazioni serie. Gli studenti svantaggiati resteranno fregati. I docenti cresceranno di numero, senza che la qualità s’alzi d’un capello.

Finta zuffa

Si poteva fare diversamente, facendo coincidere l’aumento del potere dei presidi con l’aumento delle loro responsabilità, promuovendo una seria misurabilità dei risultati (non la burletta dell’autovalutazione, che solo somari in carriera possono proporre senza sghignazzare). Sarebbe dovuto valere per ogni singolo docente, per ogni singolo preside, per ciascuna scuola: più qualità, più risultati, più carriera, più soldi. Lo stesso al contrario, con il segno negativo. Le parti che s’azzuffano, invece, sono solo correnti minimaliste o massimaliste del partito unico dell’assunzione pubblica, aderente alla federazione unica della spesa pubblica. Sono tutti convinti che sia un diritto avere soldi dallo Stato e che la spesa pubblica generi ricchezza. Il che è vero se si tratta di buoni investimenti, è falso se si generano mantenuti. I soldi che si danno agli incapaci vengono tolti ai capaci e quelli che si buttano nella spesa corrente improduttiva sono moltiplicatori di deficit, debito e miseria. Certo che non faranno le barricate: la pensano allo stesso modo.

Assunzioni e autopromozioni, così la scuola si boccia da sola

Assunzioni e autopromozioni, così la scuola si boccia da sola

Davide Giacalone – Libero

Due torti non fanno un’istituzione. Quelli che fischiano e scioperano contro la riforma, perché ci vedono la fine della scuola pubblica e l’avvento della spietata meritocrazia, dovrebbero dirci a quali allucinogeni testi fanno riferimento. Inoltre scioperano nel giorno in cui si sarebbero dovuti fare i test per valutare la preparazione degli studenti e protestano perché sono stati spostati per non essere cancellati, a dimostrazione che la scuola è l’ultimo dei loro pensieri.

I governanti che millantano come investimento per l’istruzione l’assunzione ope legis di personale docente, preso dalle pozze stantie e stagnanti delle graduatorie, quindi incorporando in via definitiva quel che non ha portato alcun beneficio neanche in via provvisoria, dovrebbero dirci se pensano di prendere in giro gli altri o se stessi. Pensare che per cambiare la scuola si debba partire con l’assunzione in via permanente di quelli che ci sono già stati e ci stanno, così confermando il passato e zavorrando il futuro, è un totale non senso. Né il governo può nascondersi dietro la sentenza della Corte di giustizia europea, che, dicono, impone quelle assunzioni. Non è vero: la Corte ha evidenziato un danno in capo a chi è stato imbrogliato con le graduatorie; si tratta di risarcire il danno, non d’imbrogliare tutti gli altri. È un tema sul quale ci siamo soffermati diverse volte, né ci sono novità: aumentando la spesa corrente si fa il verso al clientelismo di sempre, altro che cambiarlo.

Occupiamoci di un punto nuovo, rivelatore: il ministero dell’istruzione ha messo in rete un sito per l’autovalutazione delle scuole. È un tema fondamentale, che s’appresta a divenir burletta. In pratica si tratta della versione digitale del celeberrimo quesito: oste, è buono il vino? Ciascun preside si connette e compila il modulo, articolato in 49 indicatori e quesiti. Nessuno potrà chiedergli conto delle risposte che avrà dato, neanche nel caso in cui il vino fosse aceto. Al termine di questa profittevole applicazione, potrà confrontare i propri risultati con quelli che i suoi colleghi hanno inserito, con pari senso della realtà. Utilissimo.

Dice il sottosegretario, Davide Faraone: «Non stiamo mettendo voti né abbiamo creato un sistema per classificare le scuole». Peccato, perché è esattamente quel che si dovrebbe fare. E quelle informazioni dovrebbero essere messe a disposizione delle famiglie, in modo che possano scegliere a ragion ve­duta la scuola cui indirizzare i propri figli e i propri soldi. Certo, anche i soldi, perché la scuola si paga anche quando è pubblica ed è bene che sia il pagatore, non il pianificatore burocratico, a scegliere. Ma non si può fare, perché il personale dipendente è contrario. Non vogliono essere valutati. Il governo dovrebbe rispondere: valutati o licenziati, prego, scegliere. Un docente orgoglioso del proprio lavoro non teme la valutazione, la anela. E vuole che da quella dipenda lo stipendio. Ma sindacati e massa informe sono contrari, perché è dall’informità dell’insieme che discende il loro potere. La valutazione dovrebbe essere indipendente. Qui siamo all’indecenza dell’autovalutazione.

Vi segnalo anche due chicche, passate in commissione parlamentare, quali emendamenti al nulla che è la riforma in gestazione. La prima: le mense scolastiche devono essere rifornite a chilometro zero. Questi hanno scambiato il pasto dei bambini con le minchionerie del ristorante dove si paga di più per potere mangiare di meno. Nelle mense si deve fare attenzione al valore nutritivo dei pasti, non puntare a essere alla moda. La seconda: ci saranno dei corsi contro la discriminazione di genere. Meno male che non hanno pensato alle quote di genere, da rispettarsi per promossi e bocciati, ma la domanda è: tutte le altre discriminazioni sono benvenute? Vorrei sapere quali scuole hanno frequentato i parlamentari votanti roba simile. Se non altro per sconsigliare ad altri di metterci piede.

Tanto più che, dopo avere assunto più di centomila graduatoristi, pensano d’introdurre materie come la logica (per cui non sono portati), la musica (andiamo a orecchio o poi assumiamo maestri?), la computazione (che nel significato di «calcolare» si chiamava matematica) e l’insegnamento delle competenze digitali (credo si debbano pagare i ragazzi, capaci di spiegare molto ai loro insegnanti). In questo guazzabuglio di luoghi comuni e bischerate cubiche, i presidi, che non avranno nessuno dei poteri di cui ai primi annunci, dovranno redigere il Pof (piani di offerta formativa), uditi gli enti locali, le istituzioni, i centri culturali, sociali ed economici del territorio. Dove l’unica cosa chiara è la parola «territorio», che andrebbe zappato, affinché torni a veder germogliare almeno il buon senso.

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Scuola tradita dalla finta riforma Renzi

Davide Giacalone – Libero

Ecco l’ennesima riforma della scuola. E per l’ennesima volta parla d’insegnanti e non d’insegnamento. Per l’ennesima sarà negletto il solo diritto che andrebbe tutelato: quello degli studenti alla conoscenza. Sparito il decreto, annunciato a settembre e confermato a febbraio, il Consiglio dei ministri ha varato il disegno di legge. La carriera procederà per scatti d’anzianità, come è sempre stato, mentre il peso della meritocrazia resta indeterminato e posticipato. I presidi potranno scegliere chi far insegnare, ma non dalle liste del loro istituto, bensì da quelle degli assunti ope legis. Che razza di scelta è? Le valutazioni saranno autoreferenziali e prive di oggettività, quindi non saranno valutazioni. Gli insegnanti avranno a disposizione 500 euro per la loro riqualificazione culturale.

Non ci crederete, ma potranno comprare libri, come anche andare al teatro o ai concerti. C’è lo sgravio fiscale per chi manda i figli alla scuola privata, che è un principio giusto. Ma molto limitato. ll resto è sindacalese. A settembre il governo annunciò che sarebbero stati assunti 150mila insegnanti. A febbraio erano 120 mila. Ora sono diventati 100mila, ma da quando la riforma sarà a regime (quando?). Dietro queste assunzioni non c’è alcuna idea della didattica, ma solo problemi di quattrini. Ma la cosa impressionante è che a sentir queste cose sembrerebbe che in Italia manchino gli insegnanti, invece ce ne sono più che altrove. Gli studenti (dati 2013) sono 7.862.470, gli insegnanti in organico 625.878, i posti di sostegno 97.636 e i dirigenti scolastici 1.584. Da noi il numero di alunni per insegnante è costantemente inferiore alla media dell’Unione europea. Abbiamo più insegnanti degli altri per ciascun alunno. Se ne mancano sempre è perché  l’organizzazione è penosa. Cambiano quella? No, assumono gente. Bandiscono concorsi? No, li prendono dalle graduatorie a esaurimento (nostro e dei nostri soldi).

Quelle graduatorie sono un’infamia. Una colpa dello Stato, che ha illuso chi ne fa parte. Un peso per la scuola, perché dentro c’è un fritto misto con gente che ha fatto concorsi e altra che ha fatto corsi abilitativi aventi valore concorsuale. Un gargarismo burocratico. Assumere senza concorso, nella scuola come nella giustizia come in altri uffici pubblici, non solo viola il diritto dei cittadini che devono avere un servizio, ma anche di quelli che vorrebbero concorrere e non trovano concorsi. Il precariato non è una condizione sociale, ma il frutto dell’illegalità. Una volta assunti continueranno a fare carriera con scatti di anzianità, che favoriscono la letargia culturale, umiliano i bravi insegnanti e mandano al macero le promesse di meritocrazia. Più che cambiare verso, qui si fa il verso al passato peggiore. Ricordate che nella scuola primaria (con i bambini) il 77,2% del personale ha più di 40 anni, con il 39,3% che ne ha più di 50. Nella secondaria gli over 50 sono la metà. Medie nettamente superiori sia a quelle Ocse che a quelle Ue. Nelle graduatorie ci sono coetanei.

Dice Matteo Renzi: servono più insegnanti per tenere aperte le scuole di pomeriggio. Deve averle prese per circoli ricreativi. Gli insegnantí servono per insegnare, e se assumi quelli che hai di già è ovvio che non cambi di un capello la didattica. Ad esempio: chiedere la scuola digitale è inutile se ti ritrovi con insegnanti analogici e libri di testo a quintalate, scaricati sulle spalle dei ragazzi solo per fare una marchetta agli editori. In Italia le famiglie, con minori, dotate di computer arrivano all’84%; quelle che hanno anche accesso a internet al 79%; il 52% dei bimbi ha già usato il computer a 3 anni; e il 32, entro i 6 anni, lo usa tutti i giorni. Nel mondo in cui tutti usano il digitale, dov’è l’oasi d’arretratezza analogica? Nella scuola. Il che falsa anche i conti, perché è vero che la spesa pubblica per l’istruzione, in Italia, ammonta al 4,7% del prodotto interno lordo, mentre la media Ocse è il 5,9. Ma si dimentica di aggiungere che sommando la spesa sopportata dalle famiglie andiamo sopra. Conquistando record di spreco. La valutazione degli insegnanti verrà fatta all’interno dell’istituto. Quindi il cambiamento consiste nel non cambiare. Se stessimo parlando seriamente, invece, il servizio di valutazione andrebbe affidato a privati, così. in caso di cattivo funzionamento, cambi il fornitore, non la legge. Così puoi rescindere un contratto, mentre qui non licenzi nessuno. La valutazione, del resto: a. non serve a nulla se non è standardizzata e paragonabile, pertanto nazionale; b. non si concentra sui risultati, quindi sugli studenti e quel che hanno imparato; c. non è finalizzata ai premi di carriera e alla destinazione dei soldi.

Tutto questo comporta la capacità di distinguere fra una cattedra e 1’altra, fra una scuola e l’altra. Per farlo, seriamente, si deve abbattere il totem fesso e mendace del valore legale del titolo di studio. Prima di quel giorno vedrete sempre lo stesso film: parole di rinnovamento e richieste di rifinanziamento per approdare a realtà di conservazione e dilapidazione. Che sarà pure una tradizione nazionale, ma è anche un crimine contro gli studenti e un modo per affondare la qualità della produzione futura.

Una buona scuola anche se è privata

Una buona scuola anche se è privata

Giorgio Vittadini – Corriere sella Sera

Questa settimana sono attesi i decreti attuativi del pacchetto sulla «Buona scuola» con cui il governo intende «riscrivere le regole» del sistema formativo, come ha ribadito di recente il premier Matteo Renzi. Il progetto cerca di chiudere definitivamente l’annosa questione dei circa 123mila precari (obbligo imposto dall’Unione Europea), impiegando a questo scopo quasi tutti i fondi disponibili e lasciando ben poco ad altri obiettivi previsti nel piano, come la formazione degli insegnanfi o l’innovazione tecnologica. La proposta tocca anche altri punti importanti, come la carriera dei docenti legata al merito ma, nei complesso, avrebbe potuto essere più coraggiosa. Non bisogna dimenticare intatti che dalla scuola dipende chi saranno gli adulti di domani e come porteranno avanti la vita del Paese.

Studi internazionali certificano che una proposta formativa di qualità dipenda da: un progetto chiaro, condiviso, partecipato in modo attivo; un potere centrale che dialoga con le scuole flssando poche regole essenziali e controllando il raggiungimento degli obiettivi. Si tratta – alla radice – dei temi dell’autonomia, rimasti per lo più sulla carta a diciotto anni dalla legge 59 che sancì la trasformazione delle scuole in «istituzioni scolastiche dotate di autonomia gestionale e personalità giuiidica». Nemmeno il secondo principio essenziale all’evoluzione del sistema formativo, quello della parità scolastica, ha fatto passi avanti dalla legge 62 voluta ormai quindici anni fa dall’allora ministro dell’istruzione Luigi Berlinguer, legge che, benché rimasta senza copertura finanziaria, ha equiparato scuole Statali e paritarie in un unico sistema pubblico.

Anche in tema di parità, studi comparati sui sistemi scolastici, insieme all’evidenza dei cambiamenti sociali in atto, mostrano come continuare a far coincidere «scuola pubblica» con «scuola gestita dallo Stato» sia ormai anacronistico e deleterio per il bene del servizio pubblico. Sistemi di scuole autonome e paritarie, di diritto pubblico e privato, sono concepiti ormai in tutti i Paesi avanzati per favorire una competizione virtuosa tra scuole in funzione della qualità e per costruire un sistema che valorizzi forza ideale, creatività ed energie presenti nel tessuto sociale, secondo il principio di sussidiarietà. È utile ricordare che in Italia le scuole paritarie sono promosse da ordini religiosi ma anche da laici di diverse estrazioni culturali e che il finanziamento pubblico della scuola privata è previsto è previsto in quasi tutti i Paesi dell’Unione Europea garantendo l’accesso e l’iscrizione libera e gratuita per tutti i gli studenti.

È davvero arrivato il momento di dare una svolta. Non con grandi rivoluzioni, ma ad esempio a partire da una sperimentazione controllata, che preveda una autonomia piena, didattica, organizzativa e finanziaria delle scuole statali. E, per chi frequenta le paritarie, estendendo metodi di finanziamento già condivisi tra le diverse forze politiche, quali i voucher, i buoni scuola o altri contributi alle famiglie (attivi in diverse regioni tra cui Toscana, Emilia-Romagna, Lombardia) e prevedendo la detraibilità fiscale delle rette pagate dalle famiglie. Questo permetterebbe senza traumi di continuare sul piano economico la strada intrapresa da Berlinguer su quello giuridico. E sarebbe un riconoscimento per i 2 miliardi e 680 milioni di euro che lo Stato risparmia grazie all’esistenza delle scuole paritarie con il loro milione di studenti. Nell’orizzonte delle riforme verso cui deve avviarsi il nostro Paese questo nuovo approccio alla scuola, prima o poi, dovrà essere intrapreso.

Mala scuola

Mala scuola

Davide Giacalone – Libero

L’ultimo proclama recita: d’ora in poi si assumerà solo per concorso, nella scuola italiana. Per la verità quel “ora” data dal 1948, perché tale modalità è scolpita nell’articolo 97 della Costituzione, «salvo i casi previsti dalla legge». E quei casi hanno prodotto assunzioni di massa. È finita? Neanche per idea, perché si dice che da ora in poi ci vorrà il concorso, ma prima di “ora” c’è l’adesso e la prossima infornata di insegnanti sarà ancora ope legis, con apposito decreto legge il prossimo Consiglio dei ministri. Quanti insegnanti assumeranno, senza concorso? Neanche questo si sa, perché il numero varia da 120 a 148mila, ma Renzi ha detto che si attingerà a tutte le graduatorie esistenti, in cui si trovano al momento circa 500 mila insegnanti. Quando si sarà deglutito questo enorme rospo, ammesso che i ricorsi non provochino il rigurgito, non ci saranno altri posti, altre cattedre da assegnare. Per anni. A meno che non si voglia far crescere la spesa pubblica fino alle stelle, con conseguente, siderale, pressione fiscale. “Ora”, quindi, nel vocabolario della politica, significa: poi, un giorno, forse.

Con questo provvedimento si metterà fine alla precarietà e alle supplenze, dicono dal governo. No, procedendo in questo modo si rende sempre più precaria la formazione scolastica, cui suppliranno (con viaggi di studio e integrazioni private) solo le famiglie che possono permetterselo. La politica scolastica concepita come politica per chi nella scuola lavora, anziché per chi nella scuola studia, produce discriminazione a favore dei tutelati e a sfavore dei meritevoli. È una politica che segna il trionfo della coalizione fra somari, impiegati senza voglia né vocazione all’insegnamento e famiglie che alla scuola chiedono promozioni e pezzi di carta. La grande alleanza antimeritocratica. Con scorno di insegnanti e studenti interessati al sapere.

Come si potrebbe rimettere la scuola sui sani binari dell’apprendimento e della selezione? Tre cose, giusto per cominciare, e lasciando da parte la vera rivoluzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

1 . Standardizzare le valutazioni e monitorare in continuazione non solo i singoli istituti e studenti, ma anche i risultati che ottengono dopo essere usciti da scuola. Continuiamo a considerare paragonabili numeri, come il voto di diploma o quello di laurea, che paragonabili non sono. Da una parte si va larghi, dall’altra si gioca a far i severi, nell’insieme si ottengono numeri privi di senso comune. Il che vale anche per la valutazione dei docenti che, affidata ai dirigenti scolastici, risentirà di dinamiche solo marginalmente culturali o professionali. La standardizzazione delle valutazioni è pratica corrente in ogni processo produttivo che superi il livello degli scarpari. La si adotti anche a scuola, nel tempo sarà una preziosissima banca dati.

2. Soldi e carriere vadano dove le cose funzionano meglio. Un docente che ottiene risultati ragguardevoli (misurando i suoi alunni nel tempo) merita riconoscimenti economici e di carriera. Lo stesso per una scuola intera. Dove i risultati sono troppo sotto la media è segno che si deve mandare a casa insegnanti e dirigenti. Siccome il prossimo passo consisterà nell’assumerli in blocco, senza minimamente valutarli, si sta andando in direzione opposta.

3. Adottare massicciamente il digitale, anche per ridurre lo spreco di denaro, a carico delle famiglie, che comporta l’acquisto di testi scolastici talora sconfinanti nel ridicolo. Gli studenti sono ovunque digitalizzati, è la scuola ad essere rimasta analogica. Basta alibi pauperistici, grazie ai quali le Regioni stanno buttando valangate di quattrini nell’acquisto di ferraglia inutile, con gran goduria (riconoscente) dei venditori privati.

Non è tutto, non basta, ci vuole di piu. Lo so. Ma sarebbero provvedimenti che dimostrerebbero non solo la reale volontà di cambiare, ma anche di sapere come si può farlo. Richiederanno tempo, per produrre frutti, ma si sarà ben seminato. Qui, invece, si dice “ora” per significare “un di”, nel frattempo lasciando che la scuola sia redistributrice di spesa pubblica. Una fucina di mantenuti che è sempre meno possibile mantenere.

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

I nuovi prof assunti quasi tutti al sud e non insegnano materie che servono

Gianna Fregonara – Corriere della Sera

L’idea del governo di adottare una «terapia d’urto» per chiudere definitivamente le graduatorie ad esaurimento è «comprensibile», ma «assumere tutti e subito i circa 140 mila precari avrà effetti molto negativi sulla scuola italiana abbassandone la qualità e ostacolandone il rinnovamento per molti anni a venire». Il grido dall’allarme sul decreto che Matteo Renzi dovrebbe presentare domenica prossima a Roma e il consiglio dei ministri approvare il 27 febbraio, è contenuto in un documento della Fondazione Agnelli, che da anni monitora e studia il sistema scolastico italiano: gli insegnanti che si stanno per assumere non sono quelli di cui la scuola avrebbe bisogno. Il direttore Andrea Gavosto e la sua squadra hanno confrontato numeri e proposte di quella che sarà la più grande «stabilizzazione di precari» della scuola degli ultimi trent’anni, mentre al ministero dell’Istruzione stanno scrivendo il testo del decreto, cercando di far tornare i conti di questa imponente operazione. Il punto di partenza dell’analisi della Fondazione Agnelli è che la promessa di assunzione di tutti i precari nelle graduatorie ad esaurimento non è stata preceduta da «un’analisi dei profili professionali necessari alla scuola italiana, ma si è adottata una logica capovolta: assumo questi insegnanti e poi vediamo che cosa gli possiamo far fare», spiega Gavosto. Dei problemi denunciati dalla Fondazione si stanno occupando anche nel governo e nel Pd, tanto che il sottosegretario Davide Faraone ha annunciato che ci saranno delle correzioni.

Musica ed economia
Ma alcuni punti fermi restano. Come le ore di musica alle elementari: nelle graduatorie ci sono circa diecimila insegnanti di musica o strumento che verranno assunti a settembre. Così per economia e materie giuridiche, che il ministro Stefania Giannini ha annunciato verrà introdotta nelle superiori per una/due ore alla settimana, ma solo in terza e quarta, perché se si ampliasse l’offerta all’ultimo anno sarebbe necessario poi cambiare anche l’esame di maturità: ci sono almeno 3.000 insegnanti di questa classe di concorso nelle graduatorie, che altrimenti seguendo l’attuale fabbisogno della scuola che è di circa 200/400 insegnanti di economia ci metterebbero decenni ad essere assorbiti. Invece per una materia come la matematica non ci sono in molte regioni, a partire dalla Lombardia insegnanti in numero sufficiente nelle graduatorie ad esaurimento, neppure per coprire i posti di ruolo disponibili l’anno prossimo. Secondo gli esperti di «Voglioilruolo», il sito per prof che censisce graduatorie e scuole, risultano già esaurite le graduatorie per matematica a Como, Milano, Mantova, Ascoli Piceno, Roma, Pisa e Grosseto, Frosinone e Foggia: «In provincia di Milano – si legge nel testo della Fondazione Agnelli – servono ogni anno tra i 50 e i 100 insegnanti di matematica, nelle Graduatorie ad esaurimento ce ne erano a settembre solo 31».

La carica dei supplenti
Come si farà con gli altri posti? «Probabilmente continueranno ad essere almeno in parte coperti dai supplenti delle graduatorie di istituto, come avviene ora». Con il paradosso che in queste materie così importanti continueranno le difficoltà che si vorrebbero cancellare, a partire dai cambi continui di supplenti. «Non solo, se non si cambia il criterio di assunzione, si crea un problema di equità perché i prof che sono in queste graduatorie di istituto sono persone mediamente più giovani, con una preparazione e un’anzianità di servizio non inferiore a quella di chi verrà assunto, ma destinati a non diventare di ruolo», e a restare precari per chissà quanto tempo. Si aggiunga che proprio per materie importanti come quelle scientifiche proprio in questi giorni l’Ocse ha lanciato l’allarme: solo con professori più preparati ad affrontare le classi, usando metodi anche innovativi, si potranno migliorare la preparazione e i risultati dei ragazzi, che continuano a «soffrire» nei test proprio in queste discipline.

Nuove assunzioni
Il problema di questi precari fuori dalle graduatorie ad esaurimento è ben chiaro, non solo ai sindacati che oggi incontreranno il ministro Giannini, ma anche al governo tanto che il sottosegretario Faraone ha dichiarato che si sta pensando anche a loro, e qualcosa nel testo definitivo ci sarà: «Aspettate a dire chi sarà dentro e chi sarà fuori». Non sarà possibile cambiare molto ma potrebbero essere assunti almeno in parte a partire dall’anno prossimo, prima del concorso, per ora annunciato ma non indetto: il rischio restano i ricorsi in massa al Tar. «Ma il turn over nei prossimi anni è intorno ai 13 mila insegnanti all’anno. Si può ritenere che l’ingresso in ruolo dei 140 mila in blocco ostacoli per i prossimi dieci anni l’ingresso dei giovani neolaureati», si legge ancora nel documento elaborato dalla Fondazione. A tutto questo si aggiunge che i maestri e i professori che verranno assunti a settembre vivono lontano da dove il loro lavoro servirebbe. Le proiezioni sul numero di studenti in Italia nei prossimi dieci anni dicono che al Sud diminuiranno e cresceranno al Nord. E invece, per esempio, in una regione come la Sicilia, ci sono quasi 20 mila precari. Nel decreto, anche per non avere «migrazioni» di professori si sta pensando di irrobustire, con le nuove assunzioni, le scuole nelle zone più problematiche o dove i risultati dei ragazzi nei test internazionali non sono all’altezza, e dunque in molte aree del Sud.

La formazione rinviata
C’è un ultimo non secondario problema che non è stato risolto nei piani del governo: secondo l’approfondimento della Fondazione, di moltissimi di questi insegnanti non si sa nulla, se non i requisiti formali. «La metà di questi precari, che resteranno nella scuola per i prossimi venti anni, risulta non ha insegnato nelle scuole pubbliche negli ultimi anni – continua Gavosto – Una parte certamente lavora nelle scuole private, ma altri potrebbero aver intrapreso altre carriere e tornerebbero soltanto ora in vista di un posto a tempo determinato. Come pensiamo di prepararli al loro lavoro? Non è prevista alcuna verifica della loro preparazione e l’idea di un anno di prova non è sufficiente». Anche di questo si stanno occupando al ministero. Sempre Faraone: «Quest’anno i fondi sono per le assunzioni, il prossimo saranno per la formazione».

Reato sponsorizzato

Reato sponsorizzato

Davide Giacalone – Libero

Occupare una scuola, come un edificio o del suolo pubblico, è un reato. Elogiare pubblicamente un reato può avere un preciso significato politico e civile: siccome credo che sia sbagliato considerarlo un reato allora ne faccio l’apologia, o addirittura lo commetto, chiamando su di me la punizione proprio per mettere in evidenza quanto sia sbagliata. Si chiama disobbedienza civile. Ma qui siamo di fronte a un componente del governo (il sottosegretario all’istruzione, il democratico Davide Faraone), che esalta il valore formativo del commettere un reato, ma non lo fa per chiamare su di sé la punizione, che già non subì quando (a sua detta) commise il reato, bensì per attirare su di sé l’attenzione. Si chiama esibizionismo incivile.

Quanti occupano illegalmente le case popolari commettono un reato ed è giusto che si sgomberi. Eppure quelle persone hanno violato la legge in nome di un bene primario, ovvero il tetto sopra la testa. Perché le forze dell’ordine dovrebbero intervenire contro quelli e lasciar correre se le occupazioni di edifici pubblici non rispondono ad alcun bisogno reale? Quegli istituti hanno dei responsabili, che si chiamano presidi. Il compito dei presidi sarebbe quello di chiedere l’intervento delle forze dell’ordine. È naturale che nessuno assennato voglia far precipitare le cose o procurare guai ai ragazzi, ed è per questo che molti presidi provano a continuare il dialogo, chiudendo un occhio sull’occupazione purché si torni in fretta alla normalità. Ma che succede se il responsabile politico dell’istituzione afferma che è più formativa l’occupazione, ovvero un reato, della normale didattica? Succede che i presidi desiderosi di fare il preside si ritrovano pugnalati alle spalle, mentre quelli desiderosi di non fare niente ottengono l’avallo ministeriale. Bella roba.

La preside di un liceo romano, il Tasso, ha voluto impuntarsi. È andata al ministero, con una delegazione di genitori e di studenti. Sono stati ricevuti da un collaboratore del sottosegretario ed è stato, parole loro, un «dialogo fra sordi». Cioè: chi lavora per lo Stato ed è tenuto a far rispettare le leggi, accompagnato da chi manda i figli a scuola e dai figli che ci vanno, chiede udienza a chi dirige il settore dell’istruzione e manco li stanno a sentire, delegando un collaboratore del sottosegretario. Di quello stesso sottosegretario che aveva chiesto di essere invitato alle assemblee studentesche che si tengono durante le occupazioni, in modo da portare la solidarietà del governo alla commissione di un reato. Assemblee cui desidera partecipare per confrontarsi sul disegno di riforma della scuola, che gli studenti occupanti avversano, che il governo propugna, ma che ha un’esilarante caratteristica: non c’è. Non l’hanno scritto. Ci sono dei punti, a confronto dei quali nei Baci Perugina c’è vera letteratura.

Ho molte volte ripetuto che sono favorevole alla cancellazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. Ma sono in minoranza, quindi rimane. Chiedo: posto che occupare è un reato e posto che le notizie di occupazione sono pubbliche, come anche il commosso plauso ministeriale, per quale ragione le procure non aprono dei fascicoli? Magari riusciamo, per questa via, a dimostrare quel che sosteniamo da molto: nulla è più facoltativo di quella presunta obbligazione, utile solo a mascherare indagini farlocche, quando non pretestuose.

Ma c’è un altro corollario, discendente da quello che capita. Se dal ministero si può sostenere che l’occupazione ha valore formativo superiore a quello della scuola normale è perché quest’ultima sembra avere valore quasi nullo. E a giudicare dai risultati governativi, la tesi ha un suo fascino. Adesso, però, dirò una cosa che non so se sia di destra o di sinistra, ma profondamente giusta: senza una scuola formativa e duramente selettiva andranno ancora avanti i deficienti chiacchieroni e privilegiati, a tutto discapito dei bravi svantaggiati. La scuola di Faraone, la scuola delle occupazioni formative, è vigliaccamente classista, perché condanna gli ultimi a restare tali, togliendo loro l’ascensore sociale della selezione per merito.

Feci la scuola a Palermo, come Faraone. Ci furono le occupazioni, come ogni anno. A scuola mia gli occupanti furono arrestati, di notte. E mi dispiacque, molto. Se ricapita sapete a chi presentare il conto: a quel sottosegretario che ha scritto di avere scoperto, in quelle notti non scolastiche, il sesso e la politica. Spero solo che la prima cosa gli sia riuscita in modo meno imbarazzante della seconda.