precari

Mala scuola

Mala scuola

Davide Giacalone – Libero

L’ultimo proclama recita: d’ora in poi si assumerà solo per concorso, nella scuola italiana. Per la verità quel “ora” data dal 1948, perché tale modalità è scolpita nell’articolo 97 della Costituzione, «salvo i casi previsti dalla legge». E quei casi hanno prodotto assunzioni di massa. È finita? Neanche per idea, perché si dice che da ora in poi ci vorrà il concorso, ma prima di “ora” c’è l’adesso e la prossima infornata di insegnanti sarà ancora ope legis, con apposito decreto legge il prossimo Consiglio dei ministri. Quanti insegnanti assumeranno, senza concorso? Neanche questo si sa, perché il numero varia da 120 a 148mila, ma Renzi ha detto che si attingerà a tutte le graduatorie esistenti, in cui si trovano al momento circa 500 mila insegnanti. Quando si sarà deglutito questo enorme rospo, ammesso che i ricorsi non provochino il rigurgito, non ci saranno altri posti, altre cattedre da assegnare. Per anni. A meno che non si voglia far crescere la spesa pubblica fino alle stelle, con conseguente, siderale, pressione fiscale. “Ora”, quindi, nel vocabolario della politica, significa: poi, un giorno, forse.

Con questo provvedimento si metterà fine alla precarietà e alle supplenze, dicono dal governo. No, procedendo in questo modo si rende sempre più precaria la formazione scolastica, cui suppliranno (con viaggi di studio e integrazioni private) solo le famiglie che possono permetterselo. La politica scolastica concepita come politica per chi nella scuola lavora, anziché per chi nella scuola studia, produce discriminazione a favore dei tutelati e a sfavore dei meritevoli. È una politica che segna il trionfo della coalizione fra somari, impiegati senza voglia né vocazione all’insegnamento e famiglie che alla scuola chiedono promozioni e pezzi di carta. La grande alleanza antimeritocratica. Con scorno di insegnanti e studenti interessati al sapere.

Come si potrebbe rimettere la scuola sui sani binari dell’apprendimento e della selezione? Tre cose, giusto per cominciare, e lasciando da parte la vera rivoluzione: l’abolizione del valore legale del titolo di studio.

1 . Standardizzare le valutazioni e monitorare in continuazione non solo i singoli istituti e studenti, ma anche i risultati che ottengono dopo essere usciti da scuola. Continuiamo a considerare paragonabili numeri, come il voto di diploma o quello di laurea, che paragonabili non sono. Da una parte si va larghi, dall’altra si gioca a far i severi, nell’insieme si ottengono numeri privi di senso comune. Il che vale anche per la valutazione dei docenti che, affidata ai dirigenti scolastici, risentirà di dinamiche solo marginalmente culturali o professionali. La standardizzazione delle valutazioni è pratica corrente in ogni processo produttivo che superi il livello degli scarpari. La si adotti anche a scuola, nel tempo sarà una preziosissima banca dati.

2. Soldi e carriere vadano dove le cose funzionano meglio. Un docente che ottiene risultati ragguardevoli (misurando i suoi alunni nel tempo) merita riconoscimenti economici e di carriera. Lo stesso per una scuola intera. Dove i risultati sono troppo sotto la media è segno che si deve mandare a casa insegnanti e dirigenti. Siccome il prossimo passo consisterà nell’assumerli in blocco, senza minimamente valutarli, si sta andando in direzione opposta.

3. Adottare massicciamente il digitale, anche per ridurre lo spreco di denaro, a carico delle famiglie, che comporta l’acquisto di testi scolastici talora sconfinanti nel ridicolo. Gli studenti sono ovunque digitalizzati, è la scuola ad essere rimasta analogica. Basta alibi pauperistici, grazie ai quali le Regioni stanno buttando valangate di quattrini nell’acquisto di ferraglia inutile, con gran goduria (riconoscente) dei venditori privati.

Non è tutto, non basta, ci vuole di piu. Lo so. Ma sarebbero provvedimenti che dimostrerebbero non solo la reale volontà di cambiare, ma anche di sapere come si può farlo. Richiederanno tempo, per produrre frutti, ma si sarà ben seminato. Qui, invece, si dice “ora” per significare “un di”, nel frattempo lasciando che la scuola sia redistributrice di spesa pubblica. Una fucina di mantenuti che è sempre meno possibile mantenere.

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Ricercatori precari a vita, solo uno su cento ce la fa

Flavia Amabile – La Stampa

Solo un ricercatore precario su 100 nelle università italiane ha davanti a sé una possibilità vera di stabilizzazione, gli altri 99 stanno perdendo tempo. O, più semplicemente, stanno preparando le valigie per andare altrove, a molti chilometri di distanza da un’Italia che, lontano dai proclami dei consigli dei ministri di governi di ogni colore politico, non riesce a fare nulla per i suoi cervelli. L’Apri, associazione dei precari della ricerca, ha analizzato i dati attuali del ministero dell’università. Il ritratto che ne è emerso non è dei più lusinghieri per le università e per la politica italiana. Esistono 2450 ricercatori a tempo determinato di tipo A, cioè quelli che hanno durata triennale, rinnovabili per altri due anni e poi fine, si fermano lì, non possono fare altro. Ci sono 15.237 titolari di assegni di ricerca di vario tipo, in pratica persone che lavorano nelle facoltà come dei borsisti, dopo essersi procurati da soli i fondi per la loro attività ma che non otterranno mai alcuna stabilizzazione. Ed esistono 224 fortunati ricercatori a tempo determinato di tipo B, con contratti di tre anni, gli unici che possono portare alla promozione a professore associato se, al termine dei tre anni, avranno conseguito l’Abilitazione Scientifica Nazionale. Sono 224 persone in tutt’Italia, assunte con contratti basati su una legge del 2010 che ha portato ai primi bandi solo dopo tre anni di attesa, nel 2013. A queste condizioni, quasi 99 ricercatori su 100 saranno espulsi dal sistema accademico, una cifra ancora più negativa di quella dello scorso anno, comunque drammatica, di 96 ricercatori che il sistema avrebbe buttato fuori.

In questa situazione che cosa sta facendo il governo Renzi? La riforma Gelmini che prometteva di risolvere il problema del precariato nelle università ha soprattutto cancellato il problema come dimostrano i dati e come denunciano le associazioni. La ministra Gelmini aveva anche previsto che il 40% delle risorse degli atenei per il turnover fossero destinate obbligatoriamente a posti di ricercatore a tempo determinato. Dopo di lei Francesco Profumo eliminò il vincolo e introdusse l’obbligo di creare un posto da ricercatore a tempo determinato di tipo B ogni nuovo professore ordinario per dare spazio vero ai giovani. Ora che stanno ripartendo i concorsi, la Crui, la Conferenza dei rettori, ha chiesto più volte di abolire la norma di Profumo. Il governo Renzi ha ceduto con una manovra molto furba: nella legge di stabilità si è esteso il vincolo rendendolo valido anche per i ricercatori di tipo A, quelli che non hanno speranze di trovare una sistemazione stabile nelle università.

«Ovviamente nessun ateneo avrà interesse ad assumere ricercatori di tipo B che costano di più e creano problemi in fatto di organico – commenta Luigi Maiorano, presidente dell’Apri -. È inutile, quindi, che anche questo governo annunci di poter risolvere il problema dei precari. L’esito delle decisioni prese dal governo è facilmente prevedibile: avremo più promozioni di associati ad ordinari e più precariato». «Si tratta di una mano di vernice su un sistema ormai arrugginito», spiega Antonio Bonatesta, segretario nazionale dell’Adi, l’associazione dottorandi e dottori di ricerca. «Ci troviamo dinanzi a interventi di maquillage che non si pongono in modo serio e credibile l’ obiettivo di risolvere strutturalmente la drammatica situazione dei giovani ricercatori in Italia». Ed estendere il vincolo, come ha fatto il governo Renzi, significa che – prosegue l’Adi – «Gli atenei -si orienteranno verso la figura che richiede il minor aggravio e cioè quella del ricercatore di tipo «a», sprovvisto di tenure track e più precario».

Matteo come Cirino Pomicino

Matteo come Cirino Pomicino

Keyser Söze – Panorama

È diventato il grande imbuto del governo Renzi. Quello che il premier indica come l’appuntamento in cui si risolveranno tutti i problemi e tutti i mali. Si tratta della legge di stabilità. A sentire l’inquilino di Palazzo Chigi la questione dei precari della scuola troverà una soluzione lì. Sempre lì si troveranno anche i soldi per rilanciare le grandi opere e, magari, anche il modo per allargare la platea degli 80 euro, totem per eccellenza del verbo renziano. Il rischio è che la prima legge di stabilità renziana sia scritta secondo i codici democristiani di un tempo, secondo la furbizia del gioco delle tre carte che fu la filosofia del ministro andreottiano per eccellenza, Paolo Cirino Pomicino. Anche lui grande estimatore dell’arte del rinvio. «Renzi discepolo di Pomicino» inorridisce l’azzurro Daniele Capezzone «è un’immagine che si attaglia al momento». Un epilogo che molti danno per scontato. Basta dare un’occhiata allo stato della nostra economia. Delle due l’una: o la legge di stabilità diventa il presupposto di quel lungo elenco di riforme che Renzi finora ha solo enunciato, il che significa un provvedimento severo e impopolare; o si trasforma in un grande minestrone, in cui il prestigiatore di Palazzo Chigi mescola le promesse, i sogni, gli impegni presi in una confusa melassa insapore, che serve solo a confondere ancora gli italiani. Inutile dire che l’ipotesi più probabile sia la seconda.

Tutti i protagonisti della politica, estimatori o meno del premier, su un dato si trovano d’accordo: Renzi non persegue una strategia chiara. «O meglio» si infervora Pier Luigi Bersani «non l’ha proprio». «Le sue proposte» ammette Silvio Berlusconi «sono ben al di sotto della tragica crisi che stiamo vivendo». «Invece di elencare una riforma al giorno» dice Sergio Marchionne «basterebbe che si concentrasse solo su tre: lavoro, certezza del diritto, burocrazia». Ma Renzi è nelle condizioni di farlo? Probabilmente no: l’autunno caldo sottoporrà il Pd al richiamo della foresta del sindacato, della piazza. E l’assenza di una strategia economica e di una formula politica definita renderà difficile anche l’aiuto del Cav: se Berlusconi non accetterà di rappresentare una vera alternativa a Renzi, qualcun altro ci proverà visto che l’establishment italiano è affollato di disoccupati di lusso. Corrado Passera docet. E il premier, come reagirà? Rilancerà sul piano dell’immagine, ma nella sostanza rinvierà ancora. In fondo la scuola democristiana è nel suo Dna.