legge di stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

Tasse, ancora timida la Legge di Stabilità

di Massimo Blasoni – Metro

Puntuale come ogni anno, ecco irrompere il dibattito sulla Legge di Stabilità. Il premier e il ministro dell’Economia, dopo averne inviato in sede europea una sintesi molto succinta, hanno illustrato i suoi principali contenuti sotto forma di slide dalla grafica accattivante. A quel punto hanno iniziato a rincorrersi le dichiarazioni di deputati e senatori, che a seconda della loro collocazione politica ne elogiano o criticano l’impostazione. Solo dopo una settimana il testo è approdato finalmente in Parlamento e al solito verrà emendato in maniera significativa durante il suo iter di approvazione. Col risultato che i cittadini si ritroveranno con un provvedimento assai diverso da quello presentato.

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La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

La Corte dei Conti cancella il bonus 80 euro di Renzi

Davide Giacalone – Libero

La sola spending review fatta è consistita nel tagliare il commissario incaricato di metterla a punto. Le sole spinte alla ripresa vengono da fattori esterni e le dobbiamo alle scelte della Banca centrale europea (altro che eurorigore). Gli 80 euro hanno funzionato egregiamente come messaggio elettorale, ma non hanno spinto i consumi, appesantendo invece la spesa pubblica, proprio perché non sono permanenti sgravi erariali e sono stati finanziati con aggravi fiscali. Così messe le cose c’è il serio rischio di vedere scattare le clausole di salvaguardia, messe a presidio dei conti pubblici e grazie alle quali il governo ha ottenuto il consenso delle autorità europee. Clausole che significano una sola cosa: ulteriore pressione fiscale. Tutte cose che i nostri lettori hanno già letto molte volte, ma che ora sono scritte anche nel «Rapporto sulle prospettive della finanza pubblica dopo la legge di stabilità», inviato dalla Corte dei conti al Parlamento.

Cose che noi abbiamo illustrato e temuto per tempo. Senza alcun compiacimento, semmai con rammarico. Sono le cose che portano a prevedere (dati della Commissione europea) una crescita dell’Italia inferiore alla metà della crescita dell’eurozona (0,65 contro 1,3%). Noi qui suoniamo e cantiamo l’inno alla fine della crisi e all’inizio della ripresa, ma si tratta di un risultato che dobbiamo al pezzo d’Italia che non ha  ai smesso di restare agganciato ai mercati globali, non ha mai smesso di vedere crescere le esportazioni (nel 2014, rispetto al 2013, in crescita del 2% verso il mondo intero e del 3,7 verso l’Ue), ma commettiamo il gravissimo errore, o cediamo al perfido trucco propagandistco, di misurarci solo con noi stessi, mentre ci si deve misurare con gli altri paesi, con i concorrenti. E mentre le nostre imprese concorrono bene con i loro simili, l’Italia concorre male, sprofondando più degli altri e poi crescendo meno degli altri. Perché? La spiegazione sta tutta nelle cose non fatte, nella spesa non rivista, nella burocrazia pazzotica, nell’incertezza del diritto, nelle tasse troppo alte. Abbiamo messo troppa zavorra sulle spalle dell’Italia che corre. Che non è stramazzata e ancora procede perché ha una forza straordinaria, ma non può reggere il ritmo di chi non viene salassato negli spogliatoi. Questo è quel che ci siamo sforzati di spiegare. Questo quel che la Corte dei conti certifica. Non se ne sentiva il bisogno, ma ora c’è anche il bollo dei contabili in toga.

Grazie alle politiche della Bce pagheremo, quest’anno, fra i 5 e i 7 miliardi in meno di interessi sul debito pubblico. Basta dare un occhio agli spread, che tre­quattro anni fa erano l’indicatore (falsato, lo spiegammo, ma reale) del nostro collasso, per rendersi conto che quelle politiche hanno avuto successo. Ma, da sole, non bastano. I tagli alla spesa pubblica, ricorda la Corte, sono previsti, dal governo, in 16 miliardi per il 2016 e 23 nel 2017. Con la legge di stabilità, per far tornare i saldi, se ne sono aggiunti altri 3 nel 2016. Come pensiamo di arrivarci se manca una politica coerentemente a ciò indirizzata? Anzi, andiamo in direzione opposta, come testimonia la gioia con cui s’è comunicata l’imminente assunzione di un’altra vagonata d’insegnanti, rigorosamente presi da quelle graduatorie che altro non sono se non testimonianza fossile dell’inefficienza pubblica, sicché avremo più spesa per meno (o, nel migliore dei casi, medesima) qualità.

Questo è l’andazzo, che difficilmente conduce verso i risultati annunciati. Sicché si passa alle misure d’emergenza già previste: tasse. Le quali, a loro volta, comprimono la crescita, contribuendo a spingerci sotto la metà di quella altrui. L’ossigeno viene da fuori, ma noi ne sprechiamo una parte per alimentare il fuoco che ci arrostisce le terga. La Corte fa due ulteriori osservazioni. Prirna: la si smetta d’indicare la lotta all’evasione come fonte di copertura delle nuove spese. Giusto, ne sento parlare da quando sono nato e se fosse anche solo lontanamente vero gli evasori fiscali dovrebbero essere protetti come il Wwf protegge i Panda, invece si moltiplicano come conigli. Seconda: l’elasticità concessa dalle autorità europee agevola il govemo. Vero solo apparentemente, perché fa perdere tempo. Anche questo lo abbiamo ripetuto cento volte: crea effetti illusori, lasciando correre l’infezione della spesa improduttiva. Il Rapporto morirà nei cassetti parlamentari. I problemi irrisolti s’incancreniscono, infischiandosene delle sceneggiate assembleari.

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

«Questo Paese svolta in maniera definitiva dal punto di vista della pressione fiscale». Lo ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, probabilmente nel tentativo di rassicurare contribuenti sempre più dubbiosi. Lo ha ribadito in serata dagli studi di “Che tempo che fa” il premier Renzi, rincarando la dose: «Con la legge di stabilità la pressione fiscale non è invariata, è diminuita», ha detto. Ma lo scetticismo sulla legge di Stabilità è del tutto fondato. Alimentato, più che da retroscena di gufi militanti, dai documenti ufficiali di governo e Parlamento. Il prospetto di copertura della prima «finanziaria» del governo Renzi, ad esempio, ci dice che nel 2016 e nel 2017, metteremo a posto i conti e non faremo più deficit, ma a un costo molto alto. Nel 2016 ci sono 31,7 miliardi di «nuove o maggiori entrate», che diventano 39,1 nel 2017. Sono in parte compensate, è vero, da «minori entrate», quindi da tagli di tasse, imposte e contributi rispettivamente per 9,4 e 9 miliardi. Ma il saldo resta da brividi: più di 20 miliardi nel 2016 e 30 nel 2017.

Nel conto della stangata fiscale futura ci sono soprattutto le clausole di salvaguardia. In altre parole, Bruxelles non vuole incertezze sui conti. Quindi, se una misura deve generare gettito o risparmi e ha effetti dubbi, a garanzia della cifra ci si mette un aumento di tasse certe. È il caso, famoso, delle accise sui carburanti, che potrebbero aumentare per coprire una entrata traballante da 1,7 miliardi, quella sul nuovo meccanismo di conteggio dell’Iva, messo in discussione dall’Ue. Poi ci sono le clausole che il governo Renzi ha ereditato dai precedenti esecutivi, che colpiscono l’Iva. Disinnescato l’aumento nel 2015, ritornano in grande stile dal 2016, quando è previsto un aumento dell’aliquota ordinaria dal 22 al 24% e di quella agevolata dal 10 al 12%. Nel 2018 l’imposta su beni e consumi, a legislazione vigente, dovrebbe arrivare rispettivamente a 25,5% e 13%. Solo le clausole, ha calcolato ieri Il Sole24Ore , a regime, cioè nel 2017, valgono otto miliardi di euro.

Ieri il testo della Stabilità è stato approvato senza modifiche dalla Commissione bilancio della Camera, nonostante i numerosi dubbi. «Abbiamo fatto un po’ di casini», ha ammesso lo stesso Renzi. Esulta il ministro Padoan che ringrazia «i senatori e lo staff del Governo, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia», ma i dubbi sul testo di legge rimangono. Ad esempio, sul credito di imposta del 10% sull’Irap a favore dei lavoratori senza dipendenti. Una modifica introdotta dal Senato per compensare un effetto indesiderato del taglio dell’imposta per le aziende. L’invito dei tecnici di Montecitorio di verificare la compatibilità con la norma europea ed «evitare eventuali procedure di infrazione», visto che «il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti». Problemi anche per lo stanziamento da cui si dovrebbero attingere parte dei 535 milioni di euro da dare alle Poste, per dare attuazione alla sentenza dell’Ue. Il fondo è quasi vuoto. Dubbi anche sul nuovo modo di pagare l’Iva (il cosiddetto reverse charge) che, come detto, è anche incerto per quanto riguarda gli effetti finanziari. Sotto la lente dei tecnici anche la platea dei beneficiari del credito di imposta, che potrebbe essere non aggiornata.

Nonostante il testo licenziato dal Senato sabato notte sia blindato, in Commissione Bilancio della Camera sono stati presentati circa 130 emendamenti. Dopo un primo esame ne sono restati solo 80. Il presidente Francesco Boccia ha dichiarato infatti inammissibili 50 proposte arrivate al testo da M5S, Forza Italia e Sel. Il Movimento 5 stelle ha trasmesso via Youtube la seduta domenicale della commissione Bilancio, con una diretta «clandestina». L’intenzione del governo è e arrivare all’approvazione definitiva della legge di Stabilità in Aula entro martedì, comunque «prima di Natale», perché bisogna «dare segnali di stabilità», ha spiegato il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Allarme tasse: così cresceranno nelle Regioni

Enrico Marro – Corriere della Sera

Da gennaio l’addizionale Irpef regionale potrà salire fino al 3,33%. Un punto in più del 2,33%, già applicato da quattro Regioni: Piemonte, Lazio, Molise e Basilicata. Il Piemonte guidato da Sergio Chiamparino, che è anche presidente della Conferenza delle Regioni, ha già deciso un aumento dell’aliquota per i redditi sopra 28 mila euro. Riguarda meno di un quarto dei 2,6 milioni di contribuenti piemontesi, si giustifica la Giunta. Il conto più salato sarà per i 127 mila cittadini sopra i 55 mila euro. Per loro l’aliquota salirà di un punto: al 3,32% per lo scaglione tra 55 mila e 75 mila euro, al 3,33% oltre. Per fare un esempio, un torinese con più di 75 mila euro subirà un prelievo Irpef complessivo superiore al 47%, considerando l’Irpef nazionale del 43% e comunale dello 0,8%. Si tratta di aumenti «obbligati», sostiene la Regione, per far fronte al debito salito a quasi 9 miliardi. Ma, spiega Massimo Garavaglia, coordinatore degli assessori al Bilancio della Conferenza delle Regioni, «anche altre Regioni, quelle con i Piani di rientro sanitari (oltre al Piemonte, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Calabria e Sicilia, ndr.), rischiano di aumentare le addizionali, a causa dei tagli alle Regioni: 4 miliardi con l’ultima legge di Stabilità e 1,8 con le precedenti due manovre».

Il prelievo medio pro capite che quest’anno è salito a 377 euro con punte di 548 euro nel Lazio e 442 in Piemonte e Campania, potrebbe salire ancora. Come l’aliquota media, che ora sfiora 1,6% (va tenuto conto che molte Regioni articolano il prelievo sui 5 scaglioni Irpef) con Lazio, Molise, Campania e Calabria oltre il 2% mentre il prelievo medio più basso c’è nelle province autonome di Bolzano e di Trento. L’aumento fino al 3,33% è quasi certo nel Lazio, dove è già previsto dalla manovra approvata l’anno scorso, mentre la Campania fa sapere che sarà confermato il 2,03% in vigore. Già domani potrebbe esserci un nuovo incontro governo-Regioni, dice il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta. Che anticipa: «Le proposte delle Regioni non vanno nella direzione giusta. Vorrebbero alleggerire i tagli utilizzando i fondi non spesi per il pagamento dei debiti verso le imprese. Sarebbe una soluzione finanziaria mentre secondo noi vanno ridotti gli sprechi».

Le posizioni sono distanti. A sentire le Regioni, 4 miliardi di tagli sono insostenibili, mettono a rischio i servizi, per non ridurre i quali bisogna appunto aumentare l’addizionale. In effetti, secondo i calcoli della Copaff, la commissione del’Economia per il federalismo fiscale presieduta da Luca Antonini, tra il 2008 e il 2013 sono proprio le Regioni ad aver sopportato, in proporzione, i tagli maggiori di spesa: 13 miliardi più 8 sul fondo sanitario. Ma, a sentire il premier Matteo Renzi, tagliare 4 miliardi, su una spesa regionale di 200 miliardi, è possibile intervenendo sugli sprechi e applicando i costi standard. Secondo il rapporto dell’istituto di ricerca Glocus, nella sanità si possono risparmiare 22 miliardi in 5 anni. Per Domenico Casalino, amministratore delegato della Consip, la società del ministero dell’Economia per gli acquisti della pubblica amministrazione, «è senza dubbio nel campo dell’energia che ci sono troppi sprechi. In qualche caso si sono ottenuti risparmi fino al 40%. Centralizzando gli acquisti, oltre a eliminare gli sprechi, si rende più difficile la corruzione».

In questo braccio di ferro a rimetterci è il contribuente. Eppure la legge 42 del 2009 sul federalismo fiscale fissava il principio dell’invarianza della pressione fiscale, quindi se aumentavano le addizionali doveva diminuire l’Irpef nazionale. Invece, afferma la Corte dei conti nel Rapporto sulla finanza pubblica 2013, «non solo non si trovano tracce di compensazione fra fisco centrale e locale ma, anzi, di pari passo con l’attuazione del federalismo fiscale, si è registrata una significativa accelerazione sia delle entrate territoriali sia di quelle centrali». Solo nel 1998, ricorda la Corte, quando l’addizionale regionale debuttò con un’ aliquota che allora era dello 0,5%, «furono ridotte della stessa misura le aliquote Irpef». Da allora, spiega Antonini, «c’è stato un continuo scaricabarile tra Stato, Regioni ed enti locali e il principio dell’invarianza di gettito è stato massacrato». Più accademica la Corte: «Le evidenze» dimostrano «una mancanza di coordinamento fra prelievo centrale e locale, sconfinato nell’aumento della pressione fiscale complessiva a causa di un perverso effetto combinato: lo Stato centrale che taglia i trasferimenti ma lascia invariato il prelievo di sua competenza; gli enti territoriali che, per sopperire ai tagli, aumentano le aliquote dei propri tributi». Quando finirà? Il governatore della Campania, Stefano Caldoro, ha suggerito un po’ provocatoriamente: «Lasciamo il governo nazionale, sciogliamo le Regioni e riorganizziamo le funzioni sulla base delle macroaree».

Tante misure per così poco

Tante misure per così poco

Alberto Alesina e Francesco Giavazzi – Corriere della Sera

Quando presentò la legge di Stabilità, Matteo Renzi disse: «È una grande, grande, grande novità: una manovra anticiclica in un momento di difficoltà». A un mese di distanza facciamo fatica a vedere in che modo questa legge possa aiutare la crescita. Il deficit dei conti pubblici (stime della Commissione europea) sarà quest’anno il 3% del prodotto interno lordo, e scenderebbe al 2,7% l’anno prossimo. Il deficit «strutturale» (cioè depurato dal ciclo economico) rimarrebbe sostanzialmente invariato: 0,9% quest’anno, 0,8 il prossimo.

La manovra quindi è a deficit costante. Ma una manovra può essere espansiva anche se, a parità di deficit, riduce le tasse sul lavoro, compensandole con tagli di spesa, soprattutto in un Paese in cui la tassazione sul lavoro è una delle cause della scarsa competitività. Nemmeno questo pare essere il caso. Nell’audizione del 4 novembre alla Camera, il ministro Padoan ha detto: «Con la legge di Stabilità, la pressione fiscale passa dal 43,3% del 2014 al 43,2%, nel 2015». Cioè rimane invariata. E temiamo che questo calcolo parta dall’ipotesi ottimista che le Regioni non traducano i 4 miliardi di tagli loro imposti dallo Stato in maggiori tasse locali, come alcune già stanno facendo. Che cosa c’è di «grande» e di «anticiclico» in questa manovra? Ben poco. La legge di Stabilità elimina dalla base imponibile dell’Irap il costo del lavoro per dipendenti con contratti a tempo indeterminato. Ma cancella anche la riduzione delle aliquote Irap che era stata decisa a maggio. Dal prossimo anno l’effetto netto sarà comunque una riduzione della tassa. Ma il taglio delle aliquote oggi cancellato era stato finanziato aumentando dal 20 al 26% l’imposta sostitutiva sui redditi da capitale diversi dai titoli di Stato. Conclusione: l’aumento di imposte è confermato, il taglio cancellato, almeno per il 2014, quando varrà ancora la vecchia base imponibile Irap.

Insomma, una legge partita con buone intenzioni si è trasformata in una manovra irrilevante per la crescita. Perché? Il problema è che l’impegno di Renzi è durato lo spazio di un mattino. Approvata la legge, e difesala a Bruxelles, il premier, anziché seguirla passo passo, se ne è disinteressato e si è occupato d’altro: di legge elettorale e di riforme istituzionali. Riformare lo Stato non è tempo perso: serve a governare meglio, anche l’economia. Ma nell’emergenza in cui ci troviamo non possiamo permettercelo: il tempo stringe, tutte le forze vanno destinate a far riprendere la crescita, altrimenti avremo un Paese magari con istituzioni migliori, ma dissanguato.

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

L’Italia è una spirale da incubo. Che farà Renzi?

Guido Gentili – Il Sole 24 Ore

L’Europa potrebbe dirci “no, cara Italia, così non ci siamo, stai deviando troppo dal percorso di rientro dal debito pubblico, correggi la rotta e insisti nel consolidamento fiscale…”. Oppure i mercati, sempre in fiduciosa attesa della svolta della Bce a trazione Mario Draghi, potrebbero improvvisamente svegliarsi facendo un paio di conti: “l’Italia continua a non crescere, l’inflazione è troppo bassa, il debito non si riduce…”. In entrambi i casi potrebbero aprirsi scenari da incubo. Per non dire della terza ipotesi, quella che vedrebbe perfettamente allineati il giudizio negativo di Bruxelles (dal lato del debito crescente) con quello dei mercati (dal lato della mancata crescita).

Quanto prima l’Italia deve uscire da questa spirale, ma non basterà dire “stop alle lezioni di Bruxelles, le vostre valutazioni non ci preoccupano, siamo in linea”. Il Rapporto sui (persistenti) squilibri macroeconomici – alto debito e competitività esterna debole – suona come un primo allarme ancorché basato sui numeri del Def (Documento di economia e finanza) presentato dal Governo Renzi a settembre. Numeri poi corretti dallo stesso esecutivo con il programma di Stabilità per il 2015 e per gli anni a venire. Tra il 24 ed il 25 novembre è attesa (dopo le nuove stime su Pil, deficit e debito di qualche giorno fa) la prima valutazione della Commissione europea sulla Legge di Stabilità e a inizio 2015 scatterà una nuova missione per aggiornare il report sugli squilibri macroeconomici. In primavera ci sarà infine il “verdetto” finale.

Anche il calendario assomiglia insomma ad un “closed loop”, ad un anello chiuso che lascia pochi e sorvegliatissimi varchi. Il Governo squadernerà a Bruxelles le riforme messe in cantiere e cercherà di ottenere la massima flessibilità nel quadro delle regole esistenti riconfermando di stare sotto la soglia del 3% nel rapporto deficit/Pil. Ma potrebbe non essere sufficiente: per l’Europa e per l’esecutivo stesso “a caccia” di crescita per abbassare il debito e rassicurare i mercati. Che Renzi, messo alle strette da dosi crescenti di rigorismo unilaterale, possa trovarsi nelle condizioni di uscire dalla morsa tra mancata crescita e alto debito con un “cambiaverso” sul deficit? Nulla è da escludere.

I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Manovra, la Ue riflette

Manovra, la Ue riflette

Beda Romano – Il Sole 24 Ore

Da qui a fine mese, la Commissione europea presenterà la sua attesa opinione sul bilancio previsionale italiano. La partita è complessa. Incrocia dati economici e analisi politica. L’Esecutivo comunitario dovrà tenere conto di numerosi fattori. Non si limiterà a valutare il mero rispetto delle regole di bilancio. Dovrà prendere in considerazione anche l’andamento dell’economia, tanto che le previsioni di Bruxelles in questo campo potrebbero essere di aiuto al governo Renzi.

La Finanziaria prevede un aggiustamento strutturale del deficit dello 0,3% del prodotto interno lordo. Secondo le regole europee, un paese nella situazione dell’Italia, con un disavanzo sotto al 3,0% del Pil ma con un debito elevato, dovrebbe ridurre il deficit di almeno lo 0,5%. Dovrà l’Italia introdurre nuove misure di risanamento dei conti? È possibile. Nel presentare le sue stime economiche, Bruxelles ha lasciato la porta aperta a questa possibilità (si veda Il Sole/24 Ore del 5 novembre). «La valutazione della Finanziaria non è terminata», spiegava ieri sera un funzionario europeo. Aggiungeva un altro esponente comunitario: «Al netto dell’analisi della Finanziaria, c’è un dibattito all’interno della Commissione sull’opportunità o meno di chiedere nuovi sforzi ad alcuni paesi tra cui l’Italia». In una conferenza stampa qui a Bruxelles giovedì scorso il nuovo commissario agli affari economici Pierre Moscovici ha assicurato che la Commissione avrà «un approccio intelligente».

Tra gli aspetti negativi per l’Italia, Bruxelles considererà le sue previsioni sul deficit strutturale italiano, destinato a scendere dallo 0,9% del Pil nel 2014 allo 0,8% nel 2015, per poi tuttavia risalire all’1,0% nel 2016. Nel contempo, la Commissione ha respinto l’ipotesi che la situazione economica possa essere considerata, a livello di zona euro, una circostanza eccezionale, tale da consentire ai singoli stati membri di disattendere le regole europee, secondo quanto previsto dal Patto di Stabilità e di Crescita. Chi tra i commissari vuole chiedere maggiori sforzi all’Italia intende anche difendere la credibilità delle regole europee ed evitare eventuali ricorsi dinanzi alla Corte di Giustizia del Lussemburgo contro una Commissione ritenuta troppo benevola (soprattutto in Germania). C’è da chiedersi peraltro quale potrebbe essere l’impatto sulle scelte di Bruxelles della debolezza politica del presidente Jean-Claude Juncker, sulla scia degli scandali fiscali in Lussemburgo, suo paese d’origine.

Tra i fattori favorevoli all’Italia, l’esecutivo comunitario è pronto a prendere in considerazione le riforme economiche, come attenuanti a misure troppo impegnative sul versante del risanamento delle finanze pubbliche. Ma anche su questo aspetto i risultati italiani sono in chiaroscuro. Alcune riforme sono state adottate, ma spesso sono mancati i necessari atti amministrativi e decreti legge perché i pacchetti legislativi potessero entrare in vigore. A favore di una posizione più accomodante ci sono anche preoccupanti previsioni economiche della stessa Commissione, in un contesto politico italiano molto fragile e mentre si torna a parlare di elezioni anticipate. L’output gap, ossia il divario tra crescita reale e crescita potenziale, è elevata: del 4,5% del Pil nel 2014 e del 3,4% del Pil nel 2015. Per questo anno, Grecia, Spagna, Cipro e Portogallo sono messi peggio. Per il prossimo, solo Grecia, Cipro e Spagna hanno valori superiori a quelli italiani.

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Antonio Signorini – Il Giornale

La lettera sulla legge di Stabilità inviata dalla Commissione europea e la relativa risposta del ministero dell’Economia di qualche giorno fa, erano missive a carico del destinatario, cioè del contribuente italiano. Il francobollo è arrivato ieri sotto forma di una clausola di salvaguardia che consiste in un possibile (e probabile) aumento delle accise sui carburanti da 728 milioni.

Questi i fatti. Il governo italiano, per andare incontro alle richieste di Bruxelles, ha promesso alla Commissione di alzare la correzione del disavanzo contenuta nella «finanziaria» dall’originario 0,1% allo 0,3%. Tra le coperture c’è un’estensione del nuovo meccanismo di pagamento dell’Iva, il reverse charge, a ipermercati, supermercati e discount alimentari. Incasso previsto, 728 milioni. Copertura un po’ traballante, quindi un emendamento del governo alla legge di Stabilità ha garantito la copertura con la più classica delle clausole di salvaguardia: un aumento delle accise. Nella legge c’era già una garanzia da 988 milioni, ora passa a 1,716 miliardi. Tutti a carico degli automobilisti. Ma ci sono brutte notizie anche per i fumatori di sigarette di fascia bassa. Ieri il governo, insieme alla riforma delle commissioni censuarie del catasto, ha varato il riordino delle accise, che dovrebbe portare un maggior gettito di circa 200 milioni. Sforzi notevoli ma forse non sufficienti, visto che il governo europeo potrebbe chiederci un’ulteriore correzione dei conti del 2015 da tre miliardi. Da cercare, manco a dirlo, con nuove tasse.

Con l’Ue il clima resta difficile, la procedura di infrazione è ancora sul tavolo, ma le tensioni non sembrano essere avvertite nel Parlamento, visto che gli emendamenti alla legge di Stabilità presentati in commissione Bilancio sono in gran parte tentativi di allargare i cordoni. Molti chiedono l’eliminazione dell’anticipo del Tfr, altri la deducibilità Imu per gli immobili delle imprese e modifiche all’aumento delle aliquote su fondi pensione e casse previdenziali private. Tutti all’insegna della maggiore spesa gli emendamenti del Pd. Dal partito del premier Matteo Renzi arrivano richieste per eliminare il taglio dei fondi ai patronati dei sindacati, 45 milioni a Roma Capitale e 700 milioni per gli ammortizzatori sociali. Da segnalare un emendamento Ncd per il ritorno all’obbligo dell’esposizione del bollo auto e quello della Lega Nord per regolamentare la prostituzione nelle abitazioni private.

Tutto questo mentre per l’economia italiana continuano ad arrivare segnali pessimi. Ieri su industria e competitività. Secondo l’Istat l’indice della produzione industriale di settembre è diminuito in termini tendenziali, quindi rispetto all’anno precedente, del 2,9%. Produzione in calo anche rispetto ad agosto: meno 0,9%. Un autunno freddissimo, quindi. A partire dal beni di consumo, che hanno segnato un calo del 3,2%. Colpa sicuramente della crisi, ma le zavorre che stanno tirando giù l’Italia sono problemi strutturali. Uno è la burocrazia che, secondo un’analisi della Confederazione nazionale dell’artigianato, costa alle Pmi circa 4,5 miliardi di euro all’anno. Ogni piccolo imprenditore deve sborsare un euro ogni 10 minuti, 6 euro all’ora, 48 euro ogni giorno lavorativo, 11mila euro all’anno. Si tratta, ha spiegato il presidente della Cna Daniele Vaccarino, di «una realtà, ci dispiace dirlo, distante anni luce dalla vita e dalle esigenze delle imprese». La confederazione ricorda che l’Italia risulta solo al 56esimo posto su 189 nella graduatoria dei Paesi dove è più facile fare impresa (Doing Business 2015 ), dietro a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. E a vedere il continuo ricorso all’aumento delle tasse, si capisce il perché. La notizia non è che l’Italia è in crisi, ma che nessuno faccia niente, anche se le cause sono note.