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Competenze digitali: Italia sotto la media europea. Valle d’Aosta e Lombardia possiedono i talenti del digitale.

Competenze digitali: Italia sotto la media europea. Valle d’Aosta e Lombardia possiedono i talenti del digitale.

Competenze digitali: quadro europeo

Nel 2021 in Europa gli individui che possiedono competenze digitali superiori al livello base sono in media il 26%. Sopra la media europea si collocano l’Olanda (52%), la Finlandia (48%), l’Islanda (45%), la Norvegia (43%), l’Irlanda e la Svizzera (40%). Al contrario, i Paesi con il numero minore sono l’Albania (4%), Bosnia ed Erzegovina (5%), Macedonia del Nord e Bulgaria (8%), Montenegro e Romania (9%). L’Italia si trova ancora sotto la media europea registrando il 23% di individui con competenze digitali superiori al livello base. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Istat, Eurostat e Unioncamere sistema informativo.

Competenze digitali: quadro europeo


Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat 2021 – Livelli di competenze digitali degli individui

Quadro italiano: competenze digitali elevate

Le competenze digitali sono la chiave della futura trasformazione tecnologica della maggior parte delle aziende. Sempre più imprese richiedono ai propri dipendenti, oltre alle skills di base, di possedere competenze digitali elevate. Com’è, a tal proposito, la situazione italiana corrente?

A livello regionale, si evince che la percentuale degli individui che possiedono un livello elevato di competenze digitali si raggruppa nel Nord Italia, principalmente in Valle d’Aosta (28,3%), Lombardia (26,6%), Friuli-Venezia Giulia (25,8%), Trentino-Alto Adige (25,7%) ed Emilia-Romagna (25%). Al contrario, si nota un minor numero di individui che detengono competenze digitali elevate in Sicilia (14,4%), Campania (16,6%), Calabria (16,7%), Basilicata (17,8%) e Puglia (18%).

Le fasce d’età risultano essere un fattore importante: con l’aumento degli anni, infatti, il livello di competenze digitali diminuisce. I giovani tra i 20-24 anni possiedono un livello di competenze avanzato (41,5%) insieme ai ragazzi tra i 16-19 anni (36,2%). Il livello scende fra gli adulti tra i 45-54 anni (20,3%) e tra i 65-74 anni (4,4%).



Elaborazione ImpresaLavoro su dati ISTAT – BES 2020 – campione per 100 persone di 16-74 anni

Competenze digitali richieste dalle imprese con ripartizione territoriale

L’innovazione digitale comporta la necessità di nuove figure professionali qualificate dotate del giusto background di competenze tecnologiche di base e specialistiche. Quali sono le competenze digitali richieste dalle imprese italiane? Dove si concentra maggiormente questa richiesta?

Nel 2021 si evince che la richiesta da parte delle imprese di competenze digitali e linguaggi e metodi matematici è maggiore al Nord Ovest rispetto al resto del Paese. In Italia sono particolarmente richieste le competenze digitali elevate al Nord Ovest (23,4%), al Centro (21,8%), al Sud e nelle Isole (20%) ed al Nord Est (18,4%). Al secondo posto delle competenze richieste si trovano le capacità di utilizzo dei linguaggi e metodi matematici, sempre con prevalenza al Nord Ovest (17,3%), al Sud e Isole (16,3%), al Nord Est (14,6%), e al Centro (15,5%).

Al terzo posto, con una richiesta inferiore, le capacità di gestione delle soluzioni innovative che, a differenza delle prime due, vengono predilette maggiormente al Sud e nelle Isole (13,1%), il Nord Ovest (10,9%), il Centro (10,3%), infine il Nord Est (8,8%).




Elaborazione ImpresaLavoro su dati Unioncamere – ANPAL, Sistema informativo Excelsior, 2021

«Il nostro Paese ha fatto notevoli passi in avanti negli ultimi anni – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ma occorre raddoppiare gli sforzi: vincere la sfida digitale è fondamentale per la crescita economica delle nostre imprese».

Istruzione: nel 2020 più donne che uomini tra i laureati in Italia. Ancora importanti divari Nord-Sud.

Istruzione: nel 2020 più donne che uomini tra i laureati in Italia. Ancora importanti divari Nord-Sud.

Differenze regionali di istruzione

In Italia nel 2020 la media nazionale dei laureati in possesso di un titolo di studio terziario di I e II livello è di 14,5%, a differenza del 2019 in cui la cui percentuale era del 13,9%. La classifica a livello regionale mostra una maggiore quantità di laureati in Lazio (18,5%). Al secondo posto si trova l’Abruzzo (15,9%), continuando con l’Umbria (15,7%), il Molise (15,6%), Emilia-Romagna (15,5%) e Marche (15,4%). La percentuale più bassa di laureati si registra nella provincia di Bolzano (12,1%), seguita dalla Sardegna (12,4%), Sicilia e Puglia (12,5%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Istat.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat

Divario regionale e di genere

Nel 2020 in tutte le regioni italiane risultano aver conseguito il titolo di laurea più le donne rispetto agli uomini. Il Lazio, la regione con più laureati in Italia, possiede anche la percentuale più alta di laureate donne (19,6%), seguita da Abruzzo (17,8%), Umbria (17,7%), Molise (17,6%), Emilia-Romagna e Marche (17,1%). Per gli uomini le percentuali più elevate di laureati si trovano in Lazio (17,2%), in Lombardia (14,1%), Liguria (14%), Abruzzo (13,9%) e Emilia-Romagna (13,8%). In fondo alla classifica, le regioni con una percentuale inferiore di laureate donne sono la Sicilia e la Puglia (13,5%), al contrario degli uomini laureati che risultano meno in Sardegna (10,3%) e nella Provincia Autonoma di Bolzano (10,5%).

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat

Divario Nord-Sud

Nel 2020 la percentuale più elevata di laureati si trova nell’Italia Centrale (17,2%), nettamente superiore alla media italiana (14,9%). Tuttavia, risulta ancora evidente la differenza tra il Nord e Sud del Paese, in quanto l’Italia Meridionale e Insulare (rispettivamente 13,7% e 12,8%) restano al di sotto della media nazionale.

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat

Rimane un divario tra Nord e Sud anche per quanto riguarda l’analfabetismo: l’Italia Meridionale e Insulare (1% e 0,89%) hanno una percentuale più alta rispetto al Nord-ovest/est (0,36% e 0,32%), Centro (0,34%) e alla media nazionale (0,56%).

Elaborazione ImpresaLavoro su dati Istat
Lavoro pubblico, pensioni, aiuti alle imprese e trasferimenti per sanità, scuole e servizi principali: in Meridione più del 50% della ricchezza arriva dallo Stato.

Lavoro pubblico, pensioni, aiuti alle imprese e trasferimenti per sanità, scuole e servizi principali: in Meridione più del 50% della ricchezza arriva dallo Stato.

di Sandro Iacometti

Quando c’è da mangiare a spese dello Stato in Italia non si tira indietro nessuno. Per avere un’idea di quanti quattrini pubblici ogni anno vengano distribuiti sul territorio, in attesa che il reddito di cittadinanza faccia lievitare a dismisura la torta, basta sfogliare il dettagliato rapportone sulla spesa regionalizzata che la Ragioneria generale compila periodicamente con pazienza certosina. Nell’elenco ci sono i costi della produzione dei servizi locali, ma anche i flussi monetari sotto forma di trasferimenti ad enti, operatori, associazioni, imprese e famiglie. E già così si tratta di una bella sommetta. Il totale nel 2016 (ultimo anno disponibile)ammontava a 225 miliardi. Se a questo aggiungiamo la montagna di quattrini che esce dalle casse dell’Inps, i fondi comunitari e le erogazioni di altri enti si arriva alla modica cifra di 565 miliardi. Valore che rappresenta oltre i due terzi della spesa pubblica complessiva, di circa 830 miliardi, che comprende anche gli interessi sul debito e la quota di esborsi non regionalizzata.

Alla mangiatoia, ovviamente, si cibano tutti. Senza troppi complimenti. Se mettiamo a confronto il numero di abitanti con il denaro che piove, scopriamo che la Valle D’Aosta è in testa alla classifica, con 15.448 euro pro capite. Seguono il Trentino Alto Adige (13.431) e il Lazio (12.259). All’ultimo posto, invece, spunta a sorpresa la Campania (8.198), preceduta da Veneto (8.203) e Puglia (8.257). Il valore medio italiano è di 9.318.

RICCHEZZA

Messa così, sembrerebbe che i nemici dell’autonomia regionale o coloro che si indignano per chi pensa che il Sud, per ripartire, abbia più bisogno di olio di gomito che di altri finanziamenti statali, non abbiano tutti i torti. Certo, ci sarebbe da obiettare che con quegli 8mila euro di soldi governativi per abitante la Campania offre servizi di gran lunga inferiori a quelli di cui possono usufruire i cittadini della Lombardia, per cui lo Stato spende a testa più o meno la stessa cifra (8.364 euro). Ma la sostanza resta: la spesa pubblica italiana è troppo elevata e ovunque ne approfittano.

Discorso chiuso? Non proprio. Basta cambiare prospettiva, per accorgersi che la musica è ben altra. I territori italiani non differiscono solo per la qualità dei servizi, ma anche, e soprattutto, per la quantità di ricchezza che riescono a esprimere, per quello che producono, per i redditi che entrano nelle tasche degli abitanti. È su questo terreno che si fa la differenza, che si riducono i debiti, che si crea il benessere.

Ed ecco allora la vera domanda: quanti quattrini dello Stato incassano le regioni rispetto ai soldi che circolano? La risposta ce la fornisce ImpresaLavoro, il think tank animato dall’imprenditore Massimo Blasoni, che si è preso la briga di mettere in correlazione i dati della Ragioneria con il Pil del territorio.

RESISTENZE

Utilizzando questo criterio la classifica è dominata da un blocco massiccio di regioni del Mezzogiorno, dove la spesa statale consolidata supera addirittura il 50%della ricchezza prodotta. Si va dal Molise (56%) fino alla Campania (45%), passando per Calabria (55%), Sardegna (54%), Sicilia (52%) e Puglia (47%). Per essere chiari, in queste aree per ogni 100 euro di retribuzione incassata, di fattura emessa o di utile guadagnato, 50 sono a carico della collettività, sono quattrini rastrellati attraverso le tasse. In fondo all’elenco, manco a dirlo, troviamo la Lombardia (22%), il Veneto (25%) e l’Emilia Romagna (25%). Proprio le regioni che, guarda caso, chiedono una maggiore trasparenza e autonomia nella gestione delle risorse pubbliche.

I dati della Ragioneria e le elaborazioni di ImpresaLavoro spiegano bene le resistenze dei politici del Mezzogiorno. Chi avrebbe il coraggio di spiegare ai propri cittadini che uno stipendio su due rischia di restare in tasca al suo legittimo proprietario, che lo ha finanziato a colpi di balzelli?

La Valle D’Aosta è in testa alla classifica della spesa consolidata regionalizzata, con 15.448 euro pro capite. Seguono il Trentino Alto Adige (13.431) e il Lazio (12.259). All’ultimo posto la Campania (8.198).

IN RAPPORTO AL PIL: La spesa pubblica consolidata in rapporto al Pil vede ai primi posti tutte regioni del Sud: Molise (56%) Calabria (55%), Sardegna (54%), Sicilia (52%), Puglia (47%) e Campania (45%). In fondo ci sono Lombardia (22%), Veneto

La scheda (25%) ed Emilia Romagna (25%). Una manifestazione di qualche anno fa dei Nuovi disoccupati autorganizzati ad Acerra per protestare contro la mancanza di lavoro. Alcuni di loro si erano arrampicati sulle ciminiere del termovalorizzatore minacciando di buttarsi di sotto se la Regione Campania non li avesse assunti

L’Italia è spendacciona ma i servizi sono scarsi

L’Italia è spendacciona ma i servizi sono scarsi

di Massimo Blasoni*

Se ne parla poco, l’argomento sembra passato di moda, ma restano un fatto le vistose differenze nella dimensione e nell’andamento della spesa pubblica pro capite consolidata sostenuta nelle varie regioni italiane. I valori fotografati nel Rapporto annuale 2018 della Ragioneria generale dello Stato certificano infatti un abisso tra gli 8.203 euro spesi in Veneto (diminuiti peraltro di 83 euro rispetto all’anno precedente) e i 15.448 spesi in Valle d’Aosta o i 13.431 del Trentino Alto Adige (aumentati rispettivamente di 1.683 e 539 euro rispetto all’anno precedente).

Questo tipo di dato viene ottenuto considerando ogni importo sostenuto in ciascuna regione da qualsivoglia organismo pubblico e tiene dunque conto delle spese dello Stato, della Regione, degli altri enti locali e di ogni Fondo alimentato con risorse nazionali o comunitarie, enti previdenziali compresi. Tutto, insomma. Nella classifica dei più spendaccioni – dopo i già citati Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige – seguono Lazio, Friuli Venezia Giulia e Molise. Tra le più parche (a far compagnia al Veneto e alla Lombardia) ci sono invece Puglia, Emilia Romagna, Marche e Sicilia.

L’evoluzione della spesa fa riflettere. Da un lato se ne ricava che l’enorme differenza della quantità di spesa tra Regioni non è semplicisticamente riconducibile alla loro collocazione geografica, dal momento che si spende tanto al Nord quanto al Sud. Dall’altro, oltre alla quantità, occorre considerarne anche la qualità. Prendiamo per esempio la sanità. Il livello dei servizi resi in Lombardia è nettamente migliore di quello calabrese, anche se l’Istat ci dice che il costo pro capite è di poco superiore: 120 euro a cittadino, un’inezia. Si tratta pertanto di spendere meno ma anche e soprattutto di spendere meglio.

Dal trasporto pubblico ai servizi postali, troppo spesso i nostri servizi pubblici sono lontani dagli standard che ci potremmo aspettare visto il loro costo, condizionati come sono da inefficienze ed eccesso di intermediazione politica. Un esempio? Nell’area di Napoli, forse la peggio servita quanto a raccolta e smaltimento rifiuti, si paga una delle tasse sui rifiuti più alte d’Italia. Resta infine l’annosa querelle sui residui fiscali. Ci sono Regioni che ricevono dalla mano pubblica più di quello che versano in tasse e imposte e viceversa: un tema spinoso. Su un punto però siamo tutti d’accordo: la spesa corrente in valore assoluto non accenna a diminuire e restiamo tra i più spendaccioni d’Europa.

*Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

La spesa pubblica consolidata nelle regioni italiane

Ogni anno la Ragioneria Generale dello Stato realizza un interessante rapporto (La Spesa Statale Regionalizzata) in cui analizza la dimensione e l’andamento della spesa pubblica nelle singole regioni italiane. Un intero capitolo è dedicato alla cosiddetta “Spesa Consolidata”, nella quale vengono incluse oltre alle spese del bilancio statale, quelle realizzate nei territori di riferimento dagli enti locali, da Fondi alimentati con risorse nazionali e comunitarie, da Enti e organismi pubblici.

In questo valore vengono conteggiate, ad esempio, le spese relative al pagamento delle pensioni, degli ammortizzatori sociali o gli oneri relativi alla sicurezza o al controllo dei confini. Il perimetro considerato, quindi, non coincide con le competenze delle singole Amministrazioni Regionali ma punta a ricomprendere la spesa pubblica effettuata in una determinata regione indipendentemente dal soggetto che gestisce quelle risorse.

Nella costruzione del dato consolidato sono stati eliminati i pagamenti intercorsi tra i vari soggetti: potrebbero residuare talune duplicazioni di modesta entità, relative a flussi non evidenziati nelle fonti utilizzate. La Ragioneria Generale dello Stato ritiene che tale circostanza non alteri in modo significativo i risultati della ricerca, in termini di distribuzione tra le regioni.
Rimangono esclusi dal perimetro analizzato gli oneri relativi al pagamento degli interessi sul debito pubblico.

Trattandosi di valori di cassa, la collocazione nella graduatoria di una regione in ciascun anno
potrebbe dipendere in alcuni casi dal profilo di cassa di talune erogazioni di importo più rilevante, le cui annualità potrebbero essersi concentrate in un dato esercizio. L’analisi di ImpresaLavoro prende in considerazione la media degli ultimi tre anni disponibili (2012,
2013, 2014) così da rendere meno evidenti eventuali picchi nelle uscite di cassa dovuti a peculiarità del singolo anno.

La regione con la spesa pubblica pro-capite più elevata è la Valle d’Aosta, con 15.731 euro all’anno. Seguono il Lazio con 13.684, il Trentino Alto Adige con 13.278 e il Friuli Venezia Giulia con 12.975. In coda le regioni più grandi: la Lombardia è ultima per spesa pubblica pro-capite (€ 8.647), preceduta dal Veneto (€ 8.734) e dalla Campania (€ 9.082).

La valutazione cambia se raffrontiamo la spesa pubblica al Prodotto Interno Lordo che ogni singola regione produce. In questo caso le regioni con percentuale di spesa pubblica più elevata rispetto al Pil risultano la Calabria (66,15%), la Sardegna (59,9%) e la Sicilia (56,55%). In fondo alla classifica troviamo le regioni più ricche del Nord: la Lombardia, dove la spesa pubblica pesa per meno del 25%, il Veneto (29%) e l’Emilia Romagna (30%).

Crisi: dal 2007 il Pil pro capite medio degli italiani è sceso del 10,8%, in calo anche il numero degli occupati. Le differenze regione per regione.

Crisi: dal 2007 il Pil pro capite medio degli italiani è sceso del 10,8%, in calo anche il numero degli occupati. Le differenze regione per regione.

Dal 2007 al 2015 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,8%, passando da 28.699 a 25.586 euro (-3.113 euro). Questo calo non si è comunque distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. Altrettanto disomogeneo appare il calo degli occupati nel nostro Paese, che restano ancora inferiori ai dati registrati nel 2007, alla vigilia della lunga crisi economica ancora in atto. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su elaborazione di dati Istat.


Nessuna Regione italiana è riuscita ancora a tornare ai livelli precedenti la crisi economica, ma in alcuni casi il calo del Pil pro capite medio dei suoi cittadini è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria, ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Molise (-19,3%), Umbria (-18,3%), Lazio (-17,7%) e Campania (-16%). Restano al di sotto del dato nazionale anche regioni del Nord come Friuli Venezia Giulia (-11,4%), Liguria (-11,6%), Piemonte (-12,3%) e Valle d’Aosta (-12,6%). Meno colpite, anche se sempre in territorio negativo, sono state invece Trentino Altro Adige (-3,2%), Basilicata (-4,5%), Abruzzo (-6,2%) e Lombardia (-7,9%) che fanno registrare performance sensibilmente migliori della media nazionale.

Nel 2016 nel nostro Paese risultano poi occupate 22.757.840 persone, un dato ancora inferiore di 136.107 unità a quello del 2007, quando gli occupati erano 22.893.947. Anche in questo caso i dati regionali si muovono in modo molto disomogeneo. Rispetto al 2007 già oggi risultano occupate più persone nel Lazio (+201.070, +9,42%), in Trentino Alto Adige (+31.645, +7.04%), in Toscana (+35.856, +2,34%), in Emilia Romagna (+42.685, +2,22%) e in Lombardia (+90.958, +2,15%). E se il Veneto è sostanzialmente quasi ritornato agli stessi livelli del periodo pre-crisi (-18.698, -0,89%), ancora lontane dai livelli occupazionali fatti registrare nove anni fa restano regioni del Nord come la Liguria (-23.607, -3,73%), il Friuli Venezia Giulia (-20.384, -3,93%) e la Valle d’Aosta (-2.391, -4,21%). In questo stesso periodo di tempo si registra una contrazione più marcata degli occupati in tutte le regioni del Sud: Campania (-74.139, -4,33%), Molise (-5.539, -4,97%), Puglia (-80.425, -6,31%), Sardegna (-43.816, -7,23%), Sicilia (-129.443, -8,74%) e Calabria (-69.093, -11,67%).

Non mancano comunque timidi segnali di ripresa dell’occupazione. Un confronto tra i dati 2015 e 2016 evidenzia come nell’ultimo anno il nostro Paese abbia complessivamente recuperato 293.088 posti di lavoro. Le tre Regioni che hanno registrato le migliori performace in valori assoluti sono Lombardia (+71.878), Campania (+59.787) ed Emilia Romagna (48.823). In termini percentuali rispetto alla base occupazionale crescono invece più di tutti Campania (+3,79), Molise (+3,75%), Emilia Romagna (+2,55%), Puglia (+1,98%) e Basilicata (+1,95%). Il dato più negativo viene invece fatto registrare dall’Umbria, che nell’ultimo anno ha perso 5.414 posti di lavoro (-1,51%).

«Mentre tutti gli altri nostri principali competitor europei sono da tempo ritornati ai livelli di crescita pre crisi, l’Italia continua a registrare valori di reddito pro capite e occupazione inferiori a quelli del 2007» osserva l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro. «Purtroppo non si è voluto approfittare di questa crisi decennale per cambiare drasticamente le regole del mercato del lavoro e per allegerire le nostre imprese dal peso esorbitante (e disincentivante) di una tassazione eccessiva nonché di leggine e regolamenti che imbrigliano la loro azione quotidiana. I vari bonus sono pannicelli caldi che non aiutano a rilanciare l’economia e che disperdono risorse. Occorre cambiare passo: rilanciare gli investimenti pubblici e mettere finalmente gli imprenditori nelle condizioni di creare nuovi posti di lavoro e quindi nuova ricchezza».

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

Se la media nasconde importanti verità: analisi dei Pil regionali durante la crisi

di Paolo Ermano

RIASSUNTO
Andando oltre il dato nazionale sulla crescita economica, che vede un’Italia anemica e bisognosa di scosse, per indagare lo sviluppo regionale, si scopre allo stesso tempo sia un’Italia disgregata nella sua capacità di crescere dal 2000 ad oggi, sia un’Italia in cui la dinamica demografica condiziona le performance dei territori. Un Paese con il PIL sostanzialmente invariato dal 2000 al 2014, fino a quando non lo si pesa rispetto alla popolazione: nello stesso periodo, il PIL pro-capite è diminuito di 8 punti a causa dell’aumento demografico; con un Sud depresso e relativamente svuotato, un Nord che sembra resistere se non fosse per gli effetti migratori, e un Centro che pian piano cerca di avvicinarsi al Nord.

LA MEDIA DEL TASSO DI CRESCITA DEL PIL
E’ uno dei grandi caratteri italiani quello della diversità fra regioni e soprattutto fra Nord e Sud. Una varietà di atteggiamenti, paesaggi, storie che rende l’Italia uno dei paesi più vivi e ricchi del mondo. Ma queste molteplicità di forme si traducono, dal punto di vista della politica economica, in un serio problema di gestione della complessità. Ad esempio, ricette adatte allo sviluppo della Liguria potrebbero rivelarsi controproducenti in Sicilia, e viceversa. Da questo dovrebbe discendere la necessità di maggior autonomia dei territori nelle scelte di politica economica; autonomia da accompagnare a una maggiore responsabilità e a un difficile dialogo sulle modalità di redistribuzione delle risorse collettive. Il tema è complesso e molte fra le migliori intelligenze del Paese hanno più volte cercato di sbrogliare la matassa. Eppure, oltre le questioni di economia e di diritto, questa varietà, se non osservata adeguatamente, non permette di inquadrare bene la situazione del Paese al fine di proporre le giuste contromisure per affrontare la più profonda crisi economica dal dopo guerra a oggi. Una delle ragioni è presto detta: ogni volta che vengono forniti dati sulla situazione economica del Paese, spesso ci troviamo di fronte a dati aggregati che perdono quelle specificità dei territorio o delle macro aree (Nord, Centro, Sud) utili per avviare una seria riflessione sullo sviluppo del nostro Paese dopo il grande spartiacque del tracollo dell’economia mondiale del 2008.

LA SITUAZIONE DISAGGREGATA
Se prendiamo l’andamento del PIL dal 2000 al 2014 sia in Italia che nelle regioni che la compongono (tabella 1), la varietà di situazioni di cui si è accennato emerge con chiarezza. Come si può osservare, l’evoluzione dell’economia italiana dal 2000 al 2014 è tutt’altro che di facile lettura.

tab1-andamento-pil

Tutti i territori, come vediamo, hanno vissuto un periodo di crescita fra il 2000 e il 2007, dove il Nord e il Centro crescevano a una velocità rispettivamente doppia e tripla rispetto al Sud. Se non fosse intervenuta la crisi, c’è da immaginare che le distanze fra queste aree sarebbe rimaste molto ampie, con un Sud che rincorreva un’Italia certamente non brillante come altri Paesi ma non per questo priva di slancio. La discussione sul futuro del Paese sarebbe stata diversa in questo caso, essendo più facile gestire un divario economico in periodo di crescita economia che in un periodo di contrazione generale dell’economia. Invece, la realtà ci consegna una situazione in cui per quanto l’Italia nel suo insieme arretri dal punto di vista economico di 1 punto in 14 anni, il Sud ne perde 10, di punti, il Nord resta stabile mentre il Centro guadagna poco più di 2 punti. Nel 2007, 15 regioni su 21 crescevano meno dalle media nazionale; nel 2014 erano 14 le regioni che crescevano meno: ad eccezione delle regioni del Sud, Piemonte, Liguria, Friuli Venezia Giulia e Umbria sono le uniche regioni del Centro-Nord a crescere meno della media nazionale nell’arco di tempo considerato. E’ in questi luoghi che la scusa della crisi può essere giustamente considerata tale, visto che i limiti allo sviluppo emergono ben prima del 2008. Nel complesso dopo 14 anni emerge come il Centro abbia distanziato il Sud di oltre 11 punti, più per colpa dell’arretramento del Sud che per le brillanti performance del Centro. A livello aggregato, lo stipendio dell’italiano medio nel 2014 era dell’1% più basso rispetto allo stipendio del 2000. Ma se avessimo analizzato la situazione a Napoli, per esempio, avremmo constatato come in termini assoluti il territorio poteva definirsi nel 2007 più felice di molte altre aree del Sud, visto che il reddito complessivo era cresciuto di più del 5% in 7 anni. Il risultato si sarebbe ribaltato nel 2014 quando l’analisi dei dati avrebbe evidenziato sul reddito complessivo un crollo pari a più di 17 punti rispetto a quanto maturato nel 2007: un PIL decurtato di quasi 1/5 in pochi anni. Di contro, a Roma potevano vantare una crescita del reddito complessivo del Lazio di più di 6 punti in 14 anni: niente di straordinario, a confronto con altri partner europei, ma pur sempre un risultato degno di nota per una territorio ad una ora di macchina dalla Campania.

LA SITUAZIONE MIGRATORIA
L’analisi appena avanzata presenta due limitazioni. La prima è che ponendo pari a 100 il reddito prodotto dalle singole regioni (il PIL) nel 2000, si perdono le differenze assolute fra regioni. Per capirsi, nel 2007 il PIL della Lombardia era pari a circa €350 miliardi, cresciuto di poco del 10% dal 2000; il PIL della Campania era invece pari a €110 miliardi, cresciuto, come si diceva, del 5% rispetto al 2000. La crescita è in Campania è stata la metà di quella lombarda, ma i valori di partenza erano molto diversi: nel 2000, nello stesso tempo impiegato per produrre €1 in Campania, in Lombardia se ne producevano €3,18; nel 2014 il rapporto era €1 per €3,57. Differenze tutt’altro che marginali. La seconda riguarda gli abitanti. Mentre l’economia italiana era stazionaria, la popolazione dal 2000 al 2014 è cresciuta di poco più di 3 milioni di unità, circa il 6% in più. Usando lo stesso espediente applicato al PIL, se nel 2000 la popolazione era pari a 100, nel 2014 avrebbe raggiunto un valore poco superiore a 106. Quindi, dove nel 2000 a ogni persona corrispondeva una unità di reddito (100 unità di reddito per 100 persone), nel 2014 ogni persona deve accontentarsi di meno di una unità di reddito (98,7 unità di reddito per 106 persone: circa 0,92 unità di reddito pro-capite). Spesso si sorvola sul fatto che la popolazione cambia e che, alla fine, quello che conta è il reddito pro-capite, più che il valore assoluto del PIL. Per questo, non si deve dimenticare che alcuni territori hanno visto la propria popolazione crescere (Nord e Centro), altri no (Sud). Per certi versi è logico che sia così: al Nord e al Centro l’economia cresceva più che al Sud, creando così incentivi affinché le persone si muovessero dove potevano trovare più opportunità di lavoro. Il risultato complessivo dopo 14 anni, però, è dal punto di vista economico ancor più problematico (tabella 2).

tab-2-pil-pro-capite

Pesando la crescita economica con la crescita della popolazione, la fotografia del paese è ancor più sciapida: fra il 2000 e il 2014 il reddito pro-capite è sceso di quasi 8 punti! Un’emorragia di produzione e redditi. Nel 2007, nessuna regione del Nord cresceva più della media italiana, e solo 6 Regioni potevano vantare una dinamica del PIL pro-capite superiore alla media. Nel 2014, solo 5 regioni superano la media nazionale. Andando un po’ più nel dettaglio, paradossalmente i dati sul Sud sono meno negativi di quelli del Centro-Nord. Dove il Sud vede un crollo del reddito pro-capite praticamente in linea con il valore complessivo dei redditi prodotti nel territorio, assorbendo con il flusso emigratorio la pessima performance dell’economia, il Nord, con una dinamica migratoria più vivace, non riesce a sostenere uno sviluppo adeguato alle sfide demografiche che sta affrontando: a livello pro-capite, la Lombardia perde più di 5 punti ma sono di nuovo il Piemonte, la Liguria e il Friuli Venezia Giulia a fare una pessima figura, ottengono un risultato peggiore della media del Sud Italia. Solo la Provincia Autonoma di Bolzano, uno dei territori meno popolati d’Italia, riesce a stare sopra alla pari. Preoccupante la situazione dell’Umbria. Ribadiamo che questo non significa che queste regioni sono ora più povere di altre regioni del Sud: ponendo pari a 100 il reddito pro-capite di tutti nel 2000, appiattendo le differenze, si perdono di vista le diverse condizioni di partenza. E’ però certo che guardare in questi termini lo sviluppo del Paese appare chiaro come i mostri sacri di un tempo, quelle regioni del Nord produttive e ricche, appaiono oggi altrettanto appesantite e rigide quanto lo erano e sono le regioni del Sud per anni bistrattate e lasciate a se stesse. Insomma, il Nord non è stato capace di curarsi e di rilanciarci quanto ci si sarebbe dovuto aspettare.

CONCLUSIONI
Una fotografia di un Paese dovrebbe restituire nel ritratto le caratteristiche del territorio descritto. Spesso in Italia si preferisce guardare la foto di gruppo per paura di dover descrivere e giudicare le singole aree che la compongono. In un periodo di forte crisi economica e culturale, in Italia come altrove, è ancor più necessario aver la forza di osservare nei dettagli i territori e le loro caratteristiche. Ciò che emerge da questa analisi basata su due indicatori, il PIL e il PIL pro-capite, è un’Italia a molte velocità, non facilmente definibili nelle categorie di Nord-Centro-Sud. Per questo è importante sottolineare che se le dinamiche economiche hanno condizionato lo sviluppo dei territori negli ultimi tre lustri, non meno hanno pesato le condizioni demografiche.


 

Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Pil pro capite, regione per regione: la crisi ha aumentato il divario tra Nord e Sud

Dal 2008 al 2014 (anno di cui sono disponibili i dati più recenti), il Pil pro capite degli italiani è sceso del 10,4%, passando da 28.194 a 25.257 euro (-2.937). Ma questo calo non si è distribuito in modo uniforme su tutto il territorio nazionale. È questa la conclusione a cui è arrivato il Centro studi ImpresaLavoro, analizzando i dati del Prodotto interno lordo per abitante (concatenati all’anno di riferimento 2010).

Nessuna Regione italiana è riuscita ancora a tornare sui livelli pre-crisi, ma in alcuni casi il calo del Pil è stato più sensibile. In fondo alla graduatoria ordinata per variazione percentuale negativa, troviamo Campania (-15,7%), Umbria (-15,2%), Liguria (-14,0%), Calabria (-13,2%) e Lazio (-12,8%). Ma restano al di sotto del dato nazionale anche Piemonte (-12,4%), Sicilia (-12,2%), Friuli-Venezia Giulia (-11,9%) e Marche (-11,3%). In termini assoluti, sono Lazio (-4.467 euro) e Liguria (-4.448 euro) le Regioni più in difficoltà.

Meno colpite, anche se sempre in territorio negativo, sono state invece Trentino Altro Adige (-3,5%), Valle d’Aosta (-4,1%), Toscana (-7,5%), Puglia (-8,0%) e Basilicata (-8,5%). Mentre hanno una performance superiore alla media nazionale anche Abruzzo (-8,8%), Molise (-9,1%), Veneto (-9,4%), Sardegna (-9,6%), Emilia-Romagna (-9,7%) e Lombardia (-9,9%).

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Questa distribuzione non uniforme del calo del Pil pro capite, ha cambiato la classifica regionale che descriveva la situazione pre-crisi. La Lombardia non è più in prima posizione ma è scivolata in terza, scavalcata da Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige, che nel 2008 occupavano rispettivamente il secondo e il terzo gradino del podio. Perdono due posizioni anche Liguria e Campania (nel 2008, rispettivamente in sesta e diciassettesima posizione). Guadagnano invece posizioni la Toscana (da decima a settima) e la Puglia (da diciannovesima a diciassettesima). E fanno un piccolo passo avanti – oltre a Valle d’Aosta e Trentino Alto Adige – anche Emilia Romagna e Veneto, che nel 2014 si piazzano rispettivamente in quarta e sesta posizione. Resta ultima al ventesimo posto la Calabria, il cui Pil pro capite è sceso in termini assoluti (sempre concatenati all’anno 2010) di 2.326 euro.

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Sarà interessante vedere se la pur lieve ripresa dell’ultimo periodo porterà variazioni significative a questa graduatoria. Intanto è possibile notare come la crisi abbia aumentato il divario tra il Nord e il resto del Paese. Nel 2008 la media del Pil pro capite delle Regioni del Sud e del Centro era inferiore rispetto alla media delle Regioni del Nord rispettivamente del 40,3% e dell’11,3%. Nell’ultimo dato disponibile (2014) questa forbice si amplia arrivando al 41,2% e al 13,7%. Una tendenza confermata anche dal rapporto tra il Pil pro capite delle prime tre Regioni in classifica e quello delle ultime tre: se nel 2008 la media delle ultime tre Regioni (17.929 euro) rappresentava il 49% della media delle prime tre Regioni (36.506 euro), nel 2014 questa proporzione è scesa al 46% (15.806 contro 34.370 euro).

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Formazione in un’impresa o in un centro di addestramento regionale?

Uno studio importante di Marco Guerrazzi dell’Università di Pisa fornisce interessanti risposte ad un domanda di vecchia data: se la formazione in impresa sia più o meno pertinente di quella in centri di addestramento pubblici, in Italia per lo più regionali o sponsorizzati dalle Regioni. Il testo integrale del lavoro (in inglese) è nell’ultimo fascicolo dell’autorevole International Journal of  Training and Development con il titolo The Effects of Training on Italian Firm’s Productivity: Microeconomic and Macroeconomic Perspectives.

In Italia, l’analisi dell’offerta di formazione professionale e la determinazione del suo impatto sulla produttività del lavoro assumono caratteristiche distintive rispetto ad altri paesi europei. Da una parte, a dispetto di una struttura dei salari piuttosto compressa che dovrebbe consentire alle imprese di recuperare i costi sostenuti per la formazione sotto forma di retribuzioni inferiori, gli imprenditori italiani non sono incoraggiati nel finanziamento di tale tipo di attività. Negli ultimi anni, questa particolare attitudine ha assunto una certa persistenza nonostante una tendenziale perdita di competitività del sistema produttivo che, al contrario, avrebbe dovuto suggerire con una certa urgenza l’adozione di interventi attivi miranti ad invertire la rotta. Inoltre, da un punto di vista squisitamente quantitativo, l’impatto della formazione professionale sulla produttività misurato a livello di singola unità produttiva in Italia è decisamente inferiore rispetto a quello rilevato in altre realtà nazionali.

Al fine di approfondire queste peculiarità del panorama industriale italiano, l’indagine ISFOL-INDACO e l’indagine ISTAT-CVTS4 sono state utilizzate in maniera congiunta per valutare, rispettivamente, l’effetto della formazione professionale sulla produttività di un ampio campione di imprese e l’impatto di tale attività sui tassi di crescita osservati all’interno dell’Unione Europea. In questo modo, sul piano positivo, diventa possibile spiegare per quale motivo le imprese italiane sono il fanalino di coda nelle classifiche internazionali sulla fornitura di formazione. In aggiunta, sul piano normativo, un’analisi di questo genere può fornire un valido supporto per l’adozione di misure volte a contrastare l’insoddisfacente performance dell’intera economia osservata negli ultimi vent’anni.

L’indagine INDACO ha scandagliato oltre 7.000 imprese private con almeno sei dipendenti o più. Queste unità produttive, in larga misura concentrate nel settore della manifattura, impiegavano all’incirca 750.000 lavoratori. In questo campione, le imprese formatrici erano oltre il 50% e al loro interno, in media, la quota di lavoratori formati ammontava al 28% circa. Questi valori non sono troppo distanti da quelli forniti dall’indagine CVTS4, la quale, con riferimento al 2010 e per l’intero territorio nazionale, stimava una quota del 56% per quanto riguarda le imprese formatrici e il 36% per quanto concerne i lavoratori formati.

Da un punto di vista operativo, l’accostamento dei dati sulle imprese censite da INDACO con i corrispondenti riferimenti contabili contenuti nel database ASIA ha consentito di ricavare campione di oltre 4.000 unità produttive – con una distribuzione sul territorio nazionale piuttosto fedele a quella dell’intera popolazione di riferimento – per la quali erano disponibili dettagliate informazioni riguardo ai valori di bilancio e alle caratteristiche di impresa Utilizzando tecniche di stima semplici, è emerso immediatamente che la formazione professionale misurata sia sul margine estensivo (percentuale di lavoratori formati), sia sul margine intensivo (ore medie di formazione per addetto), ha determinato un effetto positivo statisticamente significato sulla produttività aziendale misurata, alternativamente, come ricavi e valore aggiunto per addetto. Questo primo risultato è stato ulteriormente approfondito e raffinato tenendo conto che, generalmente, le imprese di più grandi dimensioni hanno una maggiore propensione alla formazione rispetto a quelle più piccole. In breve, a parità di altre condizioni, un aumento unitario delle ore medie di formazione per addetto è in grado di aumentare i corrispondenti riferimenti dei ricavi e del valore aggiunto di oltre un euro. Di conseguenza, in tutti quei casi in cui il costo della formazione aggiuntiva può essere spalmato una forza lavoro di una certa ampiezza, investire in questa direzione può risultare conveniente per le imprese.

Orientando l’analisi verso una visione aggregata dei sistemi economici, e di quelli europei in particolare, una spiegazione di questo fenomeno può essere fornita esaminando l’impatto che la formazione professionale esercita sui tassi di crescita dell’intera economia. Esiste, infatti, una recente letteratura empirica e teorica secondo la quale la formazione, al pari di altre attività intangibili, è in grado di esercitare un impatto positivo sul PIL che tale impatto può essere formalmente contabilizzato (growth accounting). Questo ovviamente implica che i paesi nei quali le imprese sono meno inclini ad investire in formazione professionale hanno performance macroeconomiche che tendono ad essere meno soddisfacenti.

Con riferimento all’anno preso in considerazione dall’indagine INDACO esaminata in questo lavoro, una riprova di questa relazione può essere facilmente ottenuta mettendo in relazione i tassi di crescita del PIL osservati all’interno dell’Unione Europea nel 2009 con le rilevazioni sulla formazione contenuti nell’indagine CVTS4. Al riguardo, si veda il diagramma: mette chiaramente in rilievo che nel 2009, anno critico della Grande Recessione, i paesi europei nei quali la forza lavoro occupata è stata maggiormente coinvolta dalle imprese in attività di formazione hanno subito una riduzione del PIL meno pronunciata rispetto a quelli nei quali le imprese sono state meno attive in tale direzione. All’interno di questo scenario, l’Italia presentava una percentuale di lavoratori formati al di sotto della media europea (il 36% contro il 37%) e, parallelamente, è evidente che l’economia italiana nel suo complesso ha sofferto una perdita di PIL ben superiore a quella sofferta dai paesi europei più importanti come la Germania, la Francia e la Spagna.

Figura 1: L’impatto della formazione professionale sulla crescita economia

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Fonte: Elaborazione su dati CVTS4 e EUROSTAT

In linea con quanto recentemente raccomandato dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro e dalla Commissione Europea,  qualche forma di incentivo alla formazione in impresa può essere d’aiuto. In effetti, è verosimile che se le imprese nel loro complesso potenziassero l’erogazione di formazione professionale, l’impatto sulla produttività di questa formazione addizionale sarebbe maggiore in ogni singola unità produttiva. Dall’altra, un incremento della formazione potrebbe rendere il sistema economico italiano meno vulnerabile rispetto al verificarsi di shock macroeconomici avversi. In altre parole, un aumento della formazione potrebbe contrastare gli effetti recessivi causati dalla caduta della domanda aggregata che abitualmente caratterizzano le situazioni di crisi economica.

Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,<br /> regione per regione

Lavoro: l’impatto dell’esonero contributivo,
regione per regione

Nel 2015 in Italia, tra nuove assunzioni e trasformazioni di contratti a tempo, sono stati attivati 2milioni501mila rapporti di lavoro a tempo indeterminato. Il 63,3% del totale di questi contratti è stato assistito dall’esonero contributivo triennale previsto dal governo. Un dato, quello rilevato dal Centro Studi “ImpresaLavoro” sui numeri resi noti dall’Inps, che se analizzato su base regionale mette in luce alcune interessanti differenze tra i territori.

Scomponendo il dato a livello locale, infatti,  tra nuove assunzioni e variazioni contrattuali di rapporti di lavoro esistenti (le cosiddette trasformazioni), Umbria (68,51%), Friuli Venezia Giulia (68,12%) e Sardegna (67,60%) sono le tre regioni italiane che hanno – in percentuale – beneficiato maggiormente delle decontribuzioni governative. Mentre Lombardia (54,88%), Toscana (56,12%) e Sicilia (58,31%) chiudono la classifica, con numeri leggermente inferiori alla media nazionale.

In valori assoluti è la Lombardia la regione in cui si è registrato un numero maggiore di esoneri contributivi (264.463), seguita dal Lazio (175.735), dalla Campania (144.747), dal Veneto (118.668) e dall’Emilia Romagna (114.795).

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Concentrando l’analisi dei dati sulle sole nuove assunzioni, invece, è la Sardegna (67,37%) che questa volta precede sia Umbria (65,46%) che Friuli Venezia Giulia (64,51%) e si attesta come il territorio che maggiormente ha fatto ricorso alla decontribuzione prevista dal Governo. Sopra la media nazionale del 57.7% ci sono anche Calabria (63,95%), Molise (63,46%) e Lazio (63,40%), la prima delle grandi regioni.  Seguono Basilicata (61,99%) Piemonte (61,24%) e Puglia (61,19%). Tre regioni hanno un incidenza degli incentivi sul totale dei nuovi contratti fissi inferiore alla media nazionale. Si tratta del Veneto (57,61%), della Toscana (50,87%) e della Lombardia (48,63%).  Dal punto di vista dei valori assoluti è ancora la Lombardia, con 177.235 contratti la regione in cui sono stati attivati il maggior numero di nuovi rapporti a tempo indeterminato assistiti dalla contribuzione pubblica. Seguono il Lazio con 139.463 contratti e la Campania con 127.831.

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Analizzando, infine, la percentuale di esoneri contributivi sul totale delle trasformazioni (da contratti a termine a contratti a tempo indeterminato), in testa alla graduatoria regionale si piazza la Val d’Aosta (82,65%), davanti a Emilia Romagna (79,61%) e Piemonte (78,62%). Con 87.228 trasformazioni assistite (il 74,29% del totale), stavolta i numeri della Lombardia sono leggermente superiori alla media nazionale (73,84%). Mentre, pur restando al di sopra del 60%, le regioni con la percentuale più bassa di trasformazioni assistite dalla decontribuzione sono Basilicata (60,80%), Calabria (60,81%), Sicilia (61,83%) e Campania (62,87%).

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Il venir meno dei generosi incentivi governativi (ridotti per quest’anno da 8.060 euro ad assunzione per tre anni ad un massimo di 3.250 euro su base annua per due anni) si è riflesso immediatamente nel calo del 39,5% dei contratti a tempo indeterminato attivati a gennaio di quest’anno rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Questo calo assume contorni diversi a seconda delle regioni esaminate. In Friuli Venezia Giulia e Molise, ad esempio, la contrazione è contenuta e si ferma, rispettivamente, al 23,2% e al 20,3% con un calo di contratti fissi di 580 e 121 unità. Marcato, invece, il rallentamento in Basilicata dove i nuovi contratti a tempo indeterminato più che si dimezzano (-57,7%) passando dai 1.436 di gennaio 2015 ai 608 di gennaio 2016. Dinamica simile a quella della Valle d’Aosta (-56,6%), Abruzzo (-52,6%) e Umbria (-52,2%). Tra le regioni più grandi è l’Emilia Romagna quella che registrare la contrazione più netta, -43,3% di contratti a tempo indeterminato rispetto a gennaio 2015 (-6.216 attivazioni). Segue il Lazio (-43,1%) e la Toscana (-40,8%). Rallentano, ma sotto la media nazionale, la Lombardia (-39%, pari a 15.852 attivazioni in meno), il Veneto (-36,5%, pari a 5.019 attivazioni in meno) e la Campania (-35,7%, pari a 5.789 attivazioni in meno).

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