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Competenze digitali: Italia sotto la media europea. Valle d’Aosta e Lombardia possiedono i talenti del digitale.

Competenze digitali: Italia sotto la media europea. Valle d’Aosta e Lombardia possiedono i talenti del digitale.

Competenze digitali: quadro europeo

Nel 2021 in Europa gli individui che possiedono competenze digitali superiori al livello base sono in media il 26%. Sopra la media europea si collocano l’Olanda (52%), la Finlandia (48%), l’Islanda (45%), la Norvegia (43%), l’Irlanda e la Svizzera (40%). Al contrario, i Paesi con il numero minore sono l’Albania (4%), Bosnia ed Erzegovina (5%), Macedonia del Nord e Bulgaria (8%), Montenegro e Romania (9%). L’Italia si trova ancora sotto la media europea registrando il 23% di individui con competenze digitali superiori al livello base. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro dell’imprenditore Massimo Blasoni, realizzata su elaborazione di dati Istat, Eurostat e Unioncamere sistema informativo.

Competenze digitali: quadro europeo


Elaborazione ImpresaLavoro su dati Eurostat 2021 – Livelli di competenze digitali degli individui

Quadro italiano: competenze digitali elevate

Le competenze digitali sono la chiave della futura trasformazione tecnologica della maggior parte delle aziende. Sempre più imprese richiedono ai propri dipendenti, oltre alle skills di base, di possedere competenze digitali elevate. Com’è, a tal proposito, la situazione italiana corrente?

A livello regionale, si evince che la percentuale degli individui che possiedono un livello elevato di competenze digitali si raggruppa nel Nord Italia, principalmente in Valle d’Aosta (28,3%), Lombardia (26,6%), Friuli-Venezia Giulia (25,8%), Trentino-Alto Adige (25,7%) ed Emilia-Romagna (25%). Al contrario, si nota un minor numero di individui che detengono competenze digitali elevate in Sicilia (14,4%), Campania (16,6%), Calabria (16,7%), Basilicata (17,8%) e Puglia (18%).

Le fasce d’età risultano essere un fattore importante: con l’aumento degli anni, infatti, il livello di competenze digitali diminuisce. I giovani tra i 20-24 anni possiedono un livello di competenze avanzato (41,5%) insieme ai ragazzi tra i 16-19 anni (36,2%). Il livello scende fra gli adulti tra i 45-54 anni (20,3%) e tra i 65-74 anni (4,4%).



Elaborazione ImpresaLavoro su dati ISTAT – BES 2020 – campione per 100 persone di 16-74 anni

Competenze digitali richieste dalle imprese con ripartizione territoriale

L’innovazione digitale comporta la necessità di nuove figure professionali qualificate dotate del giusto background di competenze tecnologiche di base e specialistiche. Quali sono le competenze digitali richieste dalle imprese italiane? Dove si concentra maggiormente questa richiesta?

Nel 2021 si evince che la richiesta da parte delle imprese di competenze digitali e linguaggi e metodi matematici è maggiore al Nord Ovest rispetto al resto del Paese. In Italia sono particolarmente richieste le competenze digitali elevate al Nord Ovest (23,4%), al Centro (21,8%), al Sud e nelle Isole (20%) ed al Nord Est (18,4%). Al secondo posto delle competenze richieste si trovano le capacità di utilizzo dei linguaggi e metodi matematici, sempre con prevalenza al Nord Ovest (17,3%), al Sud e Isole (16,3%), al Nord Est (14,6%), e al Centro (15,5%).

Al terzo posto, con una richiesta inferiore, le capacità di gestione delle soluzioni innovative che, a differenza delle prime due, vengono predilette maggiormente al Sud e nelle Isole (13,1%), il Nord Ovest (10,9%), il Centro (10,3%), infine il Nord Est (8,8%).




Elaborazione ImpresaLavoro su dati Unioncamere – ANPAL, Sistema informativo Excelsior, 2021

«Il nostro Paese ha fatto notevoli passi in avanti negli ultimi anni – commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro – ma occorre raddoppiare gli sforzi: vincere la sfida digitale è fondamentale per la crescita economica delle nostre imprese».

La crescita può attendere

La crescita può attendere

di Massimo Blasoni – Panorama

Diciamolo con chiarezza, i tre anni di governo Renzi sono stati contraddistinti da previsioni di crescita puntualmente smentite – purtroppo in negativo – come le correlate previsioni su deficit e debito. È significativo che il deficit di bilancio resti sostanzialmente inalterato: era il 2,6% nel 2015, pressoché tale è rimasto quest’anno in barba a ogni impegno preso con il Fiscal Compact. Non riusciamo peraltro a uscire dalla spirale perversa di un debito pubblico che ci ripromettiamo di ridurre e che invece continua a crescere.

La crisi economica è globale ma vi sono in Italia aspetti peculiari le cui colpe vanno ascritte al nostro governo. Non si sono infatti ottenuti risultati significativi sul fronte della riduzione della spesa, peggio, si è contratta quella per investimenti mentre è cresciuta quella corrente. Eppure avremmo un gran bisogno di investimenti in infrastrutture fisiche e soprattutto digitali. Per capirci, mentre nel Regno Unito tra il 2010 e il 2015 la spesa per investimenti saliva da 58,6 a 68,1 miliardi, nel nostro Paese è scesa da 46,7 a 37,4 miliardi. Per converso la nostra spesa corrente, al netto degli interessi sul debito, è salita dai 671 miliardi del 2012 ai 701 del 2016. Nel Regno di Sua Maestà, invece, nello stesso periodo si è registrata minor spesa per più di 50 miliardi.

Non induca in errore il fatto che i trasferimenti agli enti locali – comuni e regioni – sono stati ridotti dal nostro governo, perché per contraltare si è ampliata la voragine dei conti INPS e si sono incrementate numerose altre voci di spesa. Nemmeno sul tema lavoro il governo merita la sufficienza. Il Jobs Act funziona poco e, ridotta la decontribuzione, l’occupazione a tempo indeterminato sta calando mentre resta preoccupante il dato relativo ai giovani. La disoccupazione giovanile oggi è 17 punti percentuali superiore a quella del 2007, peggio di noi fa solo la Grecia. Peraltro si investe poco sul futuro: restiamo tra gli ultimi in Europa per numero di laureati, capacità digitale e di innovazione. I vari bonus, partendo dagli 80 euro, non hanno sortito effetti visibili tanto che i consumi domestici languono e la povertà cresce. Nel 2015 le persone in condizione di povertà assoluta erano 4 milioni e 598 mila, il valore più alto registrato nell’ultimo decennio. I primi dati sull’anno in corso purtroppo sono anche peggiori. Infine le tasse: molto si può dire ma il dato oggettivo è che le entrate erariali a luglio di quest’anno erano di circa nove miliardi superiori a quelle incassate dallo Stato nello stesso periodo dell’anno scorso.

Sia chiaro, questo stato di cose – non siamo gufi – non è frutto di un ordine necessario e irreversibile. Abbiamo citato la spending review inglese, potremmo ricordare la crescita spagnola. Per conseguire risultati occorre però un cambio radicale nella mentalità di governo, impresa e sindacato. Un’evoluzione che Renzi non è stato in grado di indurre, troppo preso da interventi in chiave elettorale e poco capace di intuire il tempo a venire. L’attuale legge di Bilancio ne è un esempio: pochi investimenti e troppa attenzione al consenso.

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

Quando si parla di crescita il Governo la spara grossa

 

di Francesco De Dominicis – Libero

Il bollino blu sulla crescita zero nel secondo trimestre, sfoderato venerdì dall’Istat, ha riaperto un tema essenziale. Quanto sono attendibili le previsioni economiche? Secondo le statistiche ufficiali, il prodotto interno lordo, in Italia, si attesta per ora allo 0,8%: tutto questo scommettendo sull’assenza di rallentamenti tra giugno e dicembre di quest’anno (e i segnali registrati a luglio e agosto, complessivamente, non sono proprio positivi). Sta di fatto che quel più 0,8% tendenziale è, in ogni caso, un valore decisamente più basso rispetto alla stime del governo. Stime che, come ha spiegato ieri il Centro studi ImpresaLavoro, si rivelano sempre meno precise: dal 2002 al 2016, in 14 casi su 15 le indicazioni ufficiali dell’esecutivo non sono state «azzeccate». E solo due per difetto. Sfortuna? No, la cabala non fa parte di questa faccenda.

Spieghiamo. Torniamo al pil e alle indicazioni di palazzo Chigi. A settembre del 2015, nella nota di aggiornamento al Documento di economia e finanza che per prassi «accompagna» la presentazione della legge di stabilità, il Tesoro aveva «previsto», per quest’anno, una crescita del pil dell’1,6% (esattamente il doppio rispetto al ritmo a cui viaggia attualmente la nostra economia). Undici mesi fa, più di qualcuno aveve dubitato sulle probabilità che il pil potesse raggiungere una vetta così alta: del resto, il 2014 era stato chiuso in territorio negativo (-0,4%) e il 2015 si apprestava a riportare il pil in positivo dopo diversi anni, ma con uno zero virgola non entusiasmante (a dicembre sarà appena più 0,9%). L’Italia cominciava a respirare, ma l’onda lunga della crisi non era ancora stata superata del tutto. Di qui, i dubbi: uno dopo l’altro, dalle grandi organizzazioni di categoria ai principali enti internazionali (Fmi, Ocse e non solo) hanno smontato i numeri del governo. Ragion per cui, già ad aprile, lo stesso Tesoro ha tagliato le stime del pil, portandolo dall’1,6% all’1,2%. Niente da fare: nella migliore delle ipotesi, messa sul tavolo dallo stesso istituto di statistica, il pil si attesterà all’1%. Basterà, tuttavia, qualche fattore interno o ulteriori turbolenze internazionali, per far crollare anche questa stima. I segnali non lasciano ben sperare: vuoi il clima di fiducia di imprese e consumatori, vuoi l’effetto a catena di problemi internazionali.

C’è da dire che questa ondata di ottimismo eccessivo accomuna il governo di Matteo Renzi ai vari esecutivi che si sono succeduti a partire dal 2002 (Berlusconi un paio di volte, Prodi, Monti, Letta). Nessuno, insomma, è stato infallibile con le stime e le previsioni. Hanno sbagliato tutti: nemmeno il governo di tecnici e di professori guidato da Mario Monti si è distinto per precisione. L’unico anno «preso»? Il 2007 (pil all’1,5%). Siamo al sesto anno consecutivo sballato: dal 2011 le previsioni sono state sovrastimate con scostamenti enormi. «Sulle ipotesi di crescita – spiega ImpresaLavoro – si basano le simulazioni di sostenibilità sul nostro debito pubblico e sul nostro sistema pensionistico nel medio-lungo periodo». Il punto è proprio questo: nessuno ha il «coraggio» di dire la verità in anticipo, tant’è che, nel periodo in esame, non sono mai state presentate dai governi stime negative, nonostante il pil sia andato sotto zero per ben cinque volte (2008, 2009, 2012, 2013, 2014). A correggere il tiro – e i conti pubblici, con manovre di bilancio che portano più tasse per i contribuenti – si fa sempre in tempo. Prima, si spara grossa.

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

Il Tesoro & C., 15 anni di previsioni sbagliate

da Il Fatto Quotidiano

Il dato sul Pil di ieri certifica che per la dodicesima volta in quindici anni un governo italiano dovrà rivedere al ribasso le sue previsioni sulla crescita. Ormai è un fatto che si dà quasi per scontato, eppure quelle stime rosee inquinano il dibattito pubblico finché non vengono smentite (ma sempre con l’aggiunta: “La crescita ripartirà nel prossimo semestre” o “l’anno prossimo”, a seconda).

Una ricerca di ImpresaLavoro – su dati del Tesoro e dell’Ocse tra il 2002 e il 2015 – ha rivelato che le previsioni dei governi per l’anno successivo sono state prudenziali o esatte solo in tre casi (2006, 2007 e 2010), per il resto tanto ottimismo. Questi i risultati: fatto 100 il Pil del 2001, se le stime governative si fossero avverate il Prodotto italiano oggi sarebbe 123,75 e invece è 97,8. Si dirà, è difficile prevedere cosa succederà un anno dopo il momento in cui si scrive: in realtà, però, anche sull’anno in corso – cioè sulle stime di aprile rispetto al risultato di dicembre – c’è negli ultimi anni un errore medio vicino allo 0,5%. La cosa è un fatto talmente risaputo che l’ha scritta lo stesso Pier Carlo Padoan nel Documento di economia e finanza del 2014: gli ultimi governi hanno “mediamente sovrastimato la crescita economica per 0,5 punti in primavera e 0,2 punti nelle previsioni formulate in autunno (cioè a ottobre, ndr)”. Non sono solo i governi, però, a sbagliare per eccesso le previsioni.

Uno studio dell’ufficio studi della Cgil sugli anni 2008-2014 mostra con palmare evidenza che tutte le istituzioni che hanno costruito il racconto ideologico che ha guidato i nostri governi (deflazione salariale, austerità, privatizzazioni) sbagliano le loro stime con regolarità; in questo periodo, ad esempio, i governi Berlusconi, Monti e Letta hanno errato per eccesso del 14,3%, inventandosi circa 330 miliardi di Pil; la Banca d“Italia, però, ha sbagliato per 13,6 punti percentuali, la Commissione europea per 12,4 e il Fondo monetario per 11,6. La più accurata, per così dire, è stata l’Ocse, che ha sbagliato “solo” del 10,5% (che comunque, in soldi, fa la bella cifretta di 200 miliardi di euro di Pil inesistente). E’ appena il caso di ricordare, infine, che al momento della presentazione dell’ultimo Def da parte del Tesoro, l’Ufficio parlamentare di bilancio (una sorta di Autorità sui conti pubblici) non aveva validato le previsioni per il biennio 2017-2018 perché troppo ottimistiche. Il futuro non sarà diverso dal passato.

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

Le dimensioni del perimetro pubblico e la crescita

di Giuseppe Pennisi*

È solo un’ipotesi di liberali incalliti come noi quella secondo cui le dimensioni del perimetro pubblico incidono sulla crescita dell’economia italiana? Un’autorevole rivista scientifica internazione (The European Scientific Journal Vol. 12 No.7, pp. 149-169) pubblica un saggio di Cosimo Magazzino (Università di Roma, Royal Economic Society, Italian Economic Association) e di Francesco Forte (professore emerito all’Università di Roma La Sapienza) in cui si sostiene la medesima tesi.

Cosimo Magazzino è un trentaseienne professore di econometria con vaste esperienze internazionali. Francesco Forte Forte (classe 1929) è stato chiamato nel 1961 alla cattedra tenuta da Einaudi all’Università di Torino. È stato più volte componente di Governi, nonché editorialista di numerose testate. È un liberale “delle regole” al pari di Einaudi, nonché un europeista convinto – è stato anche ministro per il Coordinamento delle politiche comunitarie. Nel suo ultimo libro, Einaudi versus Keynes (IBLibri, Torino pp.342 , € 20), un saggio che gli ha comportato  sei anni di lavoro, tratta, tra l’altro, de “la terza via di Einaudi per l’Unione Europea, fra la politica fiscale e monetaria keynesiana e quella anti-keynesiana“. Quindi, i due autori sono liberisti moderati.

Il saggio ‘Dimensioni della sfera pubblica e crescita in Italia’ (Government Size and Growth in Italy) contiene una verifica econometrica del nesso tra il perimetro della settore pubblico e la crescita, utilizzando serie storiche dal 1861 al 2008, quindi dall’unità d’Italia all’inizio della crisi da cui, forse, stiamo uscendo. L’analisi viene applicata non solo ai principali indicatori macro-economici ma anche agli effetti delle spese pubbliche, all’occupazione (e di converso alla disoccupazione ed alla riforme tributarie e di politica di bilancio nel lungo periodo. I risultati dell’analisi econometrica mostrano che non c’è una relazione lineare tra le dimensioni del settore pubblico (misurate in termini di rapporto tra spesa pubblica e Pil).

Negli ultimi vent’anni in particolare, emerge una relazione a U che suggerisce che tagli alla spesa pubblica accentuato la dinamica del Pil. Questo risultato – concludono i due autori – è in linea con gran parte della letteratura recente. Curiosamente, l’analisi indica che negli anni della Monarchia il vincolo del bilancio in pareggio ha leggermente rallentato la crescita. Quindi, diminuire la sfera del settore pubblico, ma se necessario, utilizzare, con giudizio e perizia, anche leggeri disavanzi di bilancio.

Questa analisi è valida dopo la crisi? Essenzialmente sì anche se gli effetti della recessione sono stati eterogenei. Lo documentano Andrea Locatelli, Libero Monteforte e Giordano Zevi- tutti e tre del servizio studi della Banca d’Italia- nel lavvoro Heterogeneous Fall in Productive Capacity in Italian Industry During the 2008-13 Double-Dip Recession – Bank of Italy Occasional Paper No 313. Lo studio analizza micro-dati per identificare quali settori hanno perduto più capacità produttiva a ragione della crisi (suddivisa in quattro periodi: 2001-07 (i prolegomeni della crisi); 2008-09 (la fase iniziale), 2010-11 (la leggera ripresa), 20112-13 (la seconda recessione). I risultati principali sono i seguenti: a) la perdita di capacità produttiva varie in modo significativo da settore a settore; b) la grandi imprese sono quelle che hanno avuto maggior successo nell’evitare perdite; c) la vendite nei mercati stranieri hanno sofferto nella prima fase ma si sono riprese nell’ultima; d) il Centritalia è l’area che ha ‘tenuto’ meglio.

I due lavori, anche se hanno obiettivi differenti, hanno un nesso: le imprese prosperano o reggono bene le crisi se sfera pubblica non è invadente.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

di Mino Giachino*

Concordo con la relazione di Confetra (Confederazione Generale Italiana dei Trasporti e della Logistica) del 12 aprile che rivendica il ruolo strategico per lo sviluppo del Paese della logistica. Non posso però non sottolineare  che Confetra aveva approvato sia la Legge Obiettivo che il Piano Nazionale della logistica del 2006 che quello del 2012-2020 cui avevano lavorato due Governi Berlusconi. Purtroppo il Governo Monti non solo sciolse la Consulta dei trasporti e della logistica di cui Confetra faceva parte e alla quale Confetra partecipò sempre con tanti voti favorevoli ma mise nel cassetto il Piano della logistica cui avevo lavorato io, con gli operatori e con i prof.ri Gros-Pietro, Boitani, Bologna, Rocco Giordano, Dallari, Incalza e il compianto prof. Riguzzi.

La relazione sottolinea ancora una volta il contributo che alla crescita potrà dare la logistica se si rinnoveranno le infrastrutture portuali, aeroportuali e i trafori alpini (Tav, Terzo valico). È la linea che portò i Governi Berlusconi, non altri, a ottenere dall’Europa che ben 4 corridoi ferroviari del futuro passassero nel nostro Paese con ben tre grandi snodi logistici a Novara, Verona e Padova. Apprezzo molto la ripresa sia delle autostrade del mare che del ferrobonus, due misure, però , ideate dai Governi Berlusconi e che sbloccai io quando ero al Governo. Constatiamo però che salvo il cargo aereo i volumi trasportati sono ancora inferiori no solo al 2007 ma al 2011.

Io mi auguro con tutto il cuore, da italiano e a da padre di tre figli, che il Piano Delrio abbia successo anche perché dopo 4 anni di governi non eletti la crescita è bassissima ed è dovuta in gran parte alle politiche di Draghi e al calo del prezzo del petrolio. Sono lieto che il Piano Delrio, come il Ministro ha detto in Senato, abbia ripreso anche i lavori del Piano cui avevo lavorato e che fu messo nel cassetto da Monti.

Il mio Piano però affrontava il mutamento del paradigma della vendita del trasporto da “franco fabbrica” a “franco destino” la norma che aiuterebbe più di tante altre cose la logistica italiana a riappropriarsi di funzioni e di lavoro rispetto alla logistica estera, mentre per la logistica urbana quel po’ che si sta facendo si riferisce al protocollo che ideai e scrissi insieme a Luzzati, Scandurra, Zavi e Marciani e che MIT è Torino, Milano e Napoli firmarono nel 2012.

La maggiore crescita arriverà dal potenziamento dei porti e dalla realizzazione dei trafori alpini. Per cogliere le opportunità offerte dall’ampliamento del Canale di Suez e dal gigantismo navale per occorre che vadano avanti i contenuti concordati dalle tre regioni del Nord Ovest e dal Ministro Delrio a Novara, a partire dalla nuova diga foranea di Genova utilizzando i fondi Fesr e i fondi del Piano Junker.

Cavour valorizzò per primo il porto di Genova e prefigurava il ruolo dei trafori per contendere i traffici al porto di Marsiglia. 150 anni dopo a causa dei tanti ritardi e dei tanti No, l’Italia è l’unico Paese che perde traffico a favore dei porti del Nord Europa e a Marsiglia ha sede il terzo operatore mondiale del trasporto container.

Occorre che tutto il mondo dei trasporti e della logistica dal marittimo agli spedizionieri, dalle società di logistica all’autotrasporto, senza del quale la economia italiana non potrebbe funzionare, sostengano insieme nel Paese e con Governo e Parlamento il ruolo decisivo del motore di crescita della logistica.

*Responsabile trasporti e logistica di Forza Italia, già Sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

Crisi: da 14 trimestri consecutivi il nostro PIL è sotto la media europea

NOTA

Altro che crescita: per il quattordicesimo trimestre di fila, il Pil italiano fa segnare un andamento peggiore di quello della media dell’Unione Europea. Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro (condotta analizzando le rilevazioni che misurano lo scostamento rispetto al trimestre precedente) rivela infatti che dall’insediamento del Governo Monti ad oggi il nostro Prodotto interno lordo è sempre andato peggio della media dei nostri partner europei.
Il +0,3% fatto segnare nel primo trimestre del 2015 non deve trarre in inganno. Se guardato in chiave comparata si tratta di un dato tutt’altro che esaltante: la media dell’Europa a 28 cresce dello 0,4%, la Spagna dello 0,9%, la Francia dello 0,6%. Come noi crescono sia Germania che Regno Unito, ma con una piccola differenza: questi Paesi hanno sempre fatto sensibilmente meglio di noi in tutti i 13 precedenti trimestri. E solo in un trimestre su quattordici non siamo risultati gli ultimi in assoluto tra i grandi Paesi europei: è accaduto nel terzo trimestre del 2012, quando la Spagna ha fatto leggermente peggio di noi (-0,30% contro -0,20%).
Concretamente questo significa che – fatto 100 il Pil nel terzo trimestre 2011 – quello italiano vale oggi in termini reali 95,4 contro una media europea di 101,8. Ci battono praticamente tutti i Paesi: negli ultimi 14 trimestre il Regno Unito ha visto crescere il suo Pil del 6%, la Germania del 3,8%, la Francia dell’1,1%, la Spagna dello 0,5%. Il reddito prodotto in Italia è invece sceso del 4,6%.
tabella1
grafico modificato
tabella 2
Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Ridicolo far festa per il Pil a +0.5%

Davide Giacalone – Libero

Le campane del Fondo monetario internazionale suonano a morto, per l’Italia, ma da noi si offrono confetti. Il medico che comunicasse una diagnosi fatale, o l’avvocato che mettesse a parte il cliente dell’irrimediabile sconfitta giudiziaria, considererebbero matti gli interessati, se li vedessero festeggiare. Da noi si brinda per dati pessimi. Ed è segno che si è così fuori di testa al punto da negare l’evidenza dei numeri.

Dicono politici, giornali e opinionisti nostrani: secondo l’Fmi l’Italia crescerà più del previsto. Evviva. Dicono i numeri che la stima di crescita del prodotto interno lordo, per il 2015, s’inchioda allo 0,5%. Considerato che il governo ha appena previsto una crescita dello 0,7, a me pare qualche cosa in meno, non in più. Già, si obietta, ma è una stima al rialzo, perché prima il Fmi prevedeva solo 0,4. Peggio mi sento, perché l’incremento, dovuto alle politiche espansioniste della Banca centrale europea, è calcolato in +0,3 per l’eurozona e +0,1 per l’Italia. La nostra crescita incrementale è pari a un terzo della media europea. E non basta, perché la crescita 2015 dell’eurozona è stimata all’1,5 mentre la nostra, come detto, allo 0,5.

Dunque: fino a ieri noi rabbrividivamo all’idea di crescere solo la metà della media europea, mentre ora festeggiamo il crescere solo un terzo. Sono numeri da paura. Ma fa ancora più paura l’incoscienza e la superficialità di chi li commenta con il sorriso di compiacimento. Finalmente si rivede la crescita. Questa è la straordinaria fesseria che sentiamo ripetere. Taluni, e son tanti, hanno l’attenuante di non sapere di che parlano, ma altri hanno l’aggravante di far finta di non sapere cosa diavolo dicono. Tutti popolano la Repubblica dei bonus, quella in cui si redistribuiscono i soldi nel mentre si accresce il debito.

Una classe dirigente che si rispetti, fatta di politici, ma anche di cattedre e opinionisti, dovrebbe avere il coraggio di partire dalle previsioni (quelle del Fmi coincidono con quelle della Banca d’Italia) per dedicarsi a come modificarle, prendendo atto che segnano un sicuro insuccesso italiano, con un aumento del nostro svantaggio competitivo. Da lì si dovrebbe passare ai possibili rimedi. Ad esempio: la nostra macchina produttiva ha dimostrato, con le esportazioni, di avere un motore capace di ruggire, anziché dilapidare ricchezza blandendo elettori si potrebbe concentrare la spinta laddove la si crea, arricchendo tutti, elettori compresi. Ma quelli di domani, mentre ci si occupa solo di quelli odierni. Una classe dirigente non degna di rispetto, invece, prova a negare la realtà, allo scopo di tirare avanti senza farci i conti, Nel frattempo concentrando tutte le energie in partite certo non prive di rilevanza, ma estranee alla sola vitale: la capacità di riprendere la via della crescita, ad una velocità almeno pari a quella degli altri europei. È la sola condizione capace di farci reggere il peso del debito. Il resto è fuffa.