infrastrutture

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

Giachino (Fi) “Logistica: motore di sviluppo per far crescere il Paese”

di Mino Giachino*

Concordo con la relazione di Confetra (Confederazione Generale Italiana dei Trasporti e della Logistica) del 12 aprile che rivendica il ruolo strategico per lo sviluppo del Paese della logistica. Non posso però non sottolineare  che Confetra aveva approvato sia la Legge Obiettivo che il Piano Nazionale della logistica del 2006 che quello del 2012-2020 cui avevano lavorato due Governi Berlusconi. Purtroppo il Governo Monti non solo sciolse la Consulta dei trasporti e della logistica di cui Confetra faceva parte e alla quale Confetra partecipò sempre con tanti voti favorevoli ma mise nel cassetto il Piano della logistica cui avevo lavorato io, con gli operatori e con i prof.ri Gros-Pietro, Boitani, Bologna, Rocco Giordano, Dallari, Incalza e il compianto prof. Riguzzi.

La relazione sottolinea ancora una volta il contributo che alla crescita potrà dare la logistica se si rinnoveranno le infrastrutture portuali, aeroportuali e i trafori alpini (Tav, Terzo valico). È la linea che portò i Governi Berlusconi, non altri, a ottenere dall’Europa che ben 4 corridoi ferroviari del futuro passassero nel nostro Paese con ben tre grandi snodi logistici a Novara, Verona e Padova. Apprezzo molto la ripresa sia delle autostrade del mare che del ferrobonus, due misure, però , ideate dai Governi Berlusconi e che sbloccai io quando ero al Governo. Constatiamo però che salvo il cargo aereo i volumi trasportati sono ancora inferiori no solo al 2007 ma al 2011.

Io mi auguro con tutto il cuore, da italiano e a da padre di tre figli, che il Piano Delrio abbia successo anche perché dopo 4 anni di governi non eletti la crescita è bassissima ed è dovuta in gran parte alle politiche di Draghi e al calo del prezzo del petrolio. Sono lieto che il Piano Delrio, come il Ministro ha detto in Senato, abbia ripreso anche i lavori del Piano cui avevo lavorato e che fu messo nel cassetto da Monti.

Il mio Piano però affrontava il mutamento del paradigma della vendita del trasporto da “franco fabbrica” a “franco destino” la norma che aiuterebbe più di tante altre cose la logistica italiana a riappropriarsi di funzioni e di lavoro rispetto alla logistica estera, mentre per la logistica urbana quel po’ che si sta facendo si riferisce al protocollo che ideai e scrissi insieme a Luzzati, Scandurra, Zavi e Marciani e che MIT è Torino, Milano e Napoli firmarono nel 2012.

La maggiore crescita arriverà dal potenziamento dei porti e dalla realizzazione dei trafori alpini. Per cogliere le opportunità offerte dall’ampliamento del Canale di Suez e dal gigantismo navale per occorre che vadano avanti i contenuti concordati dalle tre regioni del Nord Ovest e dal Ministro Delrio a Novara, a partire dalla nuova diga foranea di Genova utilizzando i fondi Fesr e i fondi del Piano Junker.

Cavour valorizzò per primo il porto di Genova e prefigurava il ruolo dei trafori per contendere i traffici al porto di Marsiglia. 150 anni dopo a causa dei tanti ritardi e dei tanti No, l’Italia è l’unico Paese che perde traffico a favore dei porti del Nord Europa e a Marsiglia ha sede il terzo operatore mondiale del trasporto container.

Occorre che tutto il mondo dei trasporti e della logistica dal marittimo agli spedizionieri, dalle società di logistica all’autotrasporto, senza del quale la economia italiana non potrebbe funzionare, sostengano insieme nel Paese e con Governo e Parlamento il ruolo decisivo del motore di crescita della logistica.

*Responsabile trasporti e logistica di Forza Italia, già Sottosegretario al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Grandi infrastrutture, diritto e libera iniziativa

Carlo Lottieri

Il dibattito di questi giorni suscitato dai recenti scandali legati alla gestione delle grandi opere si sono quasi interamente focalizzati sul coinvolgimento più o meno diretto di questo o quel politico, e al massimo hanno indotto taluni a interrogarsi sul tema (ben più vasto) del rapporto tra vita pubblica, imprese e corruzione.
Pochi hanno però focalizzato la loro attenzione sulla questione delle infrastrutture stesse e sul fatto, in particolare, che in Italia continua a dominare l’idea che trafori, ponti, linee ferroviarie e altre cruciali iniziative dette “di interesse generale” debbano essere progettati, costruiti e poi gestiti dallo Stato. Per contro, quanti si oppongono a questa prospettiva interventista quasi sempre sono animati da un furore ideologico di taglio ambientalista che guarda con ostilità ogni innovazione.
In questo senso, la battaglia scatenata in questi anni contro la Tav è la riprova che molte grandi opere di Staro sono bloccate solo in ragione del prevalere di un ecologismo pregiudizialmente avverso alla modernità e alle esigenze dell’economia. E non si tratta certo di un contrasto tra destra e sinistra, dato che la demagogia ecologista ha contagiato esponenti di ogni schieramento.
C’è però anche dell’altro. In fondo, le tensioni riguardanti le grandi opere sono pure la conseguenza di logiche tecnocratiche che fatalmente creano legittime resistenze. Una realizzazione destinata ad avvantaggiare un gran numero di persone dovrebbe anche destinare ingenti risorse a quanti possono essere danneggiati da quell’opera. Non è accettabile che, come avvenne nel caso dell’aeroporto di Malpensa, si arrechino danni patrimoniali tanto rilevanti senza aver avviato una trattativa con i proprietari di case e terreni, che a seguito della realizzazione dello hub in provincia di Varese hanno visto dimezzato il valore delle loro abitazioni.
La logica delle grandi opere, allora, deve cambiare non solo perché fino a ora le infrastrutture maggiori sono state essenzialmente grandi occasioni di corruzione e spreco. Oltre a ciò, è importante che questo ambito sia consegnato ai privati e al diritto. Bisogna insomma che da decisioni assunte unilateralmente si passi a negoziazioni tra privati che rispettino i diritti e le ragioni altrui. Anche per questo è indispensabile che le opere di grande interesse – si tratti di strade, impianti energetici, ponti o metropolitane – siano realizzate da imprese, e non direttamente dallo Stato.
Quest’ultimo, infatti, ha la tendenza a lanciarsi in imprese economicamente irrazionali, senza tenere in considerazione i diritti delle persone interessate. Tutto questo ovviamente esige non soltanto che si metta da parte il pregiudizio secondo il quale solo lo Stato può realizzare opere di particolare rilievo, ma al tempo stesso è importante che si difendano due diritti: la libertà di iniziativa degli imprenditori, che non possono essere bloccati da una troppo fitta rete di regole e burocrazie, e il diritto di proprietà di quanti possono essere penalizzati da questa o quella costruzione di particolare impatto.
La nostra società ha bisogno di essere all’altezza dei tempi e rinnovarsi di continuo, ma è necessario che siano fissate regole a tutela di tutti e che quanti si lanciano in imprese colossali facciano tutto ciò con i loro soldi e, al tempo stesso, senza subire veti infondati o subire ricatti di vario genere.
Oggi parlare di grandi opere significa evocare corruzione, da un lato, e costi davvero alti per i contribuenti, dall’altro. Significa evocare logiche dirigiste e scelte top-down che suscitano tensioni e ledono diritti. È il momento di voltare pagina.
La guerra tra due concezioni delle infrastrutture

La guerra tra due concezioni delle infrastrutture

Giuseppe Pennisi – Formiche

Al di là degli aspetti giudiziari e politici, occorre riflettere al “sottostante” tra due concezioni di cosa deve intendersi per infrastrutture in un Paese del livello di sviluppo economico e sociale (e dell’orografia) dell’Italia: se “grandi opere” principalmente per la logistica o operazioni ciascuna di piccola portata ma essenzialmente di “manutenzione straordinaria” o di miglioramenti tecnologici e ampliamenti selettivi al parco già costruito in secoli e secoli. Mentre in altri Paesi c’è stato, ed in alcune è ancora in corso, un dibattito per giungere ad una convergenza tra le due “scuole”, evidenziandone le complementare, in Italia è in corso una vera e propria guerra ideologica con ricadute di ogni sorta.Quattro anni fa il servizio studi della Banca Europea per gli Investimenti (Bei) ha analizzato la situazione con grande cura statistica. I dati affermano da anni che il Nord Europa è dove il fabbisogno di grandi opere è maggiore a ragione del sovraccarico della rete dei trasporti. Soffermiamoci, a titolo indicativo, sul nostro Paese.

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Reti e scalate

Reti e scalate

Davide Giacalone – Libero

La storia di Telecom Italia può essere raccontata come metafora del disfacimento industriale e della degradazione italiana. Una storia che comincia durante il fascismo, con il primo grande errore dei miopi capitalisti nostrani, i quali comprarono volentieri la gestione del traffico locale, ma non vollero quello di lunga distanza, considerato poco profittevole. Fu poi quello più ricco. Proseguì con passaggi eroici e commoventi, come i cavi transatlantici posati a cura di una società, Italcable, finanziata con i risparmi dei nostri emigranti. Venne poi il capitolo della ricostruzione e dell’ammodernamento, con un salto tecnologico epocale, a cura di società facenti capo all’Iri, quindi allo Stato. Amministrate dai così detti “boiardi”, accusati di gestioni anche clientelari, ma che lasciarono società forti, evolute e ricche. Quindi si passò alla distruzione, con la peggiore privatizzazione immaginabile. Ai corsari che scaricarono sui gioielli le scorie organiche dei loro debiti, capaci d’impiombare i conti della società. Quindi l’intervento delle banche e l’ingresso del socio spagnolo. Ora gli spagnoli si sono rotti l’anima e le banche sono in fuga, mentre si annuncia l’ipotesi di una nuova scalata, dall’estero. A parte conoscere la storia e comprenderne le miserie, qual è, oggi, l’interesse collettivo? Come si può farlo valere?

L’interesse dell’Italia, oramai, non è quello di discutere la nazionalità degli azionisti. Purtroppo, finita l’era dell’Iri, sia detto con molteplice dolore, gli italiani si sono dimostrati i peggiori. Almeno fin qui. Il nostro interesse è che le telecomunicazioni siano sviluppate e tecnologicamente aggiornate, senza che altri soldi dei contribuenti (e dei clienti) siano trasferiti nelle tasche degli avventurieri e dei predatori. Sulla rete esiste ancora un diritto pubblico, incarnato nella goldenshare, nascente non solo dalla rilevanza nazionale di quell’infrastruttura, ma anche da fatto di essere stata realizzata con soldi pubblici. Quel diritto va esercitato non per decidere chi deve essere l’azionista, ma per costringere la società a non indebolire l’Italia fornendo un servizio al di sotto degli standard europei. Va esercitato non per limitare la concorrenza, ma per renderla più libera e forte. Poteva andare diversamente, ma oramai è andata.

Le scalate possono destare l’interesse di un pubblico che le segue come fossero avventure di cavalieri erranti, o di chi, legittimamente, spera di trarne un profitto in Borsa. A noi interessa altro: che chi controlla e amministra la società lo faccia sì per trarne profitto, ma da perseguirsi non succhiando ricchezza dagli abbonati, ma investendola per offrire loro servizi al passo con i tempi. E non ci siamo. Lo Stato non deve tornare a fare l’azionista. Non per ragioni ideologiche, ma perché il mondo è cambiato. Lo Stato deve cominciare a fare bene il suo mestiere: dettare le regole e farle rispettare. Facendosi rispettare nella sede in cui gran parte delle regole sono dettate: l’Unione europea. Il che significa evitare di credere che per assicurarsi un futuro si debba tornare al passato, con i soldi della Cassa depositi e prestiti, che sono soldi degli italiani, usati per ricomprare quel che è stato fatto con i soldi degli italiani, ovvero la rete. Tanto più che nella sua società delle reti la Cdp ha preso non soci finanziari, ma soci industriali che sono potenziali concorrenti delle reti italiane. Né serve a nulla dire che la governance rimane in mani italiane, o ci rimane la maggioranza delle azioni, perché nel mercato contano i soldi e la capacità di farli fruttare, il che scatena forze non certo arginabili con qualche nominato cui è già stata data abbastanza ricchezza perché possa andarsene a goderne i frutti.

Dal male può venire il bene, se non ci si ostina a far confusione fra i due. Meglio un mercato libero di crescere e uno Stato libero di controllarlo e sanzionarlo, piuttosto che la melassosa commistione di un mercato impastoiato con la politica e uno Stato prigioniero degli interessi che dovrebbe sovrastare. Anziché fare dichiarazioni spiritose o giocare al piccolo ministro, il personale di governo farebbe bene a dedicarsi alla sola cosa utile che può essere fatta: chiarire a tutti i tempi e le modalità in cui ciascuno deve investire nelle reti e nei servizi, in modo da rendere reale l’evoluzione digitale del nostro mercato, avvertendo che chi non rispetterà gli impegni pagherà pegno.

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La domanda se l’Eurozona (Uem) si avvia a una strisciante depressione e deflazione è emersa chiara dopo i brutti dati sul secondo trimestre 2014. Il Pil è stato infatti a crescita zero sul primo trimestre e in crescita solo dello 0,7% su quello corrispondente del 2013 con l’inflazione annua scesa allo 0,4% in luglio. Tentiamo una risposta con alcune analisi e alcune proposte.

Manca una vera politica. Le previsioni di una crescita sostenibile della Uem sono adesso riviste al ribasso con spiegazioni (tra cui quella attuale ma debole della crisi Russia-Ucraina) che cambiano spesso salvo quella sulla necessità che i Paesi ritardatari accelerino le riforme strutturali.
Il problema è che manca una politica economica della Uem che, invece, ha tacitamente affidato il compito alla Bce (esclusa la politica fiscale restrittiva) slegandole però “un dito alla volta”. In queste condizioni la Bce di Mario Draghi ha fatto molto negli anni passati ma adesso bisogna chiedersi se può da sola rilanciare la crescita di un’area da 335 milioni di persone e con 19 milioni di disoccupati. Ovvero di grandezze maggiori di quelle Usa dove la banca centrale (Fed) ha poteri illimitati.

Le politiche della Bce. Non bisogna perciò riporre troppe aspettative sulla Bce anche se tra il 2010 e il 2013 ha salvato l’euro. La sequenza delle sue operazioni, giustificate per garantire la stabilità finanziaria dell’Eurozona, è stata notevole. Nel 2010 partì il «security market programme» (Smp) per l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi della Uem in difficoltà. Poi, tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012, si passò alle Longer term refinancing operations (Ltro) con prestiti alle banche della Uem di circa 1.000 miliardi di euro (con titoli vari in garanzia) che le hanno salvate, indirettamente favorendo anche gli acquisti dei titoli di Stato di Paesi traballanti. Nel luglio del 2012 Draghi, in un famoso discorso, affermò che la Bce avrebbe comunque salvato l’euro. In settembre fu annunciato il programma Outright monetary transaction (Omt) per operare illimitatamente sul mercato secondario dei titoli di stato per i Paesi della eurozona in programmi di ristrutturazione vigilata. Questi annunci conclusero il salvataggio dell’euro e dei debiti sovrani riportando i tassi di interesse a livelli ed a spread accettabili rispetto ai titoli tedeschi. Ciò non è bastato però per risollevare una Uem fiaccata e divaricata tra Paesi dove le necessarie riforme strutturali non possono avere effetti istantanei.

Il credito all’economia. In assenza di una politica economica per l’eurozona l’annuncio di Draghi del 5 giugno di nuove misure per riportare la dinamica dei prezzi dell’eurozona verso un tasso annuo del 2%, che è ritenuto fisiologicamente nel mandato della Bce, è una buona notizia ma non si può dire se rilancerà la crescita dell’eurozona. Le misure annunciate (Tltro ovvero Targeted Longer-term refinancing operation) consistono nella concessione di prestiti alle banche commerciali a condizione (vigilata) che li girino all’economia reale spingendo la domanda delle imprese e delle famiglie (esclusi i mutui casa), l’occupazione e la crescita. L’entità dei prestiti della Bce, le condizioni e la tempistica si possono riassumere come segue. I prestiti alle banche possono arrivare a 1.000 miliardi tra settembre di quest’anno e giugno 2016. Nel 2014 in due tranches potrebbero arrivare 400 miliardi pari al 7% dei crediti che le banche hanno concesso alla data del 30 aprile 2014. Il tasso sarà dello 0,10 superiore a quello ufficiale della Bce attualmente allo 0,15%. Alle banche italiane potrebbero arrivare 75 miliardi. L’erogazione dei prestiti della Bce nel corso del 2015 e 2016 è un po’ più complessa in quanto calibrata sull’entità dei crediti concessi nel citato periodo dalle banche commerciali all’economia reale. Nel giugno del 2016 avverrà un controllo cruciale per distinguere tra le banche che hanno rispettato, tra il maggio 2014 e l’aprile 2016, degli obiettivi prefissati di credito alle imprese e famiglie e quelle che non li hanno rispettati. Le prime potranno detenere i prestiti della Bce fino a settembre 2018 mentre le altre dovranno rimborsali entro settembre 2016. Malgrado le ottime condizioni di tassi praticati dalla Bce molti sono ancora i quesiti aperti per valutare l’efficacia di queste misure sia perché la banche hanno requisiti stringenti di patrimonio da rispettare per l’erogazione dei prestiti sia perché, se dall’economia reale (imprese e famiglie) non viene una sana domanda di credito, non si può correre il rischio di erogazioni a pioggia.
Secondo una stima l’effetto cumulato del Tltro sarebbe di 0,2-0,4 punti percentuali al Pil della Uem nel 2015-16 con una spinta sui prezzi dello 0,1%. Sono entità modeste.
Il credito per gli investimenti. Essendo l’economia reale ferma perché la domanda di investimenti e consumi non riparte, non basta offrire alle banche crediti a buone condizioni. Una proposta intelligente per potenziare subito il Tltro della Bce in Italia è stata suggerita il 10 giugno da Franco Bassanini ed Edoardo Reviglio su queste colonne. Si tratta di incentivare l’erogazione del credito bancario a favore delle imprese dando una garanzia pubblica parziale alle Banche tramite un potenziamento del Fondo centrale di garanzia o (per operazioni non consentite allo stesso) tramite la Cdp a sua volta garantita dallo Stato. La legge di stabilità 2014 già lo ammette ma manca il decreto attuativo. In tal modo si alleggerirebbe il vincolo dei ratio patrimoniali imposti alle banche incentivando il credito anche su quei progetti di investimento che per la loro innovatività possono avere ritorni più lenti e meno certi. Più complesso è il tema del finanziamento degli investimenti in infrastrutture che il Tltro ammette ma che difficilmente le banche commerciali affronterebbero. Bassanini e Reviglio non lo esaminano ma sembra che le Casse depositi e prestiti europee (e altri investitori a lungo termine) stiano elaborando una proposta per chiedere alla Bce una variante infrastrutturale al TLRTO che non commisuri questi investimenti a quelli da loro finanziati in precedenza e che ne allunghi ad almeno sette anni la durata.

Una conclusione. Da tempo sosteniamo che la Uem ha bisogno di una politica per le infrastrutture e l’industria che darebbe anche delle direttrici alle banche ed alle imprese per fare solide scelte di credito e di investimento alla cui attuazione la Bei e le Casse depositi e prestiti possono molto contribuire. La supplenza della Bce, che a breve avvierà anche un programma di acquisti di crediti bancari cartolarizzati (ABS), non può bastare. Per questo abbiamo apprezzato il programma del neopresidente della Commissione Junker centrato sulla crescita e l’occupazione. Adesso bisogna realizzarlo.