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Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Svizzera: prima in Europa perché meno tassata

Carlo Lottieri – Corriere del Ticino

Da sempre il destino delle comunità è legato a quello dell’imposizione fiscale. Come mostrò alcuni anni fa Charles Adams in un formidabile saggio dal titolo “For Good and Evil. L’influsso della tassazione nella storia dell’umanità” (la versione italiana è stata pubblicata da Liberilibri), esperienze che erano state di grandi successo per secoli e secoli sono  crollate, nel passato, proprio a seguito di imposizioni tributarie eccessive. Oltre a ciò, hanno spesso avuto una matrice fiscale anche le rivoluzioni moderne: in Inghilterra come in America, come in Francia.

Sotto tanti punti di vista è difficile capire qualcosa della stessa crisi che l’Europa sta conoscendo se non si considera che mai come oggi gli apparati pubblici del Vecchio Continente hanno colpito in maniera tanto massiccia i redditi di lavoratori, imprese e famiglie. Ed è quindi motivo di soddisfazione rilevare, secondo quanto afferma una recente ricerca del centro studi Impresa Lavoro di Udine, che entro il quadro europeo la Svizzera si trova al primo posto in quanto a “libertà fiscale”.

L’indice considera i ventotto Paesi dell’Unione più la Svizzera e prende in esame cinque aspetti: il numero delle procedure necessarie a pagare le imposte; il tempo da destinare a ciò; il tax rate sulle imprese; il miglioramento del livello tributario complessivo nel periodo 2000-2014; e soprattutto (ed è questo il dato che pesa di più, ovviamente) la percentuale complessiva dei tributi in rapporto all’economia. Soprattutto grazie a quest’ultimo dato, la Svizzera si rileva meno oppressiva di ogni altro Paese, superando – anche se non di molto – l’Irlanda.

Va aggiunto che la Svizzera primeggia in questa classifica nonostante due voci che la penalizzano: il numero delle procedure (relativamente alto, com’è inevitabile in un Paese a struttura federale) e il cambiamento rispetto al 2000. In un quindicennio la Svezia ha ridotto del 5,9% la pressione fiscale, ma in Svizzera questo exploit non è stato possibile, considerando l’alta tassazione da cui si partiva.

Tutto bene? Non proprio. Il quadro generale – come si è detto – è quello di un’Europa schiacciata da debiti e alta tassazione al tempo stesso: e in questo quadro è difficile pensare che la piccola Svizzera non paghi conseguenze negative. Quando i tuoi clienti, i tuoi fornitori, i tuoi partner, i tuoi risparmiatori ecc. conoscono difficoltà, anche tu difficilmente avrai prospettive esaltanti.

In questo contesto è importante essere ancora più virtuosi ed evitare la tendenza, che pure è fortissima, a considerarsi tanto bravi solo perché si fa meglio di altri. Essere i primi in una classe di somari non significa necessariamente essere ottimi studenti. Fuor di metafora, è cruciale che si risvegli lo spirito di resistenza che lungo i secoli ha portato le popolazioni elvetiche a resistere di fronte alle pretese di quanto inventano nuove imposte e moltiplicano i tributi. Se si vogliono finanziare spese e progetti, è sempre bene esplorare la strada di tagli di bilancio: riducendo le uscite invece che aumentando le entrate.

Si tratta di avere una visione complessiva in grado di assicurare un futuro di prosperità: evitando ogni “normalizzazione” e scongiurando il rischio di una Svizzera sempre più simile alla Francia o alla Germania. Ma oltre a ciò, quando si assume come proprio principio ispiratore una sana diffidenza di fronte a ogni imposta, si sceglie di essere fedeli all’istituto cardine di ogni società civile: la proprietà.

Rispettare quanto più è possibile la proprietà significa, in poche parole, rispettare l’altro: il suo lavoro, il suo risparmio, quello dei suoi genitori. In questo come in altri casi (si pensi ai contratti), la difesa di solidi principi di giustizia comporta rilevanti conseguenze economiche. Una società che cerca di essere giusta e quindi non consegna una quota crescente delle ricchezze nelle mani dell’apparato politico e burocratico, alla fine è anche una società di successo.

Almeno in parte, questo è quanto la Svizzera ha saputo fare nel corso dei secoli: ha contenuto tassazione e regolazione, ha protetto la proprietà, ha tutelato i contratti, ha limitato (anche grazie alla concorrenza istituzionale e quindi al federalismo) il potere dei governanti, e tutto questo l’ha premiata.

È bene allora che non venga meno questa vigilanza di fronte alle buone ragioni del diritto, che si esprime anche in una resistenza di fronte a imposte eccessive e ingiustificate. E non solo per mantenere quel primo posto in classifica che pure tanti benefici assicura (basti pensare alla limitata disoccupazione) alla popolazione svizzera.

 

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

Blasoni: Difendere la proprietà è difendere il lavoro

di Massimo Blasoni

Pubblichiamo la prefazione di Massimo Blasoni, Presidente del Centro studi ImpresaLavoro, a “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri, libro della collana “Fuori dal coro” in edicola con Il Giornale.

lottieri“Proprietà”, per alcuni, è un termine che identifica diseguaglianze ed egoismi, riecheggiando prevaricazioni antiche. “La proprietà è un furto”, diceva Proudhon. Per altri, e per fortuna sono i più, la proprietà privata è espressione del lavoro e della libertà.

Nella mia memoria, la proprietà è l’appartamentino comprato da mio padre e la sensazione di emancipazione che questo acquisto gli dava. Se vogliamo, tanto la nostra libertà trova un limite nella libertà altrui, altrettanto la proprietà rappresenta il confine che opponiamo agli altri. Un confine naturale, facendo eco a John Locke e Frédéric Bastiat, che ognuno ha diritto di difendere come la sua libertà e la sua persona. “Non è perché ci sono leggi che ci sono le proprietà, ma è perché ci sono le proprietà che ci sono le leggi”. E questo confine viene colto da molti di noi soprattutto come prodotto del lavoro. La proprietà scaturisce dal lavoro, ne è un’estensione e non è ovviamente il privilegio di un’oligarchia; anzi è la sua larga diffusione che ulteriormente la legittima e, oltre che naturale, la rende democratica.

Nel nostro Paese la proprietà non è particolarmente tutelata e indubbiamente è fortemente tassata. Questo soprattutto per la ridondante presenza della politica nelle nostre vite che trae potere dalla propria capacità di spesa. Peraltro il retaggio di una cultura di sinistra che poneva, e forse pone, al centro lo Stato è rilevante, nella storia recente del nostro Paese, sin dalla Costituente.

Certo è che nell’ultima edizione dell’Index of Economic Freedom, realizzato dal Wall Street Journal e da Heritage Foundation, alla voce “diritti di proprietà” l’Italia ha un punteggio di 50 su 100. È insomma una sorta di Paese “parzialmente represso” e si piazza mestamente in 57esima posizione dietro Paesi come Qatar, Giordania, India e Malesia.

Il livello di tassazione sulla proprietà ha raggiunto da noi livelli difficilmente accettabili. La tassazione sulla casa e quella sul risparmio sono cresciute in maniera esponenziale negli ultimi anni. E, ricordiamolo, le imposte sulla proprietà sono tasse sulle tasse, nel senso che al prelievo sul nostro reddito da lavoro si aggiunge quello sui nostri acquisti. Eppure dovrebbe essere chiaro che lo Stato è un gestore poco efficiente e, mentre tassa la case degli italiani, utilizza senza criterio il proprio patrimonio: 530.000 unità e 760.000 terreni in parte liberi, in parte affittati male.

Diversamente, è chiaro, si comporta il padre di famiglia con la sua abitazione come già Aristotele rilevava nella Politica: “Di quel che appartiene a molti non si preoccupa proprio nessuno perché gli uomini badano soprattutto alla proprietà loro”.

In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

In edicola con Il Giornale “Le virtù della proprietà” di Carlo Lottieri

È in edicola con Il Giornale il libro “Le virtù della proprietà”, scritto da Carlo Lottieri e nato da una collaborazione tra il Centro studi ImpresaLavoro e Confedilizia. Il lavoro si inserisce nella collana “Fuori dal coro”, serie di approfondimenti e inchieste sui temi caldi dell’attualità. Libri agili ed essenziali che aiutano i lettori a orientarsi sulle questioni del mondo contemporaneo, si tratti di religione, politica, economia, ambiente o società.

In un mondo di idee sempre più omologate, questo appuntamento settimanale esclusivo vuole uscire dal quotidiano per rispondere alla voglia di capire dei lettori. Un punto di vista controcorrente, libero dal pensiero dominante.

“Le virtù della proprietà”, disponibile in edicola a soli € 2.50 (oltre al prezzo del quotidiano), è un viaggio appassionante in difesa della proprietà privata, un pilastro dell’economia e simbolo della libertà personale, ma nel mirino di fisco e leggi. Da Aristotele a Einaudi sono moltissimi i pensatori che hanno visto nella proprietà il requisito fondamentale per una società ordinata e funzionante.

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I neomarxisti del welfare e del parassitismo

I neomarxisti del welfare e del parassitismo

di Carlo Lottieri

Ammettiamolo: c’è uno spettro che si aggira di nuovo per l’Occidente e questo spettro – di nuovo – è il marxismo. Se in America pare abbia qualche chance di successo uno come Bernie Sanders e i laburisti inglese hanno scelto quale presidente Jeremy Corbin, questo vuol dire che il successo editoriale di un Picketty o l’avanzata elettorale del nuovo socialismo nel Sud Europa  (dalla Grecia alla Spagna, alla stessa Italia dei teorici dei “beni comuni”) non sono fatti di poco conto. Il clima politico e culturale è sempre più favorevole alle tesi di Karl Marx.

E al tempo stesso colpisce dover constatare come questa riverniciatura del Capitale prescinda da un tema che era centrale in quel complesso lavoro, e cioè il tema della produzione.

Nel suo sforzo di leggere il procedere della storia, la filosofia marxiana si basava su un progetto preciso: si trattava di “superare” il capitalismo, a cui era comunque riconosciuto il merito di avere espresso una capacità di trasformazione del mondo mai vista in precedenza. D’altra parte Marx visse a lungo a Londra, che era il cuore dell’economia liberale, ed era persuaso che la rivoluzione proletaria si sarebbe affermata nel mondo di lingua inglese, avanguardia del capitalismo più dinamico. Rileggendo la storia in termini economici, egli intendeva enfatizzare il dato cruciale della produzione come motore primo del cambiamento sociale.

Se la modernità aveva esaltato la creatività economica, al socialismo spettava il compito di andare oltre, eliminando l’iniquità della sottrazione del plus-valore.

Sotto vari punti di vista, il nuovo socialismo che pretende di richiamarsi al filosofo di Treviri si regge allora su due elementi che erano assenti in Marx: la redistribuzione operata dal welfare State e l’ecologismo. In questo senso, i vari Tsipras utilizzano i richiami al materialismo dialettico solo per evocare slogan avversi al capitalismo, incuranti di questioni che erano invece cruciali nella riflessione di Marx. In effetti una teoria che ignori i temi della produzione non può dirsi marxista ed è chiaro che la nuova sinistra che si colloca tra Syriza e Podemos, e che trova perfino più di un’eco nei Paesi anglosassoni, non è primariamente interessata a come produrre, ma solo ai processi allocativi. La ricchezza non esce dall’impresa e non emerge dagli scambi: semmai essa è uno stock, che oggi è iniquamente distribuito. La rivoluzione non è allora invocata per cambiare i sistemi di produzione, ma per togliere a qualcuno e dare a qualcun altro.

E così si può prendere ai tedeschi per dare ai greci, ma anche alla finanza per dare ai lavoratori, all’1% per dare al 99%. Se il marxismo era comunque una filosofia della produzione, questa sua rivisitazione mediterranea si focalizza sulla redistribuzione e sull’idea che tutti gli uomini hanno diritto alla soddisfazione dei loro desideri. Non a caso, oggi cresce il numero di quanti sono favorevoli a quell’espansione monetaria che è in grado di fare avere banconote (seppure inflazionate) a tutti.

Le premesse teoriche di tale rilettura distorta del marxismo, che ne muta profondamente vari presupposti, erano già per certi aspetti riconoscibili in un movimento intellettuale che coinvolse soprattutto economisti e filosofi come Philippe van Parijs, Jon Elster, G.A. Cohen e altri, riuniti in quello che si autodefinì come September Group. Per vari anni a partire dal 1979 questi studiosi si incontrarono a Londra e altrove con l’obiettivo di rielaborare il marxismo alla luce della filosofia analitica, ma quella che ne derivò fu soprattutto una visione che impose nel dibattito pubblico il “basic income” (reddito di base) e, più in generale, una teoria della redistribuzione che criticava “da sinistra” le tesi di John Rawls.

La celebrazione dello Stato quale dispensatore di benefici – in un articolo Van Parjis difese pure il diritto dei surfisti di disporre di un reddito di cittadinanza che permettesse loro di divertirsi tutto il giorno – discende da un vero disinteresse per l’economia quale attività produttrice. E qui entra il campo la riformulazione della sinistra operata dall’ambientalismo.

Mentre il marxismo riconduceva la prosperità al lavoro umano, per gli ecologisti la vera ricchezza è nella natura. La ricchezza sono le risorse. Ma se le cose stanno così, si capisce come l’attenzione si sposti dall’esigenza di produrre a quella di distribuire. Per taluni di questi neo-marxisti ogni proprietà stessa è viziata dal peccato originale di un’occupazione originaria che ha sottratto terra, acqua o altro dalla comune disponibilità di tutti.

In Marx non c’è nulla che ne possa fare un ecologista e un fautore di politiche che collettivizzano i profitti per costruire rendite parassitarie. Ma nell’Europa meridionale innamorata dei “diritti sociali” ci si presenta come marxisti al solo scopo di salvare prebende. Questo gioco però non può durare in eterno, dato che – come disse Margaret Thatcher – il dramma del socialismo è che i soldi degli altri prima o poi finiscono. E insomma il tema della produzione non può essere del tutto eluso e per sempre.

 

 

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

Analfabetismo, pragmatismo e declino della civiltà

di Carlo Lottieri

Una delle cause della crisi epocale che l’Occidente sta vivendo discende dal fatto che la maggior parte delle idee economiche condivise dalla popolazione, a ogni livello, sono semplice sbagliate. Le ragioni di questo diffuso analfabetismo sono numerose, ma tra le altre va certo ricordata l’influenza nefasta esercitata dalla scuola. In un libro di storia a grande diffusione destinato agli studenti delle scuole medie, ad esempio, si può trovare un passo come il seguente, volto a elogiare la politica economica di Francesco Crispi: “Sul piano economico la Sinistra (storica), come aveva promesso ai suoi elettori, adottò il protezionismo, grazie al quale riuscì a creare le premesse del decollo dell’industria”.

In linea di massima, nei libri messi in mano ai ragazzi le soluzioni statalistiche e tecnocratiche sono presentate come superiori a quelle liberali e basate sull’azione di imprenditori e consumatori. Ancor più è frequente la tendenza a sposare una sorta di pragmatismo in ragione del quale bisognerebbe talvolta essere liberali e in altri casi, invece, socialisti. E così è abbastanza comune l’idea che si dovrebbe essere statalisti quando l’economia è fragile, per poi invece sposare la dinamica del capitalismo competitivo quando il sistema produttivo funziona a pieno ritmo.

È questa una visione “pragmatica”, che si vuole laica e aperta, lontana da ogni ideologia, ma che nei fatti è solo teoricamente fragile e logicamente indifendibile. In primo luogo, va detto che ogni teoria economica cerca di rispondere alla medesima richiesta: a come sia possibile, insomma, favorire la crescita economica. E quindi non si capisce come una teoria economica possa essere valida nei giorni pari e non esserlo più in quelli dispari. È ad esempio credibile che il protezionismo possa aiutare un’economia a svilupparsi, ma poi debba essere abbandonato? E precisamente quando bisognerebbe lasciarlo per aprire il mercato?

Lo schema di questi confusionari sostenitori di una cosa come dell’opposto sembrano lasciarci intendere che i Paesi poveri dovrebbero essere statalisti, ma per poi diventare liberisti una volta ricchi. C’è però da chiedersi per quale motivo bisognerebbe abbandonare le logiche della burocrazia pubblica e del rigetto della concorrenza dopo che ci hanno aiutato a liberarsi dalla miseria… Sarebbe un non senso.

Resta solo un problema: che sia sul piano teorico sia sul piano storico regge davvero poco la tesi secondo cui l’intervento statale favorisca la crescita. È semmai vero l’opposto. Questo pragmatismo diffuso è non solo il segnale di una carenza di logica e di una cattiva conoscenza delle nozioni di base dell’economia: quelle che un non economista, per intendersi, potrebbe acquisire facilmente leggendo Frédéric Bastiat o anche L’economia in una lezione di Henry Hazlitt (ora disponibile in italiano grazie a IBL Libri). Più di tutto, però, questo pragmatismo segnala un declino morale, un degrado dei principi fondamentali, l’abbandono di regole un tempo considerate fondamentali e inviolabili.

L’atteggiamento di chi ritiene che talora, per esempio quando un’industria è nascente, sia legittimo e anzi doveroso porre barriere dinanzi all’iniziativa economica (scambi, integrazioni, fusioni e via dicendo) è caratteristico di chi ha smesso di rispettare l’altro e i suoi beni. Lo statalismo di questi pragmatici implica la negazione delle libertà altrui. Lo statalismo a giorni alterni degli orecchianti di economia, inclini a introdurre divieti e obblighi a loro piacere, sottende la dissoluzione del diritto e, prima di tutto ciò, un quasi totale disinteresse per l’altro e la sua dignità.

Per questo è sicuramente importante che i buoni argomenti della logica economica siano conosciuti e che le falsità su protezionismo, rivoluzione industriale, crisi del ’29, piano Marshall e via dicendo siano spazzate via da una conoscenza più attenta e meditata degli avvenimenti passati. La cultura è importante, ma in qualche modo non basta, perché la malattia è più profonda. Se oggi l’Occidente è tanto a disagio questo è in primo luogo conseguente a uno smarrimento etico sulle cui motivazioni è necessario riflettere. Forse nei Paesi di tradizione europea siamo tanto portati a essere ignoranti e superficiali dal nostro avere smarrito il senso autentico della realtà e dei rapporti umani. E se le cose stanno così è difficile essere ottimisti.

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

Roma è una metafora dell’Europa, corrotta dallo statalismo

di Carlo Lottieri

Si può leggere la tragicommedia che ha avuto per protagonista il sindaco Ignazio Marino in vari modi. È possibile focalizzare l’attenzione sui peculiari limiti del personaggio, sul carattere davvero unico di una città tanto scettica quanto cinica e a più riprese indagata dal cinema (da Federico Fellini a Paolo Sorrentino), su questa Italia renziana che non riesce a passare dalle promesse ai fatti. Ma si può anche leggere questa vicenda avendo consapevolezza che Roma è in un certo senso l’avanguardia di un degrado che riguarda – sotto vari aspetti – l’intero continente.

Non c’è dubbio che l’Europa abbia avuto un grandissimo passato e che ancora oggi, tutto sommato, continui a essere un’area che permette un tenore di livello piuttosto alto ai propri abitanti e seguiti a esprimere – in qualche campo – eccellenze significative. Se una gran massa di persone lascia l’Asia o l’Africa per venire da noi un motivo c’è.

Bisogna però essere consapevoli che le civiltà passano: anche molto velocemente. Se andate a visitare l’Atene dei nostri tempi certamente non trovate molto della grandezza della città di Socrate e Aristofane, ma anche per Roma si può dire lo stesso: quello che fu il centro del mondo ora è soltanto la capitale di un Paese largamente screditato, oppresso da un debito pubblico colossale e caratterizzato da una cronica incapacità ad affrontare i suoi problemi, e cioè una burocrazia oppressiva, uno statalismo pervasivo, un Mezzogiorno bloccato proprio perché troppo assistito.

Roma è comunque Europa in un senso molto profondo. In Germania, Svezia o Danimarca possono anche sorridere di fronte a molti tratti della contemporaneità italiana, ma dovrebbero essere consapevoli come tutto il continente stia declinando a grande velocità. E se l’Italia non cresce, non si creda che il resto dell’Europa galoppi. Non è così, dal momento che da noi sono solo un po’ più accentuate una serie di difficoltà che ritroviamo anche altrove. E se si dice questo non è per minimizzare la malattia italiana (che è gravissima), ma solo per ricordare come anche il resto d’Europa abbia davvero tanti problemi.

Le società funzionano, o non funzionano, a causa delle loro istituzioni fondamentali, che sono – in primo luogo – di carattere informale. I costumi, le regole non scritte e le attitudini prevalenti sono cruciali nel favorire oppure ostacolare lo sviluppo della società. E quello che in Europa vediamo è il declino della volontà di fare figli, creare imprese, progettare il nuovo, immaginare mondi inediti e provare a farli venire alla luce.

L’Europa nel suo insieme appare stanca, disincantata, scettica: anche perché nel Vecchio Continente è difficile lasciarsi alle spalle una crisi le cui radici sono profonde. Il dissesto economico, in effetti, è stato causato da un coacervo di scelte stataliste compiute da chi gestisce la moneta, controlla le banche, distribuisce risorse che non ha, è incapace di limitare la spesa pubblica, e via dicendo. Di fronte a questo dissesto, per giunta, le risposte che i governi stanno dando sono tutte, o quasi, nel segno di un interventismo crescente.

L’incapacità degli europei di contrastare il crescente potere delle classi politiche è quindi figlia di una debolezza culturale che è davanti agli occhi di tutti. Nella mentalità contemporanea la pretesa del ceto politico, tanto nazionale come euro-comunitario, di disporre dei diritti e delle risorse degli europei trova sostenitori ovunque. Chi oggi prova ad opporsi al dispotismo della politica, rivendicando il diritto naturale dei singoli e delle comunità volontarie (a partire dalle famiglie) a vivere pacificamente e in piena autonomia, è guardato come un lunatico. Si è giunti al punto da definire “ladri” quanti tengono per sé i loro soldi, resistendo di fronte alle pretese di un fisco sempre più vorace, e non già gli esponenti di una classe politico-burocratica che si considera autorizzata a entrare costantemente in casa di altri per sottrarre il frutto del loro lavoro.

In questa Europa è ormai quasi inimmaginabile che si possa assistere a una “rivolta fiscale” che contrasti l’assolutismo del Principe in nome della libertà dei singoli. Senza valori e senza midollo, gli europei sembrano ormai costantemente impegnati nel cercare di partecipare al banchetto di chi si spartisce il bottino ottenuto grazie alla tassazione. Per la maggior parte di quanti vivono nei paesi europei, le tasse rappresentano una fonte di reddito parassitario (basti pensare agli agricoltori e alla Pac, ma l’elenco sarebbe lungo) e chi oggi non dispone di ciò spera soltanto di poter averlo al più presto.

L’imposizione fiscale abnorme ha fatto sì che la maggior parte degli europei cerchino di realizzare quello che Giuseppe Prezzolini ebbe un giorno a definire il sogno della maggior parte degli italiani, che in fondo vogliono solo “lavorare poco e guadagnare tanto”, ma che sono anche pronti ad accontentarsi di “lavorare poco e guadagnare poco”. Continuando su questa strada (e sono già quasi totalmente pubblici l’istruzione, la sanità, l’università, i trasporti e molti altri settori), saranno presto accontentati.

Roma insomma è solo l’apripista, ma il disastro è ben più ampio e generalizzato. E in questo quadro non è sensato pensare di trovare “capitali morali”, fingendo che l’infezione sia localizzata. Purtroppo non è così.

Scuola, Stato e pluralismo educativo

Scuola, Stato e pluralismo educativo

di Carlo Lottieri

Ha in sé qualcosa di grottesco la volontà del ministro francese Najat Vallaud-Belkacem di escludere da tutte le scuole della Repubblica (in quanto ritenuta “sessista”) la favola di Cappuccetto Rosso. Sempre più spesso stupidità e politicamente corretto procedono assieme, restringendo gli spazi di libertà dei singoli. Sullo sfondo di tale vicenda, però, c’è una questione più generale che riguarda il nostro paese non meno che la Francia: e si tratta dei programmi ministeriali.

In Italia come in Francia, come in molti altri Paesi occidentali e non solo, le scuole sono istituzioni che godono di una libertà molto limitata. Un po’ ovunque, insomma, la classe politica di governo pretende di definire e orientare cosa deve essere insegnato nelle aule e in che modo. D’altra parte, fin dal diciannovesimo secolo l’istruzione di Stato è un pilastro fondamentale di un progetto ben preciso che punta a controllare l’intera società, tenendo sotto controllo gli spazi in cui i giovani definiscono i loro principi, valori e ideali.

In tal modo le aula scolastiche di Stato sono destinare a essere di volta in vola fasciste, laiciste, clericali, comuniste, tecnocratiche e via dicendo. Le classi politiche proiettano le proprie logiche sull’intera società e usano il sistema d’istruzione per manipolare le giovani menti. La relazione tra il giovane e la famiglia viene progressivamente svuotata, per favorire una maggiore uniformità culturale e “costruire” buoni cittadini, contribuenti ed elettori.

L’argomento usato dai difensori dell’educazioni di Stato è ben noto. Alle istituzioni pubbliche spetterebbe il compito di “liberare” la società dai pregiudizi. Un’élite di persone illuminate avrebbe insomma il compito di far crescere una società più moderna, aperta e tollerante, anche se poi resta sempre da definire quale si il vero contenuto di tali modernità, apertura e tolleranza. Senza dubbio l’idea di un’istruzione pubblica e comune a tutti muove comunque dalla tesi che vi è chi possiede un punto di vista e, per questa ragione, ha il diritto e il dovere di controllare il sistema d’istruzione.

L’alternativa esiste e si chiama pluralismo educativo. Opponendosi alla visione tecnocratica e statalista, questa tesi valorizza la diversità dei punti di vista e la necessità di meccanismi concorrenziali, così che all’interno della medesima società si possa scegliere tra proposte educative diverse. In tal modo ogni scuola dovrebbe essere spinta a sviluppare una propria modalità d’insegnamento e a individuare i contenuti più adatti a una vera crescita umana e professionale.

In questa visione le famiglie sono centrali. In una società liberale, d’altra parte, l’argomento statalista secondo il quale taluni genitori possono usare la propria funzione per inculcare idee violente, fondamentaliste ed estreme non può essere utilizzato per spogliare padre e madre del diritto a educare i figli secondo i propri valori. In linea di massima, nessuno ama i propri figli come la madre e il padre, e per questo motivo è bene che l’educazione sia primariamente nelle loro mani.

Ovviamente un padre che manipola il figlio fino al punto da spingerlo a trasformarsi di una “bomba umana” perde il diritto a prendersene cura, ma questa situazione-limita non può essere chiamata in causa per dissolvere la centralità della famiglia e per negare un fatto cruciale: e cioè che le scuole devono sempre rispondere di fronte ai genitori dei ragazzi di ciò che insegnano e del modo in cui lo fanno. Solo se gli istituti scolastici fanno di tutto per andare incontro alle esigenze delle famiglie possono sperare di avere un buon sistema educativo.

Abbiamo insomma bisogno non già di miniatri che ci dicano cosa i bambini devono leggere, quali materie devono studiare, in quali valori devono credere, ma invece di un mercato di soluzioni educative dierse fra loro, con o senza Cappuccetto Rosso. E abbiamo necessità di dirigenti scolastici che siano animati da uno spirito imprenditoriale e comprendano la necessità di mettersi al servizio dei giovani e delle loro famiglie, sforzandosi d’individuare le soluzioni migliori. La scuola, come ogni altro ambito, può funzionare se non è fuori mercato. È bene che lo si comprenda alla svelta.

Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

Affitti immobiliari? Nessuna liberalizzazione

di Carlo Lottieri

Uno dei settori più bisognosi di riforme è quello delle locazioni a uso commerciale, ancora vincolato da una legge di 40 anni fa (il ben noto e famigerato “equo canone”) che per tanti aspetti è riuscita a non subire modifiche su questo punto nonostante le lenzuolate delle vere o presunte liberalizzazioni. Si tratta di una normativa che ingessa il settore e che, a dispetto delle intenzioni, finisce per danneggiare un gran numero di soggetti intenzionati ad aprire un negozio. Basti pensare che i contratti commerciali devono essere almeno di 12 o addirittura 18 anni. Il legislatore voleva tutelare l’impresa a danno della proprietà dell’immobile, ma a ben guardare ha fatto danni in entrambe le direzioni. Non potendo cedere in locazione un locale per periodi più brevi, molti proprietari tengono in effetti il proprio bene fuori dal mercato e producono così quella rarefazione che fatalmente fa alzare i prezzi. Ogni volta che si va contro il mercato, d’altra parte, ci si deve aspettare che quest’ultimo in qualche modo “reagisca”.
Per di più il proprietario non può nemmeno chiedere che i canoni aumentino, eccezion fatta per un parziale adeguamento all’inflazione. E anche questo viola quella libertà contrattuale senza la quale non abbiamo una società libera. Il ceto politico italiano non vuole proprio comprendere che ogni manipolazione dei prezzi di mercato produce un degrado della vita economica. Sembra che la società nel suo insieme, a dire la verità, non avverta l’urgenza di sottrarre il processo normativo al controllo che su di essa esercitano le corporazioni più organizzate e influenti. E in questo caso appare chiaro come una miope lettura degli interessi dei commercianti (di alcuni di loro, a dire il vero) impedisca d’immettere un po’ di libertà in questo settore.
Va anche ricordato come l’intero ambito della proprietà immobiliare, e quindi anche le unità dedicate alle attività commerciali, negli ultimi anni abbia subito un salasso fiscale senza precedenti. A questo punto siamo di fronte a una sorta di “sovietizzazione” che sta progressivamente sottraendo ai legittimi proprietari ogni forma di controllo sui loro beni: per il possesso dei quali devono destinare allo Stato somme crescenti, devono accettare tempi contrattuali e canoni imposti per legge, devono subire vincoli che rendono assai difficile e costoso modificare la destinazione ad altro impiego. Lo Stato è ormai il super-proprietario di ogni così e questo si vede dinanzi a ogni proprietà: mobiliare o di altro tipo. Ma nel caso degli immobili a uso commerciale siamo forse arrivati a una situazione estrema, che davvero non ha paragoni. Di recente ci si è orientati a permettere l’uscita da questa trappola normativa, che inibisce ogni negoziazione tra proprietario e locatario, almeno per le realtà di grandi dimensioni e cioè quando i canoni annui superano i 250 mila euro all’anno. È un passo positivo, ma riguarda solo un numero limitato di casi e non ha alcuna rilevante conseguenza sul mercato immobiliare nel suo insieme.
In Parlamento c’è stato chi, intervenendo sul decreto Sblocca Italia, ha pure provato a favorire una qualche liberalizzazione del settore, ma si è trovato di fronte a un muro. Una volta di più l’alleanza tra l’insipienza del ceto politico e il cinismo demagogico di qualche responsabile di categoria ha finito per avere la meglio.
Su questo, per ora, l’Italia sembra proprio non sbloccarsi: e questa non è per nulla una buona notizia.
Sono diritti o privilegi?

Sono diritti o privilegi?

di Carlo Lottieri

Quando si tenta di riformare in senso liberale le istituzioni, in Italia come altrove, spesso ci si scontra con l’idea che una serie di cambiamenti verrebbero a ledere diritti acquisiti. Quei cambiamenti sarebbero, per tale motivo, illegittimi e andrebbero rigettati.
In tutto questo c’è qualcosa di illogico e anche linguisticamente discutibile. I diritti individuali non sono “acquisibili”, perché sono in realtà originari o, come si dice con una terminologia classica, “naturali”. Ogni uomo ha un diritto naturale su di sé e per questo motivo la schiavitù è ingiusta. Per lo stesso motivo ognuno ha diritto a essere proprietario. Di cosa? Ecco: qui entra in campo la titolarità, perché ognuno ha diritto a essere proprietario di quei titoli che ha acquisito in maniera legittima grazie a doni, scambi, retribuzioni, ecc.
I diritti sono insomma connaturati all’uomo, mentre i titoli si acquisiscono. E come si acquisiscono, ovviamente, si possono perdere. Io sono proprietario di una casa (ho un titolo legittimo su di essa) e ovviamente perdo tale titolo nel momento in cui la dono o la vendo. A rigore, allora, non vi sono diritti acquisiti, ma solo titoli. Ed esattamente di titoli che si parla quando – nel linguaggio corrente – si vuole impedire questa o quella riforma.
Un caso classico è quello dei prepensionati o dei vitalizi d’oro assicurati agli uomini politici. In un caso come nell’altro non è di diritti in senso proprio che si parla (non stiamo parlando di prerogative che spettino a ogni uomo in quanto uomo), ma appunto di titoli: e per giunta di titoli ottenuti non in virtù di scambi o contratti tra privati, ma grazie a decisioni politiche del tutto arbitrarie.
In altre parole, se compro un’abitazione ho un titolo di proprietà forte su di essa, quale risultato di un negozio tra privati. Se invece ricevo una pensione di 4 mila euro al mese perché per cinque anni sono stato consigliere regionale, in questo caso è diverso: un atto di volontà politica mi ha attribuito un privilegio o una facoltà. In altre parole, ho la possibilità di esigere ogni mese che ognuno dei miei concittadini destini a me – ad esempio – un centesimo di quanto produce in modo tale che io possa godere di questo vitalizio.
Ho un diritto a tutto ciò? No. Non c’è alcun diritto in gioco.
Ho un titolo che è stato “costruito” politicamente a mio favore. E che ovviamente può essere cancellato da un altro atto politico di segno opposto: dalla decisione, ad esempio, di abolire questi privilegi che i politici si sono auto attribuiti (nel caso dei vitalizi post-elezione) o che hanno attribuito ad altri (nel caso delle pensioni-baby).
Detto questo è egualmente chiaro che non si può mettere esattamente sullo stesso piano molte modeste baby-pensioni e i super-assegni che i politici hanno deciso mensilmente di regalarsi. Per giunta molti tra di coloro che sono andati in pensione prima dei quarant’anni oggi non sono più in condizione di lavorare. Per tale motivo, negare loro la pensione che ricevono significa togliere a queste persone ogni mezzo di assistenza, dopo aver assicurato loro – con un privilegio definito per via legislativa – che avrebbero ricevuto quella pensione vita natural durante.
Sul piano politico la situazione è caotica, socialmente delicata, e non è facile trovare una via d’uscita. Ma stiamo parlando di titoli ottenuti politicamente, insomma: di privilegi, e non già di diritti acquisiti. Sapere che le cose stanno in questi può quanto meno aiutare a mettere la discussione sui giusti binari.
Se togliere Imu servisse a liberare l’economia…

Se togliere Imu servisse a liberare l’economia…

di Carlo Lottieri

Per comprensibili ragioni elettorali (basti considerare che l’Italia è un paese di proprietari di casa), il governo Renzi sta studiando la possibilità di eliminare l’Imu sulla prima abitazione, immaginando di finanziare tutto questo con cessioni di imprese statali, tagli alla spesa (i tanto evocati “enti inutili”) e anche – se Bruxelles lo permetterà – un qualche sforamento del tetto del deficit. Il premier tende a presentare le privatizzazioni come una sorta di “sacrificio”, che però la popolazione italiana dovrebbe avere la saggezza di accettare in quanto può aiutare la riduzione delle imposte che molti auspicano. Questa logica però è sorprendente, dal momento che non abbiano un male di minori dimensioni (le privatizzazioni) accompagnato da un bene più grande (meno tasse), ma al contrario due benefici. È anzi necessario rilevare che se la riduzione della tassa sulla casa servirà come pretesto e occasione per privatizzare qualcosa non si potrà che essere molto soddisfatti.
Chi avrebbe da perderci da un’eventuale cessione di Trenitalia ai privati? Non certo quanti viaggiano, che a quel punto si troveranno presumibilmente anche in un contesto più aperto (oggi il mercato è bloccato dal fatto il maggiore soggetto è di proprietà statale). Non i contribuenti, che nei decenni scorsi hanno destinato somme rilevanti a questo colosso. Ovviamente non i competitori attuali e certo neppure quelli che potranno sorgere in seguito. Forse qualche costo dovranno sopportare i dipendenti, nel caso in cui gli organici oggi siano gonfiati e la nuova dirigenza voglia riorganizzare e migliorare la gestione, ma questo è un prezzo necessario se si vuole avere un sistema dei trasporti efficace.
A perderci, senza dubbio, saranno quanti vivono di politica, quanti affollano i consigli di amministrazione di nomina pubblica, quanti appartengono a gruppi imprenditoriali che vivono non di mercato ma di commesse statali truccate, insieme ai vari professionisti “di area” che fanno soldi perché destinatari di incarichi e altro. Ma non avremo a che fare con un problema, bensì con la sua soluzione.
Soprattutto è importante che cresca lo spazio del privato e si ridimensioni quello del pubblico. Un’economia come la nostra è ancora troppo sbilanciata sullo Stato e per questo è tanto rigida, poco innovativa, fondamentalmente conservatrice. Se a Roma si dovrà privatizzare al fine di poter avere meno imposte, ben venga questo più ridotto prelievo sugli immobili che oltre ad aiutare l’economia nel suo insieme è in grado di aprire la strada alla crescita di un’economia esterna ai giochi della politica. Perché il punto è qui: bisogna privatizzare per depoliticizzare una vita produttiva troppo deformata da logiche, quelle dei partiti, che producono prevalentemente sprechi e corruzione, inefficienze e nepotismo.
Al fondo dell’offerta di Renzi agli italiani (che può essere così formulata: “vi prego, accettate qualche privatizzazione in cambio di meno imposte”) prevale la tesi, davvero difficile da difendere, che il settore pubblico sia in qualche misura migliore di quello privato, più sociale, vicino alle esigenze della gente. Si finge di non vedere quanti privatissimi interessi abbiano i nominati dei Cda e i grand commis dell’alta burocrazia dei dinosauri pubblici.
Questa retorica è il segno di un grave ritardo culturale: è espressione di una mentalità statalista che rovescia il senso comune e che è però in grado, troppo spesso, d’imporre le proprie logiche. Eliminare l’Imu e privatizzare le imprese statali sono due mosse nella giusta direzione. C’è da augurarsi che Renzi trovi quel coraggio che finora non ha saputo quasi mai mostrare.