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Niente ripartenza se le aziende restano a secco

Niente ripartenza se le aziende restano a secco

*di Massimo Blasoni

Si profila purtroppo un 2019 complicato per le imprese italiane e le previsioni di bassa crescita, se non di recessione, del nostro Pil rischiano di avverarsi. Tra i tanti, resta rilevante il problema del credito bancario, lo avvalorano gli ultimi dati disponibili di Banca d’Italia relativi al 2018. Se comparati con quelli del 2011 rivelano che lo stock complessivo dei prestiti alle imprese è sceso da 909 miliardi di euro a 695. Una riduzione di oltre 200 miliardi che solo in parte trova spiegazione nel ridotto merito creditizio o nella minore disponibilità a nuovi investimenti delle nostre aziende. In realtà le banche sono meno inclini a rischiare, con l’effetto che la minore disponibilità di linee di credito concorre a frenare lo sviluppo e l’occupazione. La conclusione del Quantitative Easing,con cui la Banca centrale europea acquistava per decine di miliardi i bond emessi dai singoli Paesi europei, rischia di aggravare il problema. Dobbiamo ricordare che i titoli di Stato italiani erano i terzi per volume di acquisti da parte della Bce: 3,6 miliardi al mese, pari al 16,2% del complessivo. La fine di questo flusso prevedibilmente aumenterà i tassi di interesse e renderà ancora più debole il sistema economico italiano. Le responsabilità degli istituti di credito rappresentano solo uno degli ostacoli per la competitività delle nostre imprese; ovviamente ci sono anche l’eccesso di burocrazia, gli scarsi investimenti pubblici in infrastrutture, la mancata digitalizzazione e molto altro. Bisogna peraltro riconoscere che sono in ripresa i prestiti alle famiglie e che le banche debbono far fronte all’enorme perdita di valore delle loro azioni in borsa. Dall’inizio della crisi ad oggi le banche quotate hanno bruciato 215 miliardi. Tuttavia è chiaro che la restrizione del credito rende più complesso il lavoro delle imprese italiane, basti dire che in Germania e Francia dal 2011 ad oggi i prestiti alle aziende sono aumentati: per i cugini d’oltralpe di oltre 90 miliardi. Senza lo sviluppo delle nostre imprese non ci sono né crescita né nuova occupazione. Un fatto evidentemente non del tutto compreso anche dal governo a guardare l’ultima manovra che riduce gli stanziamenti per il sistema produttivo.

*Imprenditore e presidente del Centro studi ImpresaLavoro

Titoli di Stato, quelli italiani sono i terzi più acquistati dalla BCE: 3,6 miliardi al mese, pari al 16,2%

Titoli di Stato, quelli italiani sono i terzi più acquistati dalla BCE: 3,6 miliardi al mese, pari al 16,2%

Nei primi cinque mesi di quest’anno la Banca Centrale Europea ha acquistato in media titoli di Stato italiani per 3,612 miliardi di euro mensili, una cifra pari al 16,2% degli acquisti totali e che colloca il nostro Paese al terzo posto in questa particolare classifica. Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione di dati della Banca Centrale Europea.

Nello stesso periodo di tempo la BCE ha effettuato in media ogni mese acquisti superiori soltanto in titoli di Stato tedeschi (5,255 miliardi di euro mensili, pari al 23,6% del totale) e francesi (4,184 miliardi di euro mensili, pari al 18,8% del totale). A seguire quelli spagnoli (2,834 miliardi di euro mensili, pari al 12,7%) mentre in tutti gli altri Paesi europei si sono registrati acquisti pari o inferiori al 5% del totale.

Limitatamente allo scorso mese di maggio, la BCE ha acquistato titoli di Stato italiani per un valore pari a 3,609 miliardi di euro: 362 milioni di euro in meno rispetto ad aprile ma quasi 190 milioni in più rispetto al dato di gennaio e marzo. Sempre a maggio la BCE ha invece ridotto l’acquisto di titoli di Stato in Austria (-55 milioni di euro), Belgio (-78 milioni), Olanda (-116 milioni), Spagna (-274 milioni) e Francia (-404 milioni). Si è invece registrato un contemporaneo aumento di acquisto di titoli di Stato tedeschi (+2,175 miliardi), dovuto alla scadenza di un significativo ammontare di bond i cui proventi dovevano necessariamente essere reinvestiti in titoli del Paese stesso.

Come noto, i titoli che la BCE possiede di un determinato Paese devono essere proporzionati alla percentuale di capitale azionario della BCE che questo detiene e che a sua volta è legato alle dimensioni di ogni singola economia (PIL e popolazione). Per quanto riguarda gli acquisti complessivi di titoli, non si registrano pertanto nel tempo variazioni significative rispetto a valori di riferimento predefiniti.

L’unico elemento che ha pesato e continuerà a pesare in modo sempre più significativo sul contenimento generalizzato degli acquisti di Btp rispetto al passato è quindi la riduzione graduale del QE per motivi di politica monetaria. Il programma di acquisti straordinari era infatti iniziato a marzo 2015 con un target di 60 miliardi al mese per poi salire a 80 miliardi mensili da aprile 2016 a marzo 2017. Si è tornati a 60 miliardi alla fine del 2017. Da gennaio di quest’anno però i miliardi mensili si sono ridotti a 30 e questo ammontare di acquisti rimarrà inalterato solo fino a settembre 2018 per poi ridursi a 15 miliardi e addirittura azzerarsi con la fine dell’anno. Queste variazioni trovano conferma nei dati medi annuali della BCE che indicano infatti per l’Italia acquisti medi mensili pari a 3,612 miliardi mensili nel 2018. Erano 9,760 nel 2017 e 10,867 nel 2016. Gli acquisti attuali rispetto alla media del 2016 si sono quindi ridotti a un terzo.

«Questi dati sfatano alcune false notizie su presunti cambiamenti nel programma di acquisti di titoli italiani da parte della BCE a seguito dell’insediamento del nuovo governo» osserva Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro. «Entro qualche mese la Banca Centrale Europea non acquisterà più ulteriori titoli di Stato italiani, con la conseguenza di un probabile aumento dello spread. Le nuove aste di titoli offriranno rendimenti superiori che si tradurranno in maggiori interessi da pagare e conseguentemente in maggior spesa pubblica».

Le nostre banche hanno triplicato l’esposizione sui Btp

Le nostre banche hanno triplicato l’esposizione sui Btp

Dal 2007 al 2017 le banche italiane hanno visto crescere i propri depositi di 1.023,4 miliardi (+67%), ma solo 266,7 miliardi (+19%) sono serviti a finanziare famiglie e imprese, mentre 532,8 miliardi (+202%) sono stati usati per triplicare l’esposizione in titoli di Stato. A rivelarlo è una ricerca del centro studi Impresalavoro, realizzata elaborando i dati ottenuti del Sistema europeo delle Banche centrali.
L’Italia si colloca ai primi posti della classifica dei Paesi che negli ultimi dieci anni hanno visto incrementare maggiormente lo stock dei depositi dei propri istituti bancari: da 1.531,4 a 2.554,9 miliardi. Il discorso cambia per quanto riguarda invece l’impiego di tali risorse per prestiti a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si ferma nella seconda metà della classifica, con una crescita del 19%. Nello stesso periodo i prestiti bancari sono invece saliti del 28% in Belgio (+78 miliardi), del 44% in Francia (+727,1 miliardi) e del 65% in Finlandia (+82,7 miliardi).
Nel nostro Paese il Qantitave easing voluto dalla Banca centrale europea ha paradossalmente ristretto l’accesso al credito. Nei primi due anni (dal 2015 al 2017) i prestiti bancari sono diminuiti del 3% a fronte di una crescita in gran parte del resto d’Europa: +6% in Germania (pari a 154,8 miliardi), +8% in Francia (pari a 183 miliardi) e +13% in Belgio (pari a 41,2 miliardi).
Ad aumentare negli attivi dei bilanci bancari italiani è stato semmai l’impiego in titoli di Stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 532,8 miliardi (+202%). Si tratta di una crescita record, senza uguali nell’Eurozona, a cui si avvicinano solamente quelle dei sistemi portoghese (51,4 miliardi, +176%) e spagnolo (266,9 miliardi, +130%).
«Questi dati confermano la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari rispetto agli impieghi a favore di quanti si impegnano ogni giorno a tenere in piedi i bilanci delle proprie aziende e famiglie», ha detto Massimo Blasoni, presidente del centro studi Impresalavoro. «Nemmeno nei mesi del Quantitative easing – strumento che volge ormai al suo termine e che nelle intenzioni del presidente della Bce Mario Draghi doveva assicurare favorevoli condizioni di finanziamento per famiglie e imprese si è potuta apprezzare una, ripresa dei volumi di credito all’economia reale: da allora questi prestiti sono infatti paradossalmente diminuiti del 3% e al tempo stesso è aumentata invece l’esposizione delle banche italiane al debito pubblico. Un’altra preziosa occasione è andata sprecata».

Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Banche: in 10 anni triplicata l’esposizione in titoli di Stato. QE inefficace: prestiti a famiglie e imprese in calo del 3%

Nel corso della crisi dell’ultimo decennio le banche italiane hanno visto crescere i propri depositi del 67% per un controvalore di 1.023,4 miliardi di euro, ma di questi solo poco più di un quarto (266,7 miliardi, +19% nel periodo) è servita a finanziare famiglie e imprese mentre una quota ben maggiore è stata utilizzata per triplicare l’esposizione in titoli di Stato (cresciuta di 532,8 miliardi, +202%). Lo rivela una ricerca del Centro studi ImpresaLavoro realizzata su elaborazione dei dati del Sistema europeo delle Banche centrali.

L’Italia si colloca ai primi posti della classifica dei Paesi che nel periodo 2007-2017 hanno visto incrementare maggiormente lo stock dei depositi dei propri istituti bancari: da 1.531,4 a 2.554,9 miliardi di euro, in parte accumulati nei primi anni della crisi e in parte anche dopo l’inizio del Quantitative Easing. Nello stesso periodo i depositi degli istituti francesi sono invece cresciuti del 54% mentre quelli degli istituti tedeschi e spagnoli soltanto del 13%.

Il discorso cambia per quanto riguarda invece l’impiego di tali risorse per prestiti bancari a famiglie e imprese: in questo caso l’Italia si colloca nella seconda metà della classifica, con una crescita del 19%, pari a +266,7 miliardi. Nello stesso periodo i prestiti bancari sono invece saliti del 28% in Belgio (+78 miliardi), del 44% in Francia (+727,1 miliardi) e addirittura del 65% in Finlandia (+82,7 miliardi).

Lo strumento del Quantitative Easing adottato dalla BCE ha invece paradossalmente ristretto l’accesso al credito in Italia: nei suoi primi due anni di applicazione (marzo 2015 – marzo 2017) i prestiti bancari a famiglie e imprese sono infatti diminuiti del 3% (-49,3 miliardi) a fronte di una crescita in gran parte del resto d’Europa: +6% in Germania (pari a 154,8 miliardi), +8% in Francia (pari a 183 miliardi) e +13% in Belgio (pari a 41,2 miliardi).

Ad aumentare negli attivi dei bilanci bancari italiani è stato semmai l’impiego in titoli di Stato e obbligazionari, triplicati nell’ultimo decennio con un aumento di 532,8 miliardi (+202%). Si tratta di una crescita record, senza uguali nell’Eurosistema, a cui si avvicina solamente quelle dei sistemi portoghese (51,4 miliardi, +176%) e spagnolo (266,9 miliardi, +130%).

«Questi dati confermano la radicale trasformazione del modello di business delle nostre banche rispetto ai livelli pre-crisi, al quale è corrisposto un ricorso ben maggiore all’acquisto di titoli di Stato e obbligazionari rispetto agli impieghi a favore di quanti s’impegnano ogni giorno a tenere in piedi i bilanci delle proprie aziende e famiglie» commenta l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nemmeno nei mesi del Quantitative Easing – strumento che volge ormai al suo termine e che nelle intenzioni del Presidente BCE Mario Draghi doveva assicurare favorevoli condizioni di finanziamento per famiglie e imprese – si è potuta apprezzare una ripresa dei volumi di credito all’economia reale: da allora questi prestiti sono infatti paradossalmente diminuiti del 3% e al tempo stesso è aumentata invece l’esposizione delle banche italiane al debito pubblico. Un’altra preziosa occasione è andata sprecata».

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

Il Quantitative Easing? In Italia funziona poco: colpa delle sofferenze bancarie

di Paolo Ermano*

Torniamo in apnea?

È presto per dire se le nuove misure messe in campo da Mario Draghi, che allargano gli spazi delle operazioni che vanno sotto il cappello di Quantitative Easing (QE), porteranno nuovo ossigeno nell’economia europea e in particolare nell’economia italiana. È certo che la situazione degli operatori finanziari nel Bel Paese è di difficile comprensione: da un lato abbiamo alcuni scandali che interessano banche più o meno grandi e più o meno legate al territorio (ad esempio, dalla Popolare di Vicenza alle quattro banche fallite del centro Italia), dall’altro processi di aggregazioni di alcuni istituti stanno modificando non solo la sensibilità degli italiani rispetto all’organizzazione dei servizi bancari, ma influiranno in maniera decisiva sugli assetti societari e sulla capacità del sistema di affrontare le cogenti sfide.

Le sfide che il sistema bancario deve e dovrà affrontare sono molte, a partire dalla riattivazione della circolazione del denaro, che sembra vivere un periodo non certo florido. Se partiamo con l’osservare l’andamento dei prestiti verso le famiglie e le società non finanziarie, quello che potremmo definire con un espressione un po’ forzata “economia reale”, la situazione è problematica: da giugno 2014 registriamo aumenti nei prestiti alle famiglie e contrazioni nei prestiti alle imprese (grafico 1, 2 e tabella 1 e 2).

QE_G1

QE_G2

QE_T1

QE_T2

Mentre i prestiti alle famiglie, stabili fino ai primi mesi del 2015, hanno visto una crescita più sostenuta soprattutto durante l’autunno, in corrispondenza dell’aumento dell’indice di fiducia dei consumatori, i prestiti verso il mondo delle imprese continuano a vivere una contrazione che si sviluppa ad ondate, che riflette la complessità dell’indice di fiducia delle imprese, positivo per servizi, commercio e le costruzioni, stabile per la manifattura (Istat, Nota Mensile 3/2016).

In aggregato, l’ammontare dei prestiti elargiti a famiglie e imprese si è contratto dell’1% da giugno 2014, mentre le cartolarizzazione dei crediti sono cresciute nello stesso periodo di più del 5%.

Le sofferenze

Per spiegare come mai il canale del credito, che oggi ancor prima che nel processo di circolazione del denaro trova nella BCE una sponda forte, continui a rimanere sterile, si sono spesso chiamate in causa le sofferenze bancarie, quei crediti deteriorati al punto da diventare difficilmente esigibili dalla banche.

Un primo problema, che è da un po’ di tempo al centro dell’attenzione mediatica, riguarda l’andamento delle sofferenze. Il totale complessivo dei prestiti in sofferenza presso il sistema bancario italiano ha raggiunto quota 202 miliardi: di questi, €181,5 sono ascrivibili a famiglie e imprese. In particolare, le sofferenze appartengono principalmente al mondo delle imprese visto che da sole queste coprono circa il 71% del loro ammontare complessivo.

Come si può vedere nel grafico 3, sommando le sofferenze delle società non finanziarie (le imprese comunemente chiamate) con quelle delle famiglie, se ne ricava una crescita netta del 18% dal giugno 2014 al gennaio 2016.

QE_G3

Questa è una vera spina nel fianco per la stabilità del sistema bancario italiano che prima o poi dovrà smaltire questi titoli. Non sembra che le operazioni della BCE per ora abbiamo aiutato il sistema bancario a gestire questa massa di prestiti in sofferenza.

La circolazione del denaro

Che le sofferenze giochino un ruolo cruciale quando cerchiamo di comprendere le ragioni per cui il sistema dei prestiti si sia relativamente arrestato è un dato di fatto. Tuttavia le sofferenze sono il sintomo di un sistema del credito nazionale troppo banco-centrico, soprattutto per quanto riguarda le imprese. La ricchezza privata per finanziare le aziende in Italia non manca, è solo che questa fluisce verso le imprese grazie alla dinamica del deposito-prestito che passa quasi esclusivamente per il canale bancario.

Da questo punto di vista è interessante osservare l’andamento dei depositi di famiglie e società non finanziarie. In entrambi i casi, partendo dal giungo 2014, si osserva un aumento dello stock di deposito (+4,3% per le famiglie, +12,8% per le imprese), un aumento però non sufficiente a sostenere la richiesta di prestiti avanzata: il saldo fra depositi e prestiti è negativo (i depositi di questi due gruppi non coprono l’esposizione creditizia, ovvero gli impieghi superano le fonti). Da giugno 2014 il gap fra depositi e prestiti si è ridotto del 30% (-78% da settembre 2008!), un risultato davvero notevole: le banche raccolgono un ammontare sempre maggiore di depositi, centellinando la richiesta di nuovi prestiti. Limitano, quindi, la circolazione del denaro.

Un aumento dei depositi può essere giustificato dalla ripresa economica: modesto l’aumento dei depositi, modesta la ripresa; un aumento meno che proporzionale dei prestiti segnala sia una maggior richiesta di credito da parte delle imprese, sia un’incapacità del sistema bancario di fornire credito, per ragioni che possono variare dalla possibilità dei richiedenti di fornire adeguate garanzie, fino alla difficoltà dell’istituto di rispettare i parametri di solidità bancaria atti a veicolare con facilità la massa depositata verso la platea dei richiedenti. Se i dati sulle sofferenze portano a supporre che il problema sia oramai più nel sistema bancario che nei soggetti privati richiedenti credito, il gap fra deposito e credito porta a immaginare la necessità da parte del sistema di un riordino per evitare eccessive asimmetrie fra soggetti che prestano e soggetti che depositano.

Conclusioni

Dall’analisi dei dati di Banca d’Italia, emerge come le politiche di espansione del credito messe in atto dalla BCE attraverso il TLTRO e l’APP non abbiano ancora dato i risultati sperati. Dal 1 aprile sono diventate attive le nuove e più incisive misure di QE: valuteremo a breve i risultati, per quanto le borse hanno reagito tiepidamente finora.

Se da un lato è evidente come il costo del debito pubblico sia calato grazie all’operato della BCE, dall’altro non appare altrettanto evidente come l’aver ridotto la convenienza a investire nei titoli di Stato abbia spostato l’operatività delle banche verso il settore privato, famiglie e imprese innanzitutto.

Questo perché, come spiega un recente studio della BCE, la politica messa in piedi da Mario Draghi ha portato più risultati nel settore privato del nord Europa, dove il sistema finanziario era meno vulnerabile, rispetto al Sud dell’Europa (ECB: Economic bulletin, 7/2015, pp. 36). Ricordare ora l’opposizione dei paesi nordici alle operazioni di Mario Draghi dovrebbe far riflettere molto sulla distanza che passa fra gli annunci pubblici e la realtà delle cose. A noi interessano però le ragioni che lo studio della BCE avanza per giustificare questa diversità di risultati: proprio l’eccessiva presenza di crediti deteriorati nelle economie del Sud dell’Europa, Italia compresa, spiega la minor efficacia del QE in questi Paesi.

Occorre trovare un rimedio alla gestione delle sofferenze del sistema bancario nazionale, prima possibile, per almeno due ragioni. La prima, per poter maggiormente beneficiare della politica monetaria espansiva messa in piedi dalla BCE che durerà almeno fino a marzo 2017. La seconda ragione, collegata alla prima, ha a che fare con la timida ripresa in corso nel nostro Paese: rischiare di soffocarla per inefficienza del sistema bancario sarebbe davvero imperdonabile, soprattutto ora che le possibilità finanziarie offerte dall’euro-sistema sono così ampie e generose.

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

QE, passata la sbornia dell’annuncio restano i problemi

Davide Giacalone – Libero

Dopo un crescendo rossiniano di effetti positivi e preventivi, il Quantitative easing della Banca centrale europea ha debuttato vedendo scendere le Borse e salire gli spread. La spiegazione si trova passando dalla musica alla poesia, perché abbiamo assistito a un leopardiano “sabato dei mercati”: l’attesa della festa rallegrava i cuori, mentre al suo giungere la mente torna al “lavoro usato”, in questo caso al debito e alla crescita. È la Grecia a innescare il fenomeno, ma sarebbe successo comunque, perché quella (benedetta) operazione affronta il problema della crescita continentale, senza risolvere quello degli squilibri nazionali.

I mitici “mercati”, quell’insieme di operatori sempre pronti a evitare i rischi e cogliere le opportunità, curando il proprio conto economico e fregandosene del resto (come è naturale che sia), sanno bene che la Grecia rappresenta la mancata soluzione della eccessiva disomogeneità interna all’eurozona. Se cedi sovranità monetaria, ma fingi di conservare sovranità politica, prima o dopo le contraddizioni scoppiano. Il governo greco sbaglia, perché crede che sia importante rispettare le promesse (impossibili) fatte agli elettori, laddove, invece, conta il risultato finale, la sicurezza del Paese. Sbagliando incorre nella totale illogicità, pensando di sottoporre a referendum le misure necessarie a fronteggiare la crisi (escludendo un referendum sull’euro). Il giorno in cui si votasse quel referendum non si saprebbe più perché s’è eletto un Parlamento.

La piaga greca si chiuderà. Hanno urgente bisogno di soldi, quindi devono correre a stabilire se accettare le condizioni di chi li presta o suicidarsi nell’uscita dall’eurozona. In entrambi i casi (meglio il primo, per quanto amaro) la mattina dopo i mercati rivolgeranno l’attenzione ad altri  dati.

Ecco quello che ci riguarda: quanto cresce ciascun Paese, investito dall’ondata di liquidità? Se sale più della marea allora è in grado di stabilizzare gli effetti positivi ed erodere il debito. Se sale meno, o solo pari, non appena la marea scenderà sarà nuovamente arenato. La Bce non aiuta chi è in difficoltà, ma tutti gli stati membri. Non può fare diversamente. Aiuta noi e gli spagnoli quanto i tedeschi. Anzi, di più i tedeschi, perché detengono una quota maggiore di capitale Bce.

Ciascuna banca centrale nazionale è autorizzata ad acquistare titoli. In Italia arrivano 140 miliardi, ma solo l’8% è garantito dalla Bce. Il problema non è il rischio default, che non corriamo, ma quello dell’anemia, della reattività solo apparente. Se con quei soldi la Germania crescerà più degli altri, alla fine della cura la distanza sarà aumentata. Ecco perché è da incoscienti festeggiare il ritorno del segno positivo, davanti al prodotto interno lordo, facendo finta di non sapere che siamo a meno della metà dell’ eurozona. E quando i greci avranno finito d’essere la principale attrazione della festa, ci si occuperà di cosa la cura ha portato a ciascuno. Da qui a quel giorno tocca a noi fare quel che non stiamo facendo.

Molla il tesoretto

Molla il tesoretto

Davide Giacalone – Libero

Debito e tesoretto, disastro perfetto. La Banca centrale europea vara il Quantitative easing con stile e tempistica eccellenti. Sarà un successo, perché è già un successo. Ma mentre l’operazione s’appresta a partire, avendo già dispiegato parte dei suoi benefici effetti, il presidente del Consiglio parla di “tesoretto”, ovvero di una provvidenziale quantità d’imprevista ricchezza, sulla quale potere contare. Basta ciò per passare dal trionfo al tonfo.

Mario Draghi ha detto e ridetto che le politiche espansive della Bce, da sole, non bastano. Che servono riforme profonde, sia sui fronti nazionali che sul comune fronte europeo. Che la ripresa sarà illusoria, se quelle riforme non incideranno nel profondo degli equilibri istituzionali, monetari e produttivi. Più è grande il successo della Bce più si deve essere veloci e precisi nell’operare i cambiamenti che l’accompagnino, moltiplichino e stabilizzino. Se, invece, si pensa al tesoretto, se si crede che bastino quei 60 miliardi al mese per risparmiarci dolori e fatiche, allora vuol dire che non s’è capito nulla, ma proprio nulla di come stanno le cose.

A novembre le stime di crescita dell’eurozona, elaborate dalla Commissione europea, vedevano un +1% del pil nel 2015. A gennaio è diventato 1,3. All’inizio di marzo è stimato 1,5. Per l’Italia era +0,6 a novembre. È rimasto 0,6 a gennaio, Ora Matteo Renzi dice che il governo ha fatto i conti prevedendo 0,5. Talché il di più è tesoretto. Ma è una ragionamento sconclusionato: il dato rilevante è la distanza dalla crescita dell’eurozona. Il nostro svantaggio è tale da mettere nelle vele solo una parte del vento Bce, quindi ogni sforzo deve essere fatto per dispiegarle al meglio e per liberarsi il più possibile della zavorra del debito. Invece qui s’avverte la ciurma che, galleggiando la barca, ci si potrà dividere il frutto della bravura e delle politiche altrui.

Capisco tutto, nella polemica politica. Ma tanto è demenziale supporre che siano colpe del governo Renzi le lentezze inquietanti con cui l’Italia prende coscienza e reagisce alla condizione in cui si trova, quanto lo è abbandonarsi a questo giochino della crescita, dicendo: prima colavamo a picco, ora c’è il segno più, prima lo spread era alto, ora e basso. Lo dobbiamo alle scelte europee e a quegli italiani, imprenditori e lavoratori, che massacriamo di tasse e martirizziamo con la burocrazia. Le cose andranno meglio, grazie a loro, ma la circostanza fortunata deve essere sfruttata per riassorbire disoccupazione e rilanciare la produttività. Il che comporta non politiche di redistribuzione, magari con il tesoretto dirottato a pagare il costo di 120mila insegnanti da assumere, condannando la scuola a restare identica, quindi inadatta, ma comporta politiche di alleggerimento fiscale.

Non c’è nessun tesoretto, perché il migliorare dei conti pubblici, derivato da meno interessi sul debito e maggior gettito indotto dalla ripresa, è estraneo alle scelte politiche interne. Se lo scrivano sulla testa, le persone responsabili. Che siano al governo o all’opposizione, a destra o a sinistra, sopra o sotto. Perché se prevale l’eterno partito unico della spesa pubblica, a questo giro ci condanniamo a subire una botta micidiale, quando gli antidolorifici e gli stimolanti Bce saranno finiti. Se Draghi continua a dire che non bastano non è perché vuol fare il modesto, ma perché si rende conto di quanto modesta sia la caratura di certi interlocutori.

Assurdo combattere l’Europa, non ci sarà ripresa senza Bce

Assurdo combattere l’Europa, non ci sarà ripresa senza Bce

Davide Giacalone – Libero

Fra quanti sostengono il governo, specie all’interno del Partito democratico, ve ne sono non pochi che si rifiutano di riconoscere meriti all’azione dell’esecutivo, cominciando a non sopportarne più i (ai loro occhi) demeriti. Singolare, quindi, che fra chi si oppone al governo, specie leghisti e ortotteri, ci sia chi s’affanna nell’attribuirgli meriti che non ha. Perché la ripresa c’è, la dobbiamo alle politiche espansive della Banca centrale europea e ne approfitteremo, per nostre colpe, solo a metà. Accusare il governo d’essere «servo dell’Europa», o proporre come risolutiva l’uscita dall’euro, significa non accorgersi dell’evidenza: la ripresa viene da lì, mentre le arretratezze stanno qui.

Come è possibile un simile abbaglio? Una fregnaccia s’aggira per l’Europa: l’idea che le democrazie non contino più, che gli elettori siano superflui, che le regole dell’economia e dei bilanci abbiano usurpato le sovranità nazionali, a loro volta viste come fonte d’identità e ricchezza, in una cancellazione totale della memoria. La leggenda è bella e accattivante, perché consente ai ricchi di far la parte dei depredati e ai viziati di far quella degli oppressi. Tale confusione porta certi slogan ad essere, a seconda dei casi e delle nazionalità, sulla bocca dell’estrema destra o dell’estrema sinistra. Infatti la destra francese o italiana ha guardato con trasporto alla sinistra greca, incassando la delusione per i «cedimenti». Ma può un popolo votare contro i propri debiti? Quella non è democrazia, è surrealismo.

In passato i nazionalismi hanno fatto valere la forza del sangue e la voglia di espandersi territorialmente, provocando guerre e spargimenti di sangue. Quel che ieri erano confini territoriali oggi lo sono finanziari: non si cancellano senza dolore. Noi europei, tutti assieme, siamo il 7 per cento della popolazione mondiale (noi italiani siamo lo 0,8 per cento, i tedeschi l’1,1 per cento, microscopici), produciamo il 25 per cento della ricchezza globale, ne deteniamo il 30 per cento e consumiamo il 50 per cento della spesa sociale. A far la parte dei poveri non siamo credibili e per giunta viviamo al di sopra delle nostre possibilità. Semmai c’è un problema di giustizia sociale.

Avendo usato la prima metà del secolo scorso per massacrarci, abbiamo pensato bene d’istituzionalizzare la convivenza pacifica. Quando la guerra fredda s’è scongelata, aprendosi le frontiere e partendo la globalizzazione, ci siamo accorti che, pur forti e ricchi, non lo eravamo abbastanza per bilanciare la forza dei mercati e della finanza. Sapete qual è il bello? Che l’Unione europea era il rimedio, così come l’euro era l’antidoto alla supremazia interna tedesca. Se le cose sono andate diversamente non è colpa né del destino né dei tedeschi, ma di classi dirigenti che hanno perpetuato la loro inutile sopravvivenza mettendola in conto alla spesa pubblica improduttiva. Così siamo arrivati a un sistema che effettivamente non funziona, ma non per eccesso di tecnocrazia, bensì per deficit di democrazia. Giacché gli europei non eleggono quel che conta (un governo europeo), ma votano per quel che non sapendo cos’altro dire va cianciando delle colpe europee. Che sono nazionali.

Vale per tutto il continente. Francia e Italia sono i due giganti schiacciati dalle proprie bubbole. Che oggi concimano il terreno alle forze anti sistema, i quali scoprono la comoda via d’identificarlo con l’Europa. E chi se ne frega se le sole politiche espansive esistenti sono quelle della Banca centrale europea, si ripudi la bandiera blu per ripudiare gli obblighi derivanti dai debiti. Che la mattina dopo sarebbero insostenibili, difatti i greci, che sono demagoghi ma non fessi, se ne guardano bene. Occhio alla fregnaccia, perché ha la grande forza delle banalità che sembrano sgominare le complessità. Forza che, sommata ai difetti strutturali della costruzione europea, può produrre effetti molto dolorosi.

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Polemica Padoan-Bce, l’Italia non sa accettare la realtà

Davide Giacalone – Libero

Dalle zampogne alle rampogne. Dai dati Ocse ai rilievi della Bce. In ventiquattro ore la musica passa da «allegro immotivato» a «mesto con brivido». Questo, però, solo nella bocca dei propagandisti e nelle pagine degli approssimativi, perché qui avevamo osservato la realtà ed avevamo visto giusto. Ieri ancora suonavano le trombe per la correzione delle previsioni Ocse. Che lette attentamente, senza lasciarsi distrarre dal chiasso strumentale, erano preoccupanti.

Nell’autunno scorso l’Ocse prevedeva una crescita italiana, per il 2015, di appena lo 0,2%. Ora corregge quella previsione al rialzo, portandola allo 0,6. Una buona cosa? Certamente, ma solo se si commette l’imperdonabile errore di misurarsi con sé stessi, in una sorta di autoerotismo statistico.

Gli stessi dati Ocse ci dicono che la crescita dell’eurozona è prevista all’1,4%. Quindi la nostra è meno della metà. Può festeggiare solo chi pensa diingannare gli altri e nel frattempo si prende in giro da solo. Lo 0,6 era la previsione fatta dalla Commissione europea a novembre, sempre per l’Italia, quando la stessa fonte immaginava una crescita dell’eurozona pari all’1%. Eravamo a poco più della metà. A gennaio hanno rivisto le previsioni: eurozona +1,3; Italia +0,6. Inchiodati e ricollocati a meno della metà. L’Ocse ha confermato questa prospettiva, che è allarmante, non rassicurante. Quando l’alta marea, indotta dall’aumento di liquidità praticato dalla Banca centrale europea, rilluirà, quando l’espansionismo monetario non potrà essere spinto oltre, alcuni avranno preso il largo e dispiegato le vele, mentre noi saremo ancora a ridosso degli scogli. Per di più con la ciurma che discute di riforme costituzionali.

Ieri è arrivato il bollettino della Banca centrale europea, che conferma queste nostre riflessioni. Per niente fenomenali, semmai piuttosto banali e di buon senso. Merce che scarseggia, nel gran bazar della propaganda. Dicono alla Bce: la politica di bilancio, in Italia, non sta rispettando il necessario programma di rientro dal debito. E va di lusso, perché se non avessimo accettato le correzioni alla legge di stabilità e non fosse partita la politica espansiva europea (e se i greci non facessero intatti), a questo punto ci troveremmo con la trimestrale di cassa che certifica il disallineamento, provocando la reazione altrui e innescando il meccanismo delle ulteriori (dolorose) correzioni.

Siamo solo agli scappellotti, e va bene. Risponde il nostro ministro dell’Economia: lavoriamo sul debito operando con le riforme. In serata tramite comunicato, il Mef addirittura specifica che il bollettino contiene imprecisioni. La politica di bilancio non deve dire grazie solo al risparmio sui tassi d’interesse. Una risposta poco cortese e soprattutto affrettata, perché il secondo rilievo della Bce è chiaro: sulle riforme l’Italia è in ritardo e il Paese deve portarne a termine altre, se si vogliono usare per la crescita. Si rammenti che la Bce, anche perché unica protagonista attiva di rango europeo, ha una visione positiva dei dati, tanto è vero che colloca la crescita dell’Eurozona, per l’anno in corso, all’1,5. Più dell’Ocse e della Commissione europea. A Francoforte non c’è alcuna propensione al pessimismo. Ma i numeri sono numeri e i fatti sono fatti. Contestare i numeri appare come 1’ultimo tentativo di negare la realtà.

Neanche qui si ha alcuna propensione all’umore funesto. Se guardiamo la curva del prodotto interno lordo, da anni in caduta, e la accostiamo a quella delle esportazioni, da anni in crescita, vediamo ad occhio nudo la forza indomita del nostro sistema produttivo. Gli splendidi risultati che dobbiamo a imprese e lavoratori. Ma quello è solo un pezzo d’Italia. Sulle cui spalle, per giunta, carichiamo il peso di una spesa pubblica improdutüva e galoppante. Non è la realta industriale italiana (pur molto provata) a provocare il pessimismo, è la superba cretineria di usare gli indicatori economici per misurare il proprio presente istantaneo con il proprio passato prossimo. Esercizio da scemi. O da imbroglioni.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.