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L’unica strada per competere

L’unica strada per competere

Mariana Mazzucato – La Repubblica

L’economia dell’Eurozona è tornata in prima pagina: la crescita è scesa a zero rispetto al primo trimestre. L’Italia è tornata in recessione (ma ne era mai uscita?) e il dato di Francia e Germania è più basso del previsto. Le autorità tedesche danno la colpa al maltempo, ma di sicuro il problema più grande è la disparità di competitività tra i vari Paesi europei: il calo della domanda in certi Paesi penalizza le vendite in altri. Ma se il presidente della Bce Mario Draghi ha ragione a preoccuparsi di una ripresa «debole, fragile e disomogenea», il problema è che la diagnosi dei fattori alla base della competitività continua a essere sbagliata.

Quando scoppiò la crisi finanziaria, nel 2007, i Paesi europei non furono colpiti tutti nello stesso modo e nelle stesse proporzioni. Quelli che da decenni non investivano nelle aree fondamentali per potenziare la crescita economica (per esempio l’istruzione, la formazione del capitale umano, la ricerca e lo sviluppo) hanno subito i contraccolpi maggiori. E infatti i Paesi a cui Goldman Sachs ha appiccicato l’infamante etichetta di Pigs (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna) sono in fondo alla classifica per questo genere di investimenti. E quando la crisi finanziaria è diventata crisi economica è in questi Paesi che la crisi del debito sovrano e la crisi di “competitività” sono esplose con maggior durezza.

Politiche di austerità indiscriminate stanno aggravando le recessioni, come hanno dimostrato questo mese i dati relativi all’Italia. Ma anche se le riforme “strutturali” (come Draghi caldamente chiede) fossero attuate, sarebbero sufficienti, da sole, a stimolare la crescita nella periferia dell’Eurozona? La risposta è no: senza una grossa spinta agli investimenti pubblici e privati, non saranno sufficienti. I Paesi deboli devono aumentare, non diminuire, gli investimenti in quelle aree che aumentano la produttività e producono crescita, come l’istruzione, la formazione e la ricerca; e devono anche creare istituzioni pubbliche dinamiche, in grado di garantire i fondamentali collegamenti tra scienza e industria e dar vita a una comunità finanziaria disposta a investire a lungo termine.

Come la banca statale tedesca, KfW, è stata fondamentale per il successo dell’industria tedesca e come la Banca statale cinese per lo sviluppo è stata cruciale per l’affermazione di aziende innovative (come Huawei nelle telecomunicazioni, Lenovo nell’informatica e Yingli nelle energie rinnovabili) così l’Europa deve imparare a usare le sue istituzioni finanziarie pubbliche per indirizzare gli investimenti in questo senso. Perché anche se la Bce diventasse finalmente una Banca centrale a tutti gli effetti, quel prestatore di ultima istanza necessario per placare i timori dei mercati finanziari speculativi, resterebbe il fatto che il Quantitative Easing da solo non basta: il denaro finirebbe semplicemente nei forzieri delle banche, che non lo destinerebbero al credito. La creazione di denaro dev’essere invece “indirizzata” verso le aree produttive dell’economia reale, e in quasi tutti i Paesi di successo del mondo questo è avvenuto attraverso istituzioni pubbliche come quelle descritte sopra. Il programma di misure di stimolo di Obama e il piano quinquennale della Cina (1.700 miliardi di dollari in 5 nuovi settori, dalle tecnologie ecocompatibili ai nuovi motori) sono stati indirizzati in larga misura a rendere “verdi” tutti i settori dell’economia.

Perché l’Europa non assegna un mandato altrettanto ambizioso alle sue istituzioni pubbliche? Perché ha paura: e la mancanza di solidarietà nell’avviare un “piano di crescita” serio alla fine porterà al declino anche i Paesi “forti”. La Germania può crescere senza vicini forti? No. È ora di cambiare rotta, e subito – soprattutto adesso che il costo del denaro è quasi zero. L’euro può funzionare solo con un’Eurozona meno squilibrata nella competitività. Competitività non significa pagare poco i lavoratori ma è la capacità di produrre prodotti di alta qualità, a costo competitivo, che il mondo vuole acquistare. Siemens non vince contratti di appalto per costruire treni in Inghilterra perché paga poco i suoi lavoratori (come ci vorrebbero fare credere quelli che pensano che i problemi dei Pigs dipendono dal fatto che lavoratori guadagnano troppo) ma perché fa i treni più veloci e più verdi – risultato di una forte politica industriale e di innovazione.

Una volta riconosciuto che i diversi livelli di competitività nell’Ue sono colpa delle marcate differenze nei livelli di investimenti pubblici e privati, dobbiamo mettere in moto ogni strumento di investimento disponibile, sia a livello nazionale che a livello transnazionale. Per esempio il budget della Commissione europea per l’innovazione (80 miliardi di euro!), i fondi strutturali della Commissione europea destinati a progetti innovativi con adeguate prospettive di fattibilità e vantaggio “sociale” – e ovviamente la Banca europea per gli investimenti (Bei).

Quando è scoppiata la crisi finanziaria, la Bei ha incrementato i prestiti approvati dagli 890 milioni di euro del 2007 ai 4,2 miliardi del 2009. Nel 2011 questa cifra è scesa drasticamente a 703 milioni, soprattutto a causa dei timori che la Bei potesse perdere il suo rating in tripla A e a causa della mancanza di consenso, tra i Paesi dell’Unione Europea, sul grado di attivismo dell’istituto. Se si vuole che la Bei oggi giochi un ruolo attivo, è necessario ricapitalizzarla usando i fondi strutturali non utilizzati e ricorrendo al cofinanziamento delle obbligazioni della banca con quelle emesse dalla Bce. Ma per fare una cosa del genere è indispensabile che la Bei venga vista come uno strumento importante per favorire investimenti produttivi, in particolar modo nei Paesi della periferia (i Pigs).

Ovviamente sarà necessaria anche una gestione adeguata “sul terreno” di questi investimenti: i ministeri e le aziende delle nazioni che ricevono i prestiti devono essere gestiti in modalità conformi ai parametri europei correnti. I salvataggi e i prestiti dovrebbero essere vincolati a questo tipo di parametri e “condizioni”, non alle condizioni del fiscal compact basate sull’austerity, che servono solo a determinare un circolo vizioso di assenza di crescita – salvataggio – misure di austerità – assenza di crescita – salvataggio e così via. E quello che forse è il pericolo maggiore: una perdita di solidarietà tra i Paesi europei che alimenterebbe le forze conservatrici e produrrebbe solo paura – non il coraggio necessario per cambiare strada.

Fai presto

Fai presto

Giorgio Mulè – Panorama

Inutile girarci intorno: il 2014 ce lo siamo giocati. I mesi che ci separano dalla fine dell’anno saranno contrassegnati da dati nefasti su tutti i fronti principali dell’economia: prodotto interno lordo, occupazione, consumi. Non si tratta di fare i gufi e anzi, piccola parentesi, sarebbe ora che Matteo Renzi la smettesse di fare lo spiritoso guardando in faccia la realtà perché c’è un Paese in ginocchio.

L’ultima mazzata che certifica lo stato comatoso dell’Italia è il dato sull’andamento dei prezzi: a luglio sono calati ancora innescando quella micidiale spirale che si chiama deflazione. Per capirci, la deflazione è il contrario dell’inflazione: la gente non compra, i prezzi calano e a ruota si mettono in moto una serie di conseguenze che portano meno profitti alle imprese, meno produzione, meno assunzioni, maggiori difficoltà per sostenere gli interessi sul debito. Una catastrofe. Basti ricordare che, a causa della deflazione, il Giappone ha conosciuto una crisi che gli economisti hanno efficacemente battezzato del «Decennio perduto» anche se gli effetti sono stati addirittura più lunghi.

La discesa dei prezzi a luglio si spera che convinca definitivamente il premier che il bonus da 80 euro è servito solo a fargli vincere le elezioni europee: gli effetti concreti sono sottozero, al punto che il fatturato dei saldi del 2014 ha conosciuto un decremento del 4 per cento rispetto al già pessimo 2013. La gente non spende, se ne frega altamente della riforma del Senato anche perché è terrorizzata dalla mazzata autunnale in arrivo sul fronte dei tributi locali con in testa la Tasi. A questo punto, piuttosto che interpretare Braccio di ferro e fare a cazzotti con la Bce di Mario Draghi (e comunque gli finisce male, dovrebbe sapere il premier), il governo che non ha legittimazione popolare faccia un bagno di umiltà. Concordi con le forze politiche responsabili e le categorie produttive del Paese un piano di emergenza: tagli sul serio la spesa pubblica di 50 miliardi in 3 anni (si può fare, si deve fare) e assuma immediatamente l’iniziativa di rilanciare gli investimenti pubblici e privati. Questo non significa battezzare un nuovo provvedimento roboante, tipo lo Sblocca Italia che in realtà sblocca a stento una vite in quanto si limita a spostare soldi da un capitolo all’altro o, peggio, a sancire il via libera a opere che però daranno lavoro tra due o tre anni come l’autostrada Orte-Mestre.

La strada è quella di dare incentivi a imprenditori piccoli, medi e grandi affinché siano realmente spinti a investire i loro soldi. Significa inventarsi misure come una rottamazione dei macchinari industriali, per esempio, che spesso sono obsoleti, dando in cambio benefici fiscali da riconoscere a chi con l’innovazione risparmia energia o digitalizza l’impresa. Non ci vuole molta fantasia, ma senso pratico per rimettere in moto l’Italia. Al bando l’arroganza, presidente Renzi. Non perda tempo con l’articolo 18 (non è aria) e si concentri sul 2015. Inizi subito e vari le misure entro agosto.

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Il suicidio collettivo che l’Italia non può permettersi

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

E tre. Mario Draghi si ripete, purtroppo finora invano, per richiamare l’Italia insieme a tutti i ritardatari dell’Eurozona all’urgenza delle riforme strutturali per tornare a crescere.
Per il nostro Paese di nuovo in recessione conclamata e comunque da troppo tempo in forte affanno rispetto ai partner, con tassi di sviluppo dell’1% circa sotto la media europea nell’ultimo decennio, le parole del presidente della Bce suonano come una sorta di ultimo appello in nome e per conto delle ragioni dell’economia, la terza dell’euro, che non può permettersi di far male a sé e agli altri perseverando nella politica degli annunci regolarmente seguita dalla strategia dei rinvii.
Non può perché non crescere significa distruggere imprese e benessere, moltiplicare i disoccupati, rendere insostenibile il debito, violare i patti europei, avviarsi al commissariamento ufficiale Ue, visto che l’uscita dall’euro sarebbe un disastro ancora maggiore dei mali da curare. Che non sono incurabili.

Il primo avvertimento a uscire dalla palude dei veti incrociati per attuare una precisa serie di riforme con allegato calendario era arrivato a Roma nell’estate del 2011: allora Mario Draghi, governatore della Banca d’Italia, e Jean-Claude Trichet, presidente della Bce, avevano scritto una severa lettera a quattro mani consegnata agli archivi senza grandi risultati concreti, caduta del governo Berlusconi a parte.
L’anno dopo, nel corso di un’altra estate ancora più bollente con l’euro sull’orlo del baratro, Draghi ormai a Francoforte aveva fermato la tempesta sui mercati comunicando ai medesimi che avrebbe preso «tutte le misure necessarie» a garantire la tenuta della moneta unica. In breve, la Bce avrebbe fatto la sua parte fino in fondo ma i governi avrebbero dovuto fare la loro, risanando i conti pubblici e facendo le riforme strutturali.
Ancora una volta l’Italia ha sprecato i due anni di tregua sui mercati guadagnati dalle iniziative di Draghi. Tra l’altro proprio mentre Grecia, Irlanda, Portogallo e Spagna, i Paesi finiti sotto i rigori della “troika” per aver chiesto gli aiuti europei, si auto-riformavano per forza ma ora sono quasi tutti tornati sui mercati e ricominciano a crescere.
L’Italia ha evitato gli aiuti e quindi la troika ma ha anche evitato di fare le riforme: in questo modo non è uscita dal tunnel del commissariamento futuro né è tornata a crescere. Cioè ha fatto la scelta peggiore, la più pericolosa e nefasta. Come cifre e previsioni di Istat, Eurostat, Commissione Ue, Ocse e Fmi continuano a dimostrare.

Ora Draghi ha lanciato il terzo allarme: ignorarlo ancora una volta significherebbe avviarsi al suicidio collettivo. E non perché si debba obbligatoriamente ottemperare a tutte le sollecitazioni in arrivo da Francoforte e Bruxelles ma perché senza riforme, è ampiamente provato, l’economia italiana è condannata a recedere anziché avanzare. Immobilizzata, come Gulliver, dai mille lacci e lacciuoli cui la inchiodano i troppi “lillipuziani” che le girano intorno: politici, burocrati di più o meno alto rango, magistrati più o meno efficienti e illuminati, corporazioni più o meno potenti e determinate…
Riuscirà il governo Renzi dove i suoi predecessori hanno fallito? Non ci sono scorciatoie possibili. La politica degli annunci che si fermano alle parole comincia a innervosire i mercati e i nostri partner europei, ansiosi di vedere i fatti.
In fondo non c’è proprio niente da inventare: la crisi del Pil italiano deriva in larga parte dalla crisi degli investimenti, che a sua volta dipende dalla mancanza di fiducia, e quindi di aspettative positive, in un Paese bloccato da una lunga e pesantissima crisi strutturale. Molto più che debitoria.
Vanno quindi rimossi al più presto tutti gli ostacoli che soffocano o scoraggiano chi fa business in Italia: che si chiamino pubblica amministrazione elefantiaca, leguleia o comunque ostativa, giustizia dai tempi biblici, mercati del lavoro, dei prodotti e dei servizi sclerotici e privi della flessibilità indispensabile per competere su scala europea e globale. E per restituire alle imprese la voglia di rischiare.

La diagnosi è arcinota, la terapia anche: la ripete da anni, inascoltata, la Commissione europea. L’ha ribadita Draghi l’altro ieri. È stata sottolineata con forza tre giorni fa in un editoriale del direttore di questo giornale. Non c’è più tempo da perdere: non solo perché sulla nostra testa pende il rischio concreto dell’apertura entro l’anno di una procedura Ue per mancato rispetto degli impegni presi sui fronti del debito e delle riforme. Non solo perché la nuova Commissione Juncker non si annuncia certo più tenera di quella Barroso.
Non solo perché la Germania della Merkel ha per l’ennesima volta appena risposto picche alla Francia di Hollande che le chiedeva di fare più crescita in Europa: «La Germania è già un motore importante, il più importante, per la crescita dell’Eurozona» ha puntualizzato il suo portavoce. Ma anche e soprattutto perché, se non ricomincia ad auto-generare crescita con le riforme e a recuperare fiducia all’interno e all’estero, l’Italia a poco a poco si auto-distrugge.

Quella spinta da Francoforte

Quella spinta da Francoforte

Donato Masciandaro – Il Sole 24 Ore

Riforme strutturali per avere mercati più competitivi e Stati più efficienti: è l’unica spinta possibile per ritornare a crescere e dare un senso alla politica monetaria espansiva che la Banca centrale europea ha deciso di proseguire, ma non di accentuare. Perché le condizioni monetarie per tornare alla normalità ci sono. Peccato che manchino tutte le altre politiche economiche. L’assenza di efficienza nei mercati e di efficacia nell’azione pubblica sono i due nodi scorsoi che stanno soffocando l’Unione. È questo il messaggio di Mario Draghi che vale in generale per Bruxelles, ma in particolare per Roma. La Bce fotografa una situazione dell’Unione monetaria Europea in cui la ripresa economica è ancora timida ed instabile. Il termometro è rappresentato da un andamento stagnante sia delle variabili reali – la crescita – che da quelle nominali – l’inflazione. Quale è la diagnosi della nostra banca centrale? È facile. Tutto dipende dallo stato delle aspettative di famiglie, imprese e mercati.

In una situazione normale, una stagnazione con rischio deflattivo può essere attribuito ad un deficit di domanda aggregata. Il deficit di domanda può influenzare le aspettative, attraverso un circolo vizioso che si autoalimenta: il deficit di domanda di oggi implica prezzi calanti per domani, quindi gli operatori hanno incentivo a posticipare le scelte di consumo e di investimento, alimentando il deficit di domanda. In questi frangenti la politica monetaria deve essere normalmente espansiva, per incentivare le decisioni di spesa ed al contempo alimentare le aspettative di inflazione. Purtroppo ancora oggi la situazione in Europa non è normale: il deficit di domanda si intreccia con un eccesso di avversione al rischio, incubatosi prima della Grande Crisi, scoppiato dal 2008 con la crisi finanziaria e consolidatosi negli anni successivi con la recessione economica. L’Europa è in una trappola della liquidità: le iniezioni di liquidità e la crescita dei prezzi azionari non provocano effetti rilevanti e stabili sulle grandezze reali, a partire dalla crescita economica.

L’avversione al rischio spinge a risparmiare – quindi a non consumare – ma non ad investire. La liquidità, sia essa detenuta dalle famiglie, dalle imprese o dalle banche tende ad essere tesaurizzata. Occorrono gli investimenti reali, pubblici e privati, che possono far ripartire la domanda aggregata. È qui il primo nodo scorsoio che l’analisi della Bce mette in luce. Esistono investimenti privati sono lo Stato è in grado di offrire in modo efficace e sistematico i beni pubblici essenziali: dalle istituzioni efficienti – a partire dalla giustizia civile e penale – alle infrastrutture della comunicazione, reale e virtuale. Inoltre occorre riprendere la politica della concorrenza, in tutti i mercati e settori, incluso quello del lavoro, per scogliere completamente il secondo nodo scorsoio, ed essere efficaci anche dal lato dell’offerta aggregata.

L’Italia è un destinatario naturale del messaggio della Bce: il governo Renzi è partito dalla architettura politica, che è la madre delle politiche pubbliche inefficienti, ma non può che essere solo un punto di inizio, se si vuole essere coerenti con il modello sposato dall’analisi Bce. Allo stesso modo la capacità di offrire investimenti pubblici dipende dallo stato delle finanze pubbliche di un Paese. Il presidente Draghi ha fatto notare come i Paesi che avrebbero più bisogno di investimenti pubblici sono proprio quelli che hanno le finanze pubbliche peggiori: alta tassazione unita a pessima qualità della spesa pubblica.

Anche qui la missiva di Francoforte trova un naturale approdo a Roma. L’Italia è un Paese indebitato, con un grosso vantaggio: essere membro dell’Unione monetaria. Grazie a tale appartenenza, può pagare sul proprio debito tassi di interesse, nominali e reali, più bassi. Un vantaggio che purtroppo finora la nostra classe politica ha dissipato. Per un Paese indebitato gli obiettivi del pareggio dei conti, della riqualificazione della spesa e della lotta all’evasione sono indipendenti dall’essere parte dell’Unione, che invece può essere uno strumento per rendere tali obiettivi più credibili, e nel contempo più flessibili in termini di profilo temporale. Purtroppo le voci più miopi nei dibattiti nazionali ribaltano spesso il nesso tra disciplina fiscale e appartenenza all’Unione, ricordato dalla Bce.

La convergenza delle politiche strutturali e fiscali diviene condizione necessaria per far riassorbire stabilmente l’eccesso di avversione al rischio, e tornare ad un sistema economico normale e dinamico. La normalizzazione delle condizioni monetarie, bancarie e finanziarie ha fatto passi in avanti. Mario Draghi ha elencato tutta una serie di segnali incoraggianti, che riguardano la domanda come l’offerta di credito, nonché l’auspicato effetto stabilizzante dell’inizio dell’Unione bancaria. Inoltre aiuta il fatto che la politica della Bce abbia oramai un orientamento opposto a quello intrapreso dalla Fed e dalla Banca d’Inghilterra. Ma i segnali positivi sono tutti reversibili, anche alla luce delle incognite geopolitiche che toccano da vicino l’Unione Europea; purtroppo di nuovo i dibattiti nazionali sembrano orientati dal binocoli alla rovescia. La Bce ha confermato per il secondo mese consecutivo l’orientamento più espansivo della politica monetaria europea dalla sua nascita, nonché una decisione unanime di continuare nel tentativo di normalizzazione. E Bruxelles – nonché Roma – come rispondono?

L’ultimo avvertimento

L’ultimo avvertimento

Danilo Taino – Corriere della Sera

La sera del 25 maggio scorso, l’Italia era la beniamina dell’Europa: la netta vittoria di Renzi alle elezioni per il Parlamento di Strasburgo apriva una fase di possibile stabilità politica nella quale realizzare le sempre attese riforme strutturali. La terza economia dell’Eurozona sollevava nei governi e nei mercati aspettative del tutto nuove. Ieri, quella fase era già finita: da Francoforte, Mario Draghi ha separato il caso italiano da quello degli altri Paesi dell’area euro, i quali, mentre Roma rinviava, hanno, chi di più chi di meno, riformato le loro economie. L’Italia sembra tornata a essere il primo problema dell’Europa.

Anche con esempi per un governatore «non convenzionali» – il racconto di imprenditori e di giovani che in Italia non riescono a investire a causa della troppa burocrazia – il presidente della Banca centrale ha dedicato buona parte della sua conferenza stampa mensile a spiegare il perché nell’Eurozona siamo in presenza di una ripresa «non allineata»: i Paesi che hanno fatto le riforme strutturali – «mercato del lavoro, dei prodotti, concorrenza, giudiziario e così via» – crescono, gli altri no, come si è visto dagli ultimi dati del Prodotto interno lordo. Si possono avere tassi d’interesse ai minimi, la Bce può inondare i mercati di denaro, si possono tagliare le tasse (doveroso), ma tutto è inutile se le rigidità del sistema economico impediscono di aprire business, di assumere, di espandere la propria attività, di contare su mercati trasparenti e su norme certe e applicabili. La mancanza di riforme strutturali crea incertezza, «un fattore molto potente che scoraggia gli investimenti».

Poco più di due mesi dopo quel 25 maggio, nelle istituzioni, nei governi ma anche sui mercati, c’è insomma un cambiamento di clima nei confronti della capacità dell’Italia di rendere efficiente l’economia, quasi un contrordine. E questa è una delle ragioni per le quali Draghi insiste sulla necessità di cedere sovranità a Bruxelles anche per quel che riguarda le riforme strutturali: se un Paese non è in grado di farle, glielo si imponga, come già avviene con i bilanci pubblici e con la gestione delle banche. L’Italia è troppo importante e grande per essere lasciata andare a fondo.

Niente di cui essere soddisfatto, per il governo italiano. Il ritorno della recessione e l’analisi del presidente della Bce, non sono però una condanna senza appello per Renzi. Anzi, potrebbero essere un’opportunità per ridefinire priorità e urgenze e per assumere un approccio più solido alla Ue. Se la scelta di iniziare il cammino riformista con l’abolizione del Senato e non con interventi strutturali sull’economia ha probabilmente determinato una tempistica avventata, ora si tratta di mettere sul tavolo impegni precisi e tempi certi per realizzare riforme come quelle indicate da Draghi. Dall’altra parte, va messa in disparte la retorica polemica nei confronti dell’Europa che non darebbe abbastanza flessibilità ai bilanci pubblici, cioè alla spesa: è un argomentare fragile che, tra l’altro, ai partner che hanno fatto «i compiti a casa» appare come la scusa di chi non ha l’energia per impostare una svolta riformista. La Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, persino la Grecia indicano che quando si fanno programmi seri di riforma e li si rispettano l’economia riprende fiducia e riparte prima di quanto ci si aspetti. E che, una volta sollevate, le aspettative non vanno poi lasciate cadere: il 25 maggio non è per sempre.

I rimedi che servono all’Europa

I rimedi che servono all’Europa

Stefano Lepri – La Stampa

Si può obiettare a Draghi un po’ di schematismo, quando afferma che la ripresa economica c’è nei Paesi che hanno fatto riforme di struttura e manca in quelli che esitano. Al momento, nell’area euro a gonfie vele non ci va nessuno. Ma il presidente della Bce fa bene a insistere su quel punto, perché lì l’Europa è bloccata. Finché Italia e Francia non avranno preso di petto i rispettivi problemi non sarà possibile avviare quelle azioni collettive che pure al nostro continente servono. È ovviamente nel nostro interesse avere un Paese che funzioni meglio. In più, un governo che mostri impegno a renderlo tale ridurrà la diffidenza che spinge i Paesi nordici dell’euro a chiudersi nei rispettivi egoismi nazionali. A breve termine, solo più incisive azioni di politica economica a Parigi e a Roma possono rendere facile alla Bce la misura anticrisi aggiuntiva che molti le sollecitano, ovvero una massiccia espansione monetaria («quantitative easing») come attuato dalla Federal Reserve Usa o dalla Banca d’Inghilterra.

Forse sarebbe un po’ tardi. Forse i rischi sono cresciuti, come avvertiva ieri il governatore della Banca dell’India Raghuram Rajan, economista di grande fama: si sono spinte troppo in alto le Borse senza dare impulsi sufficienti alla produzione. Però all’Europa occorrono rimedi fuori dall’ordinario. Il rallentamento che pare estendersi (vedremo nei prossimi giorni altri dati sui Pil del secondo trimestre) non può essere attribuito tutto alla cattiva influenza dei Paesi malati come il nostro.

Può darsi che la ricetta tedesca di puntare tutto sull’export non funzioni più tanto bene nemmeno per la Germania stessa. Mostra aspetti di fragilità la ripresa della Spagna, indicata come esempio perché alcune importanti riforme le ha fatte.

La scarsa fiducia delle imprese nel futuro, che fa mancare gli investimenti, non è un fenomeno solo italiano; stupisce anzi di più nel Nord Europa. In una prospettiva più ampia, occorrono progetti comuni: Draghi indica in quella direzione parlando di sovranità condivisa sulle riforme. Non è molto il tempo per reagire: né in Italia né in Europa. Un avvio rapido delle riforme da noi – inutile discettare se sia più urgente la parte politico-costituzionale o quella economica – può essere utile a tutti gli altri Paesi.

Il rischio, ben presente ai politici, è che gli interventi siano impopolari nell’immediato, fruttuosi molto più tardi. Ma esitando la situazione non potrà che peggiorare. Il nuovo soccorso della Bce, se arriverà, arriverà soltanto verso la fine dell’anno. Se l’Italia si muove, in altre capitali diverrà meno facile negare che esistano nell’area euro problemi comuni per i quali le ricette fin qui sperimentate non bastano. Non nascondiamoci tuttavia che la Francia rappresenta oggi una incognita forse maggiore. Certo non è facile muoversi se autorevoli intellettuali sostengono, contro la riforma del Senato, che la più solida garanzia di libertà è un governo debole o se la sinistra Pd e Sel si uniscono ai Fratelli d’Italia nel firmare il referendum contro il Fiscal Compact europeo. La grande crisi ha posto l’Europa, l’Europa in particolare, davanti a problemi del tutto nuovi. Dunque fa invecchiare rapidamente le idee. Anche di questo occorre tenere conto.

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Tino Oldani Italia Oggi

Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.

Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).

Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.

Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo. Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika. Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.

Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.

Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).

Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.

Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.