austerity

Rigore e troppi tagli allo sviluppo

Rigore e troppi tagli allo sviluppo

di Paolo Bricco

Tutto e il contrario di tutto. Ogni disquisizione sul binomio debito-investimenti amalgama in un composto unico la politica e l’economia, accende gli animi anti-europeisti e rafforza allo stesso tempo i sentimenti filo-comunitari.

Il fiammifero dell’austerity è in mano ai piromani di ogni fazione. O perché, secondo alcuni, non la si rispetta religiosamente. O perché, secondo altri, la si applica sadicamente. Proviamo a partire da alcuni numeri che sono il cuore del caso italiano, nei caratteri storici di lungo periodo e nella specificità modellata dalla crisi che si è attivata, con la sua forza dirompente e pervasiva, nel 2008.

L’EUROPLACENTA
Il debito pubblico lordo italiano, in rapporto al reddito nazionale, cresce. Nel 2008, anno dell’inizio della grande crisi, era il 102,4% del Pil. Nel 2015, si è attestato al 132,3 per cento. La montagna non incantata sale sempre di più: per la Banca d’Italia, se nel 2008 il debito totale era pari a 1.671 miliardi, sei anni dopo – nel 2014 – è diventato 2.136 miliardi di euro e, adesso, 2.229 miliardi di euro (dato al novembre del 2016). Il problema è che, negli anni, la differenza fra spese ed entrate è esplosa: secondo il Centro Studi Impresa Lavoro, nel 2008 ammontava a poco meno di 38 miliardi e, nel 2014, è diventata quasi 72 miliardi.

In un contesto così complicato, il principale elemento – insieme di stabilizzazione e di destabilizzazione – è rappresentato dalle spese per gli interessi: nel 2008 erano al 4,9% del Pil e, dopo il picco del 5,2% del 2012, sono tornate gradualmente a scendere, fino al 4,2% del 2015. Stare dentro all’euro garantisce una placenta difensiva. Lo si coglie osservando la dinamica degli ultimi anni della lira: per esempio, nel 1997 questa voce della finanza pubblica era pari al 9,2% del reddito nazionale, nel 1998 al 7,9%, nel 1999 al 6,4% e, nel 2000 e nel 2001, al 6,1 per cento. Allo stesso tempo, la placenta dell’euro ha una qualità differente a seconda del Paese. Perché, per noi, anche in anni di relativa tranquillità come quelli del primo euro, vale lo “svantaggio Italia”: secondo la Banca d’Italia, nel 2002 in Italia la spesa per interessi è al 5,5% del Pil, contro il 2,9% della Germania e della Francia e il 3% dell’area euro; nel 2008, primo anno della grande crisi, è al 4,9% del Pil, a fronte del 2,7% tedesco, del 2,8% francese e del 2,5% dell’area euro. Nel 2011, anno dello spread a 500 punti fra il Btp-Bund tedesco a 10 anni, l’Italia è al 4,7% e, nel 2012, anno in cui si dispiega nella sua pienezza l’attività del Governo Monti, è al 5,2%, a fronte del 2,3% della Germania e del 2,6% della Francia e dell’area euro.

Nel suo rapporto con la capacità di creare ricchezza complessiva, il costo sostenuto per pagare il debito è più alto: spendiamo di più perché il nostro profilo è meno efficiente e più rischioso agli occhi degli investitori. Siamo uno Stato che gli investitori internazionali percepiscono non immune dalla ipotesi di bancarotta. E spendiamo di più anche in termini quantitativi: nel 2008 la spesa per interessi sfiora gli 80 miliardi di euro, nel 2009 e nel 2010 scende a poco meno di 70 miliardi, nel 2011 ritorna a 77 miliardi, nel 2012 sale a quasi 84 miliardi, per poi sedarsi di nuovo negli anni successivi (nel 2013 è a 77 miliardi, nel 2014 a 74 miliardi e nel 2015 a 69 miliardi). Negli anni che rappresentano il cuore della grande crisi – fra il 2008 e il 2015 – l’Italia spende in interessi sul debito 600 miliardi di euro, contro i 485 miliardi della Germania e i poco meno di 400 miliardi della Francia.

Questo gap ha un effetto duplice: imbolsisce la finanza pubblica con passività relative maggiori rispetto a quelle dei Paesi concorrenti, cambiando gli equilibri dei conti e riducendo – almeno a livello teorico – la possibilità di usare la leva della spesa.

IL PARADOSSO DELL’ELEFANTE
L’elefante è o non è un elefante? Il debito che cresce è una condizione di obesità fisiologica oppure è un elemento dell’immaginario che viene delimitato e definito da un senso di incubo del tutto irrazionale? L’Italia è un caso classico da manuale per le discettazioni teologiche fra economisti. Ma è anche il Paese in cui tutti noi viviamo. Per il mainstream l’accumulazione del debito pubblico porterebbe – o, meglio, porterà – all’implosione dell’intera architettura economica. In qualche maniera, secondo la concezione quasi antropomorfica di questa visione, lo Stato è assimilabile a una famiglia che, per potere tornare a consumare e a investire, deve prima ridurre drasticamente il suo debito. Per la minoranza keynesiana, invece, la spesa pubblica, che del debito è uno degli alimentatori, resta lo strumento principale con cui riattivare il circuito economico. Il tema delle grandezze economiche fissate dalle tecnocrazie e dalle élite politiche è il cuore dell’Unione europea dell’austerity, che vigila sulla quotidianità e sulle policy dei singoli Paesi affinché le passività pubbliche dei singoli Stati rimangano sotto determinate asticelle quantitative. Ed è una delle maggiori criticità ideali – prima che ideologiche – sull’attuale fisionomia della comunità europea.

Facciamo però un passo indietro. Come è composta la nostra spesa pubblica? Senza volere leggere, come nei fondi del caffè, il futuro della sostenibilità del debito pubblico, che tipo di natura ha il nostro debito? Qual è la matrice originaria della nostra spesa pubblica? Prendiamo la sua componente più virtuosa: gli investimenti. Secondo una elaborazione compiuta dal Centro Europa Ricerche sui dati Istat, è il 2009 – con il classico slittamento di un anno che caratterizza il recepimento delle tendenze economiche da parte della realtà statale – a segnare uno spartiacque nell’attività della mano pubblica. In quell’anno gli investimenti fissi lordi della pubblica amministrazione valgono 54,2 miliardi di euro e pesano per il 3,4% sul Pil. Da allora, si assiste a un declino rapido e costante: nel 2015, il valore è di 36,8 miliardi di euro, il 2,2% del Pil. All’interno degli investimenti fissi lordi, la voce più stabile è rappresentata dalle costruzioni (opere stradali, fabbricati, ferrovie, porti e aeroporti) che, nella composizione, è scesa dal 56,9% del 2009 al 54,3% del 2015. I prodotti di proprietà intellettuale, per esempio gli investimenti diretti in R&S, in software e in database o il loro acquisto sul mercato, sono aumentati dal 20,6% al 28,5 per cento. A calare sensibilmente – dal 12 all’8,6% – sono gli impianti e i macchinari e sono le spese militari (dal 10,6% all’8,6%).

Nel gioco del biliardo fra i numeri, appare utile porre in relazione la dinamica degli investimenti con la dinamica della spesa pubblica totale. La quale, dal 2008 al 2015, è salita da 781 a 828 miliardi di euro. Quarantasette miliardi in più. Il 6% in più. Negli stessi anni, gli investimenti sono scesi di un quarto secco. Gli investimenti in percentuale della spesa pubblica totale sono scesi dal 6,74% al 4,44% e, in percentuale di quella in conto capitale, dal 66,31% al 54,11 per cento. L’influente saggio di Mariana Mazzucato, Lo Stato Innovatore (Laterza), non è proprio sul comodino delle classi dirigenti italiane, brave a fare correre la spesa corrente e a fare lievitare il debito, a patto però che gli investimenti scendano.

IL CONFRONTO EUROPEO
L’Europa dell’austerity investe. Naturalmente, in misura bipolare. Germania e Francia aumentano il loro livello di investimenti fissi lordi. Spagna e Italia vanno in direzione opposta. L’aggregato dell’Unione europea a 15 Stati mantiene a un livello stabile questo particolare tipo di spesa: nel 2008 era pari a 393 miliardi di euro (il 3,3% del Pil), nel 2009 è salita a 408 miliardi per poi scendere gradualmente a 371 miliardi nel 2015, con la prospettiva di una risalita che, nel 2018, dovrebbe riportare la cifra consolidata a 391 miliardi di euro, secondo le stime della Commissione europea contenute in “European Economic Forecast- Autumn 2016”. La Germania, dal 2008 al 2015, ha destinato agli investimenti una quota compresa fra il 2,1 e il 2,3% del Pil: con Pil crescente, questo ha comportato anno dopo anno miliardi di euro in più in investimenti, fino ai 64,4 del 2015, con la prospettiva di sfondare nel 2018 il tetto dei 75 miliardi. La Francia, senza farsi condizionare dall’andamento dell’economia nazionale, ha stanziato ogni anno sostanzialmente la stessa cifra, compresa fra gli 80 e gli 84 miliardi di euro (fra il 3,5% e il 4% del Pil). La Spagna, uno degli epicentri della crisi europea, ha dimezzato gli investimenti: dai 51,5 miliardi del 2008 (il 4,6% del Pil) e dai 55,1 miliardi del 2009 (addirittura il 5,1% del Pil) ai 27 miliardi del 2015 (il 2,5%), che scenderanno a 26 miliardi nel 2018. L’Italia li ha, appunto, ridotti di un quarto.

LA COMPOSIZIONE DELLA RICCHEZZA
Il Pil procapite è sceso dai 27.841 euro del 2008 ai 26.551 euro del 2014: 1.290 euro in meno. Il punto è la composizione di questo reddito, evidenziata dal centro studi ImpresaLavoro: la quota privata è scesa dal 48% del 2008 al 45% del 2014. Dunque, aumenta la nostra dipendenza dalla spesa pubblica. Che, però, è una spesa pubblica non finalizzata soprattutto agli investimenti, ma rivolta in particolare al mantenimento della macchina burocratica e all’erogazione dei servizi che tutto sono, tranne che uniformi e di qualità coerente.

Il problema è questo. Tanti soldi al cavallo, che beve e mangia enormi quantità di acqua e di biada, con prestazioni però assolutamente diverse – nella gara strategica dell’erogazione dei servizi ai cittadini e alle imprese – a seconda dei posti. Il working paper del Fondo Monetario Internazionale “Does Public Sector Inefficiency Constrain Firm Productivity: Evidence from Italian Provinces” taglia la testa al toro, con la avalutatività oggettiva delle analisi econometriche, a ogni disquisizione o dibattito sul differente livello di qualità dei servizi.

Spiega a questo proposito l’economista Paolo Ermano, che lavora all’Università di Udine e collabora con il centro studi Impresa Lavoro: «Un’impresa che opera in un settore la cui dipendenza dal pubblico è più alta della media dei settori analizzati e che si trova in una provincia con un livello di efficienza superiore alla media delle provincie analizzate vede, per ogni euro speso in stipendi, aumentare la produttività dell’11,3% e il valore aggiunto sull’output dell’8,6%, rispetto al caso in cui operasse in una provincia a scarsa efficienza».

L’EQUAZIONE, LE ELITE E GLI ITALIANI
In Italia, il bianco convive con il nero. A fronte di un debito pubblico superiore ai 2mila miliardi di euro, ci sono 8.730 miliardi di euro di attivi (dato al 2014), come spiega il rapporto della Banca d’Italia La ricchezza delle famiglie italiane. Con la sua capacità di produrre contraddizioni, dunque, il nostro Paese ribalta il motto “Il convento è ricco, i monaci sono poveri”. Da noi i monaci sono (per ora) ricchi, perché i monaci – gli italiani – hanno scaricato sul convento – i conti pubblici – gli scontrini non pagati da consumatori e le evasioni e le elusioni fiscali realizzate con le loro aziende, le pensioni a cinquant’anni senza alcuna corrispondenza con i contributi versati e i prepensionamenti a 48 anni, che negli anni Ottanta e Novanta hanno costituito il principale ammortizzatore sociale del sistema consociativo fra le forze politiche, le rappresentanze degli imprenditori e i sindacati. Da noi, la spesa pubblica è eccessiva. I servizi pubblici sono pencolanti – e pericolanti – fra le poche eccellenze e le moltissime mediocrità. Da noi, c’è il calo degli investimenti. Il problema non è tanto che il debito pubblico cresca e che il Pil abbia dinamiche asfittiche. Il problema è che, con il pilota automatico, vengono tagliate le spese pubbliche a più alta produttività e che nessuno – nessuno – è mai riuscito a incidere sullo Stato quale pessimo fornitore di servizi.

Nel 1977 Laterza pubblicava l’Intervista sul non governo a Ugo La Malfa di Alberto Ronchey. La Malfa e Ronchey, in merito ai pesi storici che gravavano sulla Italia a loro contemporanea, citavano Comte: «I morti governano i vivi».Quarant’anni dopo, i morti congiurano insieme ai vivi. L’insostenibilità delle cose non è tanto – o soltanto – nelle equazioni matematiche. L’insostenibilità è nel meccanismo di finanza pubblica che si nutre – e allo stesso tempo viene nutrito – dal fallimento storico delle nostre classi dirigenti e – in fondo – dall’irresponsabilità civile della maggioranza degli italiani.

Renzi, Tsipras e il gioco del pollo

Renzi, Tsipras e il gioco del pollo

Giuseppe Pennisi – Formiche

Nei resoconti televisivi degli incontri internazionali, Tsipras e Renzi sfoggiano, anzi ostentano, grandi abbracci e baci. Solo per il pubblico? O c’è qualcosa di più sincero?

Renzi e Tsipras sono affratellati da quello che in teoria dei giochi si chiama “il gioco del pollo”, che in italiano sarebbe meglio chiamare “gioco del coniglio”, ossia di cosa plasma i comportamenti in una situazione ad alto rischio.

Andiamo con ordine. All’inizio del negoziato tra Tsipras e i suoi partner su Formiche.net ho ricordato i “giochi” multipli su più tavoli: su un tavolo (con i partner europei) l’obiettivo di Tsipras era quello di massimizzare la “reputazione”; con il proprio elettorato, invece, quello di massimizzare “la popolarità”. Un equilibrio di Nash, quello del film A Beautiful Mind (quindi sempre instabile) che, però, non sembra sia riuscito a raggiungere.

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Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La saga greca che da cinque anni si dipana sotto i nostri occhi non vuole dire ‘lacrime e sangue’ per tutti coloro in essa coinvolti. In primo luogo, all’interno della Repubblica Ellenica, se la godono i ceti a reddito alto ed i grandi evasori (spesso le stesse persone). Uno studio della Banque de France documenta che il forte aumento tributario attuato nel 2010, il secondo ‘salvataggio’, non ha comportato che un lievissimo aumento del gettito; è, quindi, cresciuta alla grande l’evasione. Esaminando i dati dell’agenzia delle entrate della Grecia, risulta che un terzo dell’aumento tributario è stato perso in quanto è aumentata la proporzione di reddito non dichiarato dalle piccole e medie imprese e dal ‘popolo delle partite Iva’ (le imprese individuali). Numerosi greci, e non solo greci, hanno scommesso soprattutto nel 2012 sul salvataggio; quindi hanno acquistato, sul mercato secondario, titoli pubblici a prezzi stracciati (tra un terzo e la metà del valore nominale) con un rendimento del 15-20% e, dopo il salvataggio quando il valore di mercato dei titoli si è riavvicinato al valore nominale, hanno guadagnato sul conto capitale, incassando al tempo stesso un lauto dividendo.

Oggi, per chi ama il rischio ( e crede in Mamma Europa) la situazione è ancora più favorevole. Sul secondario i titoli greci sono considerati spazzatura; per attirare acquirenti i buoni del Tesoro a tre anni rendono il 27% (l’anno) , mentre i decennali (prima o poi la fune si spezzerà) il 20%. In queste condizioni, le occasioni di guadagno non mancano, sia per i greci (specialmente per chi ha portato capitali all’estero) sia per gli altri (specialmente se hanno buone imbeccate sull’esito del negoziato).

Tutto ciò è molto più grave della dilazione, in 80 -100 rate, su 60 miliardi di arretrati con il fisco che il Governo Tsipras- Varoufakis , pur dichiarandosi ‘di sinistra’ ha esteso a tutti i contribuenti, anche ai più ricchi.

Ma cosa è questa austerità?

Ma cosa è questa austerità?

Giuseppe Pennisi – Formiche

I successi elettorali dei movimenti, se non apertamente anti-europei, quanto meno contrari alle specifiche assunte da politiche, strategie, programmi e misure adottate nell’unione monetarie impongono si approfondire cosa si intenda con austerità, vocabolo centrale nel lessico dei dibattiti di politica economica europei e nazionali in corso in questi giorni. E’ facilmente intuibile che uno degli esiti sarà una differente declinazione del termine austerità.

In questo approfondimento, possono essere di grande aiuto i saggi sul tema prodotti nella letteratura economica. Ma occorre fare attenzione. Il tema dell’austerità è diventato merce di largo consumo tanto nel mondo accademico quanto nella pubblicistica giornalistica. Ha prodotto una vera e propria piccola industria che sforna paper, libri, articoli come se fossero hamburger; occorre distinguere con cura tra quelli che dicono qualcosa di nuovo, basato su vera ricerca, e quelli che scopiazzano i lavori di chi ha pubblicato appena prima di loro. O, peggio ancora, si rivolgono al Prof. Google.

Tra i 150 saggi sull’argomento usciti nell’ultimo mese, tre sono parsi di interesse per i lettori di Formiche. Il primo è un lavoro preparato per l’Economic Policy Panel dell’EIEF (Einaudi Institute of Economics and Finance) tenuto a Roma a fine 2014 ed i cui atti saranno pubblicati tra qualche mese. E’ uno studio collettaneo di Alberto Alesina, Francesco Giavanni e Matteo Paradisi, con la collaborazione di uno stuolo di loro ricercatori. Definita austerity essenzialmente come ‘consolidamento fiscale’ (riduzione della spesa ed aumento dell’imposizione tributaria per ridurre deficit e, quindi, debito), il lavoro analizza, con una strumentazione quantitative, se il ‘consolidamento’ effettuato a partire dal 2009 nell’eurozona ha avuto effetti recessivi sull’eurozona. Le conclusioni sono due: a) gli effetti ci sono stati ma non superiori a quelli quantizzati in altri casi di ‘consolidamento’; b) le implicazioni su produzione ed occupazione sarebbero state notevolmente inferiori a quelle effettivamente computate se si fosse agito sul lato della spesa (riducendola) piuttosto che su quello delle entrate (aumentandole).

Harris Dellas e Dirk Niepelt, ambedue della Università di Berna, partono da una differente accezione del termine austerity – la riduzione dei consumi dai livelli desiderati causata dalla capacità di servizio del debito. In tal modo, austerity diventa essenzialmente uno strumento per ottenere dal mercato migliori condizioni finanziarie (e per il rimborso del debito e per avere fresh money , nuovi finanziamenti). E’ un segnale, quindi, per conquistare credibilità o per migliorare quella che già si ha. Ha funzionato nell’attuale crisi dell’eurozona? Per Dellas e Niepelt è un segnale ‘costoso’, aggettivo qualificativo eloquente.

Molto interessante il saggio rivolto specificatamente ai Paesi dell’Europa centrale, orientale e meridionale pubblicato sul Journal of Economics and Business dell’Università di Rijka, in Croazia, e firmato da Anita Čeh Časni, Ana Andabaka Badurina e Martina Basarac. L’analisi utilizza una batteria di indicatori per il periodo 2000-2011. Il concetto di austerity è strettamente collegato a quello di incidenza del debito pubblico sul Pil, L’esito dei vari test effettuata nell’Università croata è che occorre incidere sulla causa non sui suoi esiti. Le proposte sono che una politica ‘credibile’ di ‘consolidamento fiscale’ deve essere coniugata con politiche che favoriscano crescita ‘duratura di lungo periodo’, quali ‘promuovere lo sviluppo industriale, incoraggiare la crescita e creare un clima per attrarre e favorire investimenti’, unitamente a ‘programmi di riduzione del debito’.

L’austerità? In Italia mai provata

L’austerità? In Italia mai provata

Alberto Mingardi – La Stampa

La politica italiana è litigiosa e polarizzata, ma su alcune cose destra e sinistra hanno più in comune di quanto lascino ad intendere. Per esempio, è convinzione generale che «l’austerità ha fallito». Le differenze sono questione di sfumature: chi sta all’opposizione vuole uscire dall’euro, chi governa agisce per una maggiore «flessibilità» delle regole europee. Cambiano i mezzi, il fine è lo stesso: far ripartire il cuore dell’economia italiana, tornando a pompare denaro pubblico.

Che cosa sia l’«austerità», non è proprio chiarissimo. Solo alcuni anni fa si parlava di «consolidamento fiscale», per riferirsi a quell’insieme di politiche che dovrebbero riportare il bilancio pubblico verso il pareggio. Il consolidamento fiscale può avvenire dal lato delle entrate, e cioè con un aumento della pressione fiscale, o da quello delle uscite, e dunque con una riduzione della spesa pubblica. Nella narrazione oggi prevalente, l’austerità «fallimentare» è proprio quella che coincide con la riduzione della spesa (in alcuni casi, fraintesa con un rallentamento del tasso di crescita della spesa). Diminuire le spese pubbliche significherebbe «mettere in discussione il nostro modello sociale», cosa a cui nessun politico è disponibile, perché teme un’erosione dei consensi. L’esempio della Grecia è quello citato più spesso: l’austerità pilotata dalla «troika» farà il pieno di voti a Syriza e a Alexis Tsipras. Dal punto di vista delle classi dirigenti, il principale fallimento delle politiche d’austerità è il non assicurare la rielezione a chi le pratica, spalancando le porte alle forze d’opposizione.

Guardiamo però ai Paesi cosiddetti Piigs: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia e Spagna. In Italia il «consolidamento fiscale» è passato per la riforma delle pensioni, per un inasprimento della pressione tributaria, soprattutto sugli immobili, e per una «spending review» che prima di arrivare alla fase operativa è sparita dalle pagine dei quotidiani e dall’agenda politica. Negli altri Paesi, vi è stato un mix di interventi sul fronte della spesa e su quello delle entrate, orchestrato in Portogallo, Irlanda e Grecia dalla cosiddetta «troika». Le soluzioni sperimentate sono state sicuramente imperfette, ma hanno provato ad intaccare il corpaccione della spesa con maggior determinazione che dalle nostre parti.

Nessuno di questi Paesi pare avviato verso un turbinoso sviluppo alla cinese. Eppure le stime del Fondo Monetario Internazionale accreditano il Portogallo di una crescita di poco meno dell’uno per cento nel 2014, l’Irlanda di una crescita del 3.6, Grecia e Spagna rispettivamente dello 0,6 e dell’1,3. Per il 2015, le aspettative di crescita sono dell’1,5 % (Portogallo), del 3% (Irlanda), del 2,8 e dell’1,6% (Grecia e Spagna). Poco? Può darsi. Ciascuno di questi Paesi aveva problemi e criticità già prima della crisi: non esistono panacee. L’economia greca, per esempio, è ancora ingessata da bardature che rendono estremamente complessa l’attività produttiva. L’iper-regolamentazione è un male comune.

Quel poco però è di più della crescita negativa che il nostro Paese ha registrato nell’ultimo anno e dello 0,8% che il Fondo Monetario prevede per questo (la Banca d’Italia prevede invece lo 0,4%). L’essersi progressivamente avvicinata al pareggio di bilancio, raggiunto nel 2014 con un anno d’anticipo sulla tabella di marcia, non ha impedito alla Germania di essere il Paese più invidiato dell’eurozona. In Italia, secondo l’Istat, nell’ultimo trimestre del 2014 l’incidenza sul Pil delle uscite totali delle pubbliche amministrazioni è aumentata, dal 47,4 (2013) al 48% del Pil. Nei tre trimestri precedenti, il rapporto era rimasto invariato rispetto all’anno precedente. Si dirà che si è ridotto il denominatore, ovvero il Pil. Il che è verissimo, ma dimostra soltanto che la spesa pubblica è considerata una sorta di «variabile indipendente», com’era il salario per Luciano Lama.

Quello sull’austerità è un «dibattito filosofico-culturale», come ha detto Matteo Renzi al Parlamento europeo. Ma, quando affermano che l’«austerità ha fallito», i nostri leader politici chissà a quale Paese si riferiscono. Negli stessi Piigs, il fallimento non è affatto evidente. Della Germania meglio non dire. Quanto all’Italia, perché l’austerità potesse fallire, prima avremmo dovuto sperimentarla.

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Se rigore e riforme non bastano per crescere

Adriana Cerretelli – Il Sole 24 Ore

«Debole? No. L’aggettivo è superfluo, evitiamo i qualificativi». «Beh, tutto si può fare ma negare che oggi in Europa la crescita sia debole è ignorare la realtà». Il battibecco tra Angela Merkel e Matteo Renzi si svolge nel rassegnato silenzio generale intorno al tavolo dell’ultimo vertice di Bruxelles. François Hollande tace, risucchiato dalle disgrazie politiche in casa che ne fanno un fantasma in Europa. L’aggettivo naturalmente sparisce dal comunicato finale, dalle righe in cui si parla della situazione economica dell’Eurozona. In questo modo però la sua assenza diventa ancora più eloquente. Assordante. Perché dice che, siccome la Germania cresce meno ma cresce ancora e più degli altri, il problema non esiste a livello collettivo, è questione individuale, nazionale.

Ovviamente se il problema della crescita debole non è europeo, per risolverlo non servono iniziative europee e piani di investimento continentali: se e quando arriveranno, non potranno essere che una gentil concessione, un gesto più o meno simbolico, non certo la sferzata di rilancio necessaria a battere recessione, deflazione e disoccupazione che deprimono molti Paesi e cominciano a trascinare verso il basso anche la congiuntura tedesca, a rischio di recessione tecnica. Tutto questo significa anche, chiacchiere a parte, che le molle fondamentali dello sviluppo in Europa restano sempre le stesse, due e non tre, le solite. Cioè riforme strutturali e rigore, un po’ più temperato sì ma con estrema moderazione e la flessibilità delle regole Ue ridotta al minimo indispensabile. Evidentemente agli occhi del cancelliere tedesco la credibilità delle norme oggi è più importante della stabilità economica e finanziaria: di fronte ai mercati o all’elettorato tedesco?

La conferma che ben poco per ora è destinato a cambiare sotto il cielo europeo è arrivata del resto nelle ultime 48 ore. Alla fine Italia e Francia hanno evitato la clamorosa bocciatura delle rispettive leggi di bilancio per il 2015. Francia e Italia hanno ottenuto qualche margine di manovra in più vista l’avversa situazione economica in cui si trovano ma, per scongiurare una sanzione politica senza precedenti (che l’Europa poteva permettersi solo a proprio rischio e pericolo) hanno dovuto andare a Canossa, rassegnarsi a ridurre, a suon di miliardi in più messi in finanziaria, gli scostamenti dagli impegni che avevano previsto. Jirki Katainen, che sarà dal primo novembre uno dei due vice-presidenti Ecofin nella nuova Commissione Juncker, ha comunque immediatamente provveduto a rovinare la festa dissipando ogni possibile equivoco. Ha chiarito che lo sconto sarà una tantum: non varrà retroattivamente anche per l’anno in corso, quindi le verifiche di Bruxelles potrebbero anche concludersi con la comminazione di multe agli indisciplinati. Nessuna grazia nemmeno per altre deviazioni dalla retta via macro-economica. L’Italia è già nel mirino di una procedura Ue per superdebito ed eccessivi divari di competitività. Pacta servanda sunt : il concetto è impeccabile, difficile non condividerlo. Del resto il timore che una flessibilità di manica larga possa indurre i Governi ad allentare gli sforzi di risanamento e modernizzazione, nasce non dalla paranoia di pochi ma da un’esperienza consolidata.

La realtà però questa volta stride, deborda dalle gabbie giuridiche quando l’economia europea rischia la sindrome giapponese, elettroencefalogramma piatto per una decina di anni. Non si esce dal tunnel, ha avvertito il presidente della Bce, Mario Draghi, all’ultimo vertice Ue, con «la strategia della speranza». Se rigore e riforme sono urgenti e necessari, a patto di non farne indigestione, oggi da soli non bastano. Oltre a una politica monetaria accomodante e a un euro dal cambio più competitivo, ci vuole anche la crescita e al più presto, senza attendere i tempi fisiologici in cui la cura di risanamento darà i suoi frutti positivi. Altrimenti l’Europa finirà impiccata alle sue regole. Anche la Germania, che si illude di essere immune dai problemi altrui, ne pagherebbe lo scotto. Del resto già si avvertono i primi segnali.

L’austerità e i ministri di Pulcinella

L’austerità e i ministri di Pulcinella

Gaetano Pedullà – La Notizia

L’Europa vuol continuare a bastonare l’Italia. E non si deve nemmeno sapere. Che brutta uscita per Barroso, il presidente di una Commissione che ha governato gli anni più bui dell’Unione. Dopo averci spedito una lettera che apre di fatto il contenzioso tra Bruxelles e Roma sui conti pubblici, il capo dell’esecutivo comunitario in cerca di un nuovo ruolo politico a Lisbona se l’è presa con Renzi per aver divulgato la missiva. Come se fosse un segreto quello che hanno fatto Bruxelles e Strasburgo, Berlino e Francoforte per metterci in ginocchio. Austerità, politiche del rigore, una Banca centrale che si è mossa con colpevolissimo ritardo di fronte alla tempesta degli spread: c’è bisogno di custodire altri segreti di Pulcinella per oscurare il disastro che ci è stato procurato? Se l’Italia affonda – ribatteranno le anime belle – è perché non abbiamo fatto i compiti, siamo un Paese con regole bizantine e le riforme attendono da secoli. Vero. Ma il colpo di grazia non ce lo siamo dati da soli. E il tentativo di questa Europa nel coprire le sue responsabilità è la pistola fumante che inchioda l’assassino.

L’austerità sta fregando l’Europa

L’austerità sta fregando l’Europa

Gaetano Pedullà – La Notizia

Nella legge di stabilità varata ieri dal Governo c’è più benzina di quanta se ne sia vista nelle manovre degli ultimi tre anni tutte insieme. Dagli sgravi fiscali per chi assume al taglio dell’Irap, dalla conferma degli 80 euro al Tfr in busta paga, il piano è promettente e ambizioso. Naturale che a Bruxelles ce lo bocceranno. Il problema dell’economia in Europa è infatti l’Europa stessa, con questa maledetta politica dell’austerità che ieri ha presentato ancora una volta il conto. La Grecia fatica a rientrare del suo debito e con questa scusa i mercati hanno ricominciato a speculare e scommettere sul ribasso dei corsi obbligazionari e azionari. Gli spread sono ripartiti e le piazze finanziarie del vecchio continente hanno bruciato in una sola seduta 276 miliardi. Gli Stati Uniti, che ieri hanno visto Wall Street in calo ma che sono ormai da cinque anni consecutivi in crescita (nonostante la crisi finanziaria sia opera loro), se la ridono. Qui la Merkel ci impone politiche di rigore e la Bce continua a curarci con l’aspirina. Così siamo condannati a star sempre peggio. Qualunque siano le mosse di Palazzo Chigi.

Carta vince, carta perde

Carta vince, carta perde

Stefano Feltri – Il Fatto Quotidiano

Evviva, evviva: Matteo Renzi sfascia l’austerità, taglia le tasse di 18 miliardi, regala soldi alle imprese, infila la liquidazione in busta paga ai dipendenti, conferma gli 80 euro, favorisce le assunzioni, c’è perfino qualcosa per le partita Iva. Tutti felici e tutti grati al premier e al Pd: un utile consenso, casomai arrivassero presto le elezioni.

Qualche obiezione però dovrebbe essere lecita. Primo: le coperture sono, come sempre, all’italiana. Oltre 11 miliardi arrivano dall’aumento del deficit: come dire che la copertura non c’è. Ma visto che ormai siamo tutti keynesiani, chiudiamo un occhio. Però ci sono i tagli: non ai tanto odiati “sprechi”, visto che il commissario alla revisione Carlo Cottarelli è stato licenziato e il suo lavoro sepolto negli archivi. No, si taglia (poco) sui ministeri e (molto, 6,2 miliardi) su Regioni ed enti locali: solo chi è in malafede può sostenere che ci sia ancora grasso da asportare. Dopo quattro anni in cui lo Stato centrale ha sottratto oltre 40 miliardi a Regioni e Comuni, ogni ulteriore stretta ridurrà i servizi, visto che le tasse non si possono più alzare senza rivolte di piazza (anche se il ministro Padoan è favorevole a un aggravio delle imposte locali).

L’austerità è ottusa, non c’è dubbio. E va ridiscussa perché non sta funzionando. Ma ancora una volta l’Italia viola i suoi impegni, oggi su debito e domani sul deficit, e non per finanziare investimenti che creino la base della crescita dei prossimi anni, ma per una versione rinforzata della deludente “operazione 80 euro”. Legittimo, ma il crollo delle Borse di ieri sulle voci di elezioni anticipate e di rigetto del rigore in Grecia dimostra quanto fragile è la tregua concessa dallo spread. Spendere in deficit e sbertucciare Bruxelles è facile. La parte difficile è affrontare le sanzioni europee – ormai certe – e l’eventuale furia dei mercati. Oltre a quella dei cittadini, se dovessero scoprire che i regali della politica sono prestiti con tasso di interesse da usura.

Poche chiacchiere, servono i fatti

Poche chiacchiere, servono i fatti

Piero Ostellino – Corriere della Sera

Deve essere stata una bella soddisfazione – per molti italiani – apprendere che Renzi «alza la voce con la Merkel». Hanno certamente provato un brivido d’orgoglio – «finalmente gliele abbiamo cantate chiare» – pur augurandosi, lo spero, non si riveli analogo a quello provato dai loro nonni ai tempi in cui il capo del governo proclamava «spezzeremo le reni alla Grecia»; salvo prenderle, poi, di santa ragione persino dalla piccola Grecia. Io, che sono sufficientemente vecchio per ricordare sia le rodomontate del duce, sia, per averle vissute, le «dure repliche della storia» subite dall’Italia fascista e parolaia, non sono entusiasta di Renzi, come non lo ero, per tradizione familiare, di Mussolini. Resto dell’opinione che il ragazzotto fiorentino sia una sorta di Mussolini minore, tanto parolaio e velleitario quanto impotente.

Matteo Salvini, il segretario della Lega, dice che, se a Renzi non piace l’austerità imposta dalla Merkel all’Europa – incidentalmente, nell’interesse della Germania – o la ritiene sbagliata, deve evitare di adottarla. Il presidente del Consiglio, però, replica che, anche se la politica della Merkel fosse sbagliata, l’Italia la seguirebbe per dimostrare la propria coerenza. Ahimè, un’altra affermazione mussoliniana: «l’Italia andrà, coerentemente, fino in fondo». E, infatti, siamo affondati… Per tradizione antifascista della mia famiglia, e per formazione culturale, non mi piace l’idea di essere governato da un Mussolini minore.

Caro Renzi, lasci perdere le affermazioni tipo «l’Italia farà sentire la sua voce» – tra l’altro, questa, una fissazione della nostra politica estera – e vada al sodo. Sono disposto a credere che lei stia facendo, come dice Panebianco, un’operazione culturale – ciò che i suoi critici definiscono chiacchiere – prima che fattualmente riformista per cambiare la sinistra. Poiché sostengo da sempre che la nostra sinistra è culturalmente vecchia e, in quanto tale, di danno al Paese, approvo, caro Renzi, persino questo suo «riformismo da convegno». Di solito, in questi convegni, i politici dicono ciò che essi stessi dovrebbero fare, ma poi non fanno. Le auguro ugualmente di avere successo. Realisticamente, però, mi piacerebbe che lei facesse ciò che le suggerisce Salvini. Dica che «questa Ue» non le piace; che ne sogna un’altra – possibilmente, non una parodia dell’Unione Sovietica come l’attuale -, ne proponga la riforma e faccia in modo che l’Italia sia, europeisticamente, meno coerente, ma, machiavellianamente, più concreta. Se ha letto Machiavelli al liceo, ma se lo è scordato, almeno da fiorentino, lo rilegga. Male non le farà.