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La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

La partita Italia-Ue sulla crisi delle Banche

di Giuseppe Pennisi – Formiche

La crisi di alcuni istituti di credito italiani (grandi e piccoli) è sparita da circa una settimana dalle prime pagine dei giornali. Ad esempio, su Il Sole-24 Ore del 17 luglio solo una (quasi invisibile) breve a p. 17 riportava un comunicato dell’ufficio dell’alto rappresentate per la politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini, secondo cui ‘il Governo italiano e le autorità europee stanno lavorando positivamente’. Comunicato poco utile perché era da supporsi che le parti in causa stessero lavorando e da auspicarsi che stessero operando ‘positivamente’ verso un accordo.
In effetti, è in corso un negoziato la cui conclusione è tecnicamente semplice, sotto il profilo giuridico (basterebbe un’interpretazione estensiva per un periodo determinato – ad esempio sino al termine del 2016 – per l’applicazione di alcune regole delle direttiva sui dissesti bancari), ma politicamente molto difficile.

In primo luogo, il Governo italiano è stato oggettivamente indebolito dai risultati delle elezione amministrative, è alle prese con la riapertura del dibattito sulla legge elettorale, sta perdendo quota nei sondaggi di un referendum per il quale non è stata ancora stabilita una data ed ha la necessità di giungere ad un accordo ‘bancario’ con l’Ue nel più breve tempo possibile. Tanto il Governo italiano quanto quelli del resto dell’Ue e la stessa Commissione europea (Ce) sanno che le famiglie italiane hanno nei loro portafogli 200 miliardi di euro che, in mancanza di soluzione positiva dei negoziati con l’Ue, verrebbero triturati dal bail in, rendendo ancora più forti le opposizioni all’attuale Esecutivo.

In secondo luogo, la Ce vorrebbe dare una mano al Governo italiano (anche perché non vede alternative all’orizzonte) ma perderebbe di brutto la faccia (dopo la ha già persa giù un paio di volte negli ultimi mesi) se regole appena introdotte con la ratifica di tutte le parti in causa venissero applicate in modo lasco alla loro prima prova per favorire uno ‘degli Stati fondatori’ subito dopo la Brexit.

In terzo luogo – come spiega bene David Schäfer della London School of Economics nel saggio pubblicato nell’ultimo fascicolo del Journal of Common Market Studies – ‘unione bancaria’ si basa sull’’ordoliberalismo’ (il liberalismo delle regole) proprio con il fine (più volte ribadito da Berlino) ‘di rompere il circolo vizioso tra Stati e sistema bancario’. Poco importa se in passato i Länder della Confederazione – non le autorità federali- siano intervenute in aiuto di casse di risparmio e di banche di cui i Länder sono azionisti di riferimento: è un problema di ciascun singolo Land non del Governo federale. Per tale motivo si tratta di istituti non soggetti alla vigilanza della Banca centrale europea ed in gran misura al di fuori dell’unione bancaria.

In quarto luogo, nonostante la buona volontà ai piani alti della Ce e nonostante la disponibilità della Germania a stendere una mano pietosa all’Italia, siamo alla prese con un accordo inter-governativo in cui , salvo fare un ricorso alla Corte di Giustizia Europea (ed avere una sentenza definitiva tra tre-cinque anni), pesa anche il parere degli altri firmatari. Non pochi di loro leggendo i rapporti dalle loro ambasciate a Roma, oppure i giornali italiani ed alcuni quotidiani internazionali, non hanno fiducia in un Governo ed in Parlamento che alla firma ed alla ratifica del trattato di Maastricht si sono impegnati a portare il rapporto debito pubblico: Pil dal 105% al 60% entro un tempo ragionevole e venticinque anni dopo supera il 130% . Un debito pubblico molto elevato in rapporto al prodotto nazionale lordo – è noto- è un nemico della stabilità finanziaria , elemento essenziale per un buon funzionamento del sistema bancario. Infine, non pochi Stati del club dell’unione bancaria, notano che i flebili segni di ripresa in Italia si sono smorzati e si chiedono come possa il sistema bancario riprendere a funzionare bene in un’economia che ristagna o scivola in stagflazione.

Verso la Legge di Bilancio

Verso la Legge di Bilancio

di Giuseppe Pennisi – Formiche

Quest’anno la Legge di stabilità, che ha sostituito la quella finanziaria ma ha avuto vita relativamente breve, sparisce e viene assorbita dalle Leggi di bilancio. Un ottimo fascicolo tecnico predisposto dai servizi di bilancio della Camera e del Senato illustra gli aspetti tecnico-contabili del cambiamento. Da un lato, il cambiamento amplia la flessibilità del bilancio in fase sia di formazione sia di esecuzione dello stesso. In particolare, introducendo la tassonomia delle spese rimodulabili e non rimodulabili, prevede per le prime la possibilità di variazione degli stanziamenti, nell’ambito di limiti relativi alla natura economica della spesa e all’invarianza complessiva dei saldi. Dall’altro, rende più rigorosa l’applicazione di serie coperture delle spese proposte nel documento.

Come tutti i cambiamenti, anche questo comporta l’approfondimento e l’apprendimento di nuove procedure. Se – come ogni anno – il negoziato tra le parti politiche (e con le forze sociali) sui contenuti del bilancio inizia in giugno, entra nel vivo in luglio e, dopo una pausa in agosto, diventa frenetico in settembre, quest’anno, nella premessa della trattativa, c’è il risultato delle elezioni amministrative e, nella prospettiva a breve termine, c’è il referendum sulla riforma istituzionale, in cui il presidente del Consiglio è impegnato in prima persona. Lasciamo da parte l’esito delle elezioni amministrative (già commentato ampiamente) e soffermiamoci sulle date essenziali. Il disegno di legge di bilancio deve essere varato dal Consiglio dei ministri entro il 30 settembre e presentato alle Camere. In occasione delle celebrazioni dei settant’anni dalla nascita della Repubblica, il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha anticipato che il referendum si terrà il 2 ottobre, san Francesco Patrono d’Italia.

L’accavallarsi (quasi) di disegno di Legge di bilancio e di una riforma istituzionale su cui il governo ha impegnato il proprio futuro ha implicazioni che meritano delle riflessioni. Da un canto, il disegno di Legge di bilancio è l’occasione – forse la sola – per il governo di accontentare aspettative, anche le più legittime, di un elettorato sempre più anziano e di far prospettare che ciò avverrà tramite emendamenti – supportati dall’esecutivo – durante l’iter parlamentare. Da un altro, il maggior rigore nella copertura delle spese (e la situazione di finanza pubblica e del debito pubblico del Paese) rendono tutto ciò più difficile che nel passato. Inoltre, in un contesto in cui la crescita economica non prende vigore e la disoccupazione non flette, scontentare le attese che l’elettorato ritiene legittime può avere effetti molto significativi quando gli stessi elettori andranno a votare a un referendum che ha comunque assunto colori plebiscitari. Non è un caso che in giugno siano state riprese trattative sul riassetto delle pensioni e si è ventilato un programma di rilancio delle infrastrutture tale da includere pure il ponte sullo stretto di Messina. Due temi a cui parti differenti – e anche divergenti – dell’elettorato sono molto sensibili.

L’anno scorso la Legge di stabilità è stata presentata all’insegna di una forte richiesta di flessibilità alle autorità europee. Questo sarà molto più difficile. Tra l’altro, lo spiega bene il lavoro di Paul De Grauwe e Yuemei Ji Flexibility versus stability: a difficult trade-off in the eurozone (Ceps working paper No 422, 2016), non solo per quanto detto a maggio dalla Commissione europea, ma perché la flessibilità di un Paese altamente indebitato rischia di mettere a repentaglio l’intera costruzione dell’area dell’euro. Parimenti, in una fase in cui pare si scivoli in recessione, un rilancio degli investimenti pubblici è senza dubbio necessario, purché vengano scrutate con attenzione le priorità relative, come ribadito nel recente documento della Banca mondiale (No 7674) Priorítizing infrastructure investment. A framework for government decision making.

Come fare la Spending Review?

Come fare la Spending Review?

di Gabriele Rosana – Formiche.net

«Una spesa pubblica fatta bene, e per evitare una condanna a vent’anni, si può fare». Stavolta, però, le patrie galere e la legislazione anticorruzione a tamburo battente – anche se si tratta di denaro pubblico – c’entrano poco. «La condanna a vent’anni» di cui parla Giorgio La Malfa è la sentenza emessa nei giorni scorsi dal Fondo monetario internazionale sullo stato di salute dell’economia italiana, secondo cui il nostro Paese, al ritmo di crescita previsto dal governo, tornerebbe ai livelli di produttività pre-crisi del 2007 «solo a metà degli anni Venti». In mezzo, due decenni andati in fumo.

L’ex ministro tira in ballo la profezia dalle tinte fosche degli osservatori dell’Fmi nell’introdurre giovedì scorso al pubblico romano – nella sala della Fondazione Ugo La Malfa, a due passi da Torre Argentina – il volume di fresca pubblicazione degli economisti Giuseppe Pennisi e Stefano Maiolo “La buona spesa: dalle opere pubbliche alla spending review”, primo libro edito dal centro studi ImpresaLavoro in cartaceo e in formato ebook. Una guida operativa dal sapore liberale e pro-mercato che ha come destinatari privilegiati coloro che gestiscono la spesa pubblica dello Stato ma – e forse soprattutto – delle Regioni e degli enti decentrati, perché, come insiste Pennisi – una vita fra Banca mondiale, ministeri e docenze italiane – è indispensabile ricorrere a metodi e tecniche per valutare investimenti e opere pubbliche, senza lasciare nulla al caso e all’improvvisazione. Ma non solo. Perché il testo «non è un libro di teoria economica ma una guida» rivolta a un pubblico anche di non addetti ai lavori, scritta con linguaggio accessibile e non tecnico su come valutare correttamente e tagliare efficacemente la spesa pubblica, riconvertendola a virtù ad essa oggi estranee, indicando – continua Pennisi – «i metodi migliori per scremare lì dove si annidano sprechi e costi della politica. Per quale motivo non si riesce a ridurre la spesa pubblica e tutti i commissari del governo dediti alla spending review falliscono?». Una dopo l’altra son rotolate le teste di Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio e Carlo Cottarelli. «I fautori della spending review altrove nel mondo operano all’interno dell’autorità statale: dovrebbe cioè essere un impiego della Ragioneria dello Stato, non di un commissario ad hoc» annota Pennisi.

Stefano Maiolo, coautore del testo e componente del nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio, rileva che l’allergia alle pagelle è ben radicata nel corredo genetico del Belpaese: «Il timore della valutazione è diffuso sin dalla tenera età, come dimostra la vicenda del boicottaggio dei test Invalsi promossi dall’Ocse fra i banchi di scuola». Ma per tornare alle colpe “dei grandi” – quegli stessi “grandi” che scansano i compromessi intergenerazionali e privilegiano gli interessi correnti – Salvatore Zecchini, docente a Tor Vergata e alla testa del gruppo di lavoro Ocse sulle Pmi, punta il dito contro «i ministri che non vogliono valutare, perché temono che con la valutazione si giunga a un giudizio nel merito delle loro scelte di spesa».

Una vecchia illusione, quella di comprimere la spesa pubblica, benché vi sia almeno un 20% di margine di manovra – secondo l’ottimistica visione di Giarda, il primo incaricato dell’ufficio chirurgico – insiste La Malfa: «Può mai un governo alienarsi corpose categorie sociali che vanno alle urne?». I repubblicani, in fondo, non erano un partito di massa e «qualche scelta coraggiosa potevano pure prenderla…» «Tagli alla spesa pubblica, meno imposte e reimpiego in investimenti» è la risposta tranchant di Zecchini a chi invoca la cura Giavazzi di abolizione degli incentivi alle imprese. E, insieme, porre le basi per una cultura della valutazione «che prenda le mosse dai dati e dalla formazione di chi è addetto a gestire le politiche pubbliche: occorre colmare i vuoti di conoscenza quanto ai metodi, ma anche pretendere che i beneficiari di investimenti forniscano le informazioni indispensabili per valutare il finanziamento». E certo queste linee guida, per molte Regioni e enti locali, imporrebbero come prerequisito anche solo una semplice programmazione.

Ma il faro perpetuo a cui guardano gli autori de “La buona spesa” è l’intramontabile Ronald Reagan: fu lui a volere negli Stati Uniti una delle poche leggi mai più cambiate nell’ordinamento a stelle e strisce, sottolinea Pennisi, e cioè quella che obbliga «tutti i settori del governo e le agenzie pubbliche a corredare i propri interventi di spesa con analisi costi/benefici», sino a giungere alla valutazione degli impatti, all’analisi del rischio e alla valutazione come condizione essenziale per ogni decisione ponderata. «Revisione della spesa pubblica, del resto, vuol dire puntare a una spesa di qualità: non tagli indiscriminati ma cosa fare, come e perché».

Come fare una buona spesa, i consigli del Prof. Pennisi

Come fare una buona spesa, i consigli del Prof. Pennisi

Simone Bressan* – Formiche.net

cop_pennisi_def2Spending review è un termine anglosassone di cui fino a poco tempo fa l’opinione pubblica ignorava persino l’esistenza. Non c’è da stupirsi, visto che dalle nostre parti la spesa pubblica è sempre aumentata in maniera allegra e incontrollata. I vincoli economici imposti dall’Unione europea ci hanno però recentemente costretto ad accoglierla nel lessico corrente. Peccato, però, che al suo sempre più vasto e gratuito utilizzo non siano poi seguiti risultati concreti apprezzabili, e questo nonostante le altissime aspettative suscitate dalla nomina di ben cinque commissari governativi ad hoc: Piero Giarda, Enrico Bondi, Mario Canzio, Carlo Cottarelli e ora Yoram Gutgeld. Questione di scelte politiche, certo, ma anche di una cultura della spesa pubblica ancora largamente insufficiente.

Lo dimostra ad esempio la scarsa o nulla attenzione che la politica italiana ha a suo tempo prestato al programma quinquennale di spending review presentato al Parlamento di Westminster dal Cancelliere dello scacchiere britannico George Osborne (uno dei principali contendenti per un alloggio al No. 10 di Downing Street alle prossime elezioni politiche). Eppure, è stato uno dei temi principali di discussione non solo del Regno Unito, ma anche degli Stati Uniti e della Francia (dove il “rientro” nei parametri europei di rapporto tra indebitamento e Pil sta riportando in auge quel “Programme de rationalisation des choix budgetaires” che negli Anni Ottanta fu uno di principali strumenti che portarono all’accordo del Louvre sul cambio fisso tra franco francese e marco tedesco).

Alla sua base c’è un concetto forte: quello dello Enabling State. Non è concetto nuovo: lo elaborò teoricamente Sir John Elvidge quando nel 2012 era fellow del Carnegie Institute, ma è stato divulgato dal saggio “The Enabling Society”di Peter Hicks del 2015. In buona sostanza afferma il principio che i compiti dello Stato nella sfera economico-sociale sono quelli di permettere a ciascuno di dispiegare a pieno le proprie capacità, anche quelle solo potenziali. È un concetto liberale che permette di attuare una spending review che non sia una caccia a politici e funzionari “spreconi”, ma che fornisca una base forte che può essere declinata anche in parametri quantitativi. Resterebbe confinato in un mero dibattito intellettuale se non venisse espresso in obiettivi precisi. Dalle tabelle e dai grafici nel documento portato da Osborne in Parlamento, si mostra invece che lo si può raggiungere facendo fare una svolta a ‘U’ alle tendenze della spesa pubblica: in percentuale del Pil questa dovrebbe passare dal 45% nel 2010 al 36% nel 2020. I traguardi vengono monitorati ogni anno dall’Office for Budget Responsability.

A titolo di raffronto, in Italia la spesa delle pubbliche amministrazioni è pari al 51% del Pil e i documenti di Governo auspicano di portarla al 47% nel 2018, anno della scadenza naturale della legislatura. In breve, partiamo da una situazione molto più grave delle Gran Bretagna: per oltre sei mesi lavoriamo per fornire risorse alla pubblica amministrazione, che li intermedia in base a vari obiettivi. Soprattutto, i vari tentativi di spending review di questi ultimi anni hanno documentato inefficienze e spese, pagate con un aumenti tributari e para-tributari a carico dei cittadini e delle imprese. Occorre, però, un programma chiaro del Governo con traguardi specifici e monitorabili. Non tutti i traguardi saranno condivisibili da un elettorato uso a mance elettorali. Non sarebbe realistico l’obiettivo di ridurre di dieci punti percentuali l’incidenza della spesa pubblica sul Pil, nel contesto di un’Italia che non cresce o cresce poco e ha comunque una vasta area (il Mezzogiorno) in condizioni arretrate. Per i primi anni, si deve porre un obiettivo più contenuto – da modificare, però, quando, anche grazie ad un Enabling State più efficace, più efficiente e più snello, la crescita riparte e si mantiene a livelli (attorno al 2,5%) compatibili con la struttura demografica e produttiva del Paese.

Il concetto di base della spending review annunciata dal Cancelliere dello scacchiere resta però valido. Non è neanche necessario creare un Office for Budget Responsability come in Gran Bretagna poiché è missione specifica della Ragioneria generale dello stato (Rgs), specialmente se all’ufficio studi vengono affidati i compiti per cui è stato concepito. Inoltre, l’Ufficio parlamentare di bilancio (Upb), di recente istituzione, può aiutare il Parlamento a stimolare e vigilare Rgs e Governo tutto (specialmente i Ministeri di spesa). L’Italia è stata per decenni plasmata dal pensiero della scuola liberale di scienza delle finanze (si pensi a Benvenuto Griziotti) che – con quella svedese – ha preceduto americani, britannici e francesi nell’elaborazione di teorie, metodi e procedure di valutazione. Dispone inoltre di un migliaio di dirigenti e funzionari pubblici formati presso la Scuola nazionale di amministrazione (Sna) tra il 1995 ed il 2007, quando la direzione della Sna decise di chiudere questa linea di attività. Metodi e tecniche vengono applicati principalmente agli investimenti in opere pubbliche, i quali hanno un effetto di breve periodo (attivare capacità produttiva non utilizzata) e uno di medio e lungo periodo (migliorare il capitale sociale e quindi la produttività).

Recenti studi della Banca d’Italia e della Banca europea per gli investimenti documentano come nel nostro Paese imprese, lavoratori e cittadini siano penalizzati dal pessimo stato delle infrastrutture e della mancanza di finanziamenti per realizzarli, nonché dalla carenza di strumenti operativi per valutarne effetti e redditività finanziaria e sociale. Inoltre la spesa pubblica per infrastrutture è scesa a poco meno dell’1,5% del Pil, rispetto al 3,5% del Pil negli anni Ottanta (in linea con la media Ocse di allora, leggermente caduta oggi in buona misura a ragione della riduzione nell’Eurozona e più particolarmente in Italia) e del 2,5% alla fine degli anni Novanta (in gran parte a ragione della contrazione della spesa pubblica per poter essere ammessi nell’Eurozona). Dall’inizio della crisi finanziaria ad oggi, la spesa pubblica in conto capitale ha subìto una riduzione del 40% circa. Ridotta a livelli così bassi la spesa, ci si concentra necessariamente su piccoli interventi di completamento e manutenzione straordinaria. Utili e spesso urgenti (si pensi alle strade di Roma Capitale), ma ben lontane dall’afflato che si aveva quando, ad esempio, negli anni Sessanta il traforo del Monte Bianco venne costruito in appena tre anni e l’autostrada del Sole ci veniva invidiata in tutto il mondo.

Consapevole della rilevanza assoluta di questo tema, il Centro studi ImpresaLavoro ha deciso così di pubblicare “La Buona Spesa”, una guida operativa elaborata da Giuseppe Pennisi (economista di vaglia internazionale e presidente del board scientifico di ImpresaLavoro) e Stefano Maiolo (componente del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici della Regione Lazio). Il suo obiettivo dichiarato è quello di diffondere – grazie a un linguaggio semplice e accessibile a tutti – la conoscenza dei corretti metodi di valutazione della spesa pubblica.

Disponibile su Amazon in versione sia cartacea sia digitale, questo testo tiene conto dei metodi più avanzati per la valutazione delle opere pubbliche ed è il risultato di oltre 30 anni di ricerche e di applicazioni nelle materie specifiche della valutazione, che non può più restare una “riserva di caccia” per esperti. Incorpora regole e direttive nazionali ed europee attualmente in vigore e si propone come uno strumento essenziale per la migliore utilizzazione dei fondi comunitari. Mette l’accento sulla spesa in conto capitale perché è il comparto con maggiori esempi e casi di studio, ma indica come – seguendo ad esempio l’esperienza degli Stati Uniti – metodi e procedure possono essere applicati anche alle spese di parte corrente.

Più che di un nuovo manuale tecnico si tratta, insomma, di uno strumento di lavoro utilizzabile da chiunque. A differenza di altri testi in commercio (nati per corsi universitari e post-universitari), questo lavoro parte, infatti, dalla premessa implicita che gli italiani in generale, e soprattutto i dirigenti e funzionari della Pubblica amministrazione che prendono le decisioni di spesa, quasi mai sono tecnicamente attrezzati per effettuare in prima persona valutazioni economiche quantitative. Spesso, infatti, il loro compito si limita a prendere atto di quanto suggeriscono loro consulenti ed esperti. Un limite che va superato.

* Direttore del Centro studi ImpresaLavoro

 

Verso un sistema  previdenziale “europeo”

Verso un sistema previdenziale “europeo”

Giuseppe Pennisi – Formiche

Si può rimettere mano al sistema previdenziale tenendo in conto principalmente le esigenze delle giovani generazioni? Il tema è anche una chiave per la sopravvivenza dell’unione monetaria e della stessa Unione europea. Infatti, l’unione monetaria è stata concepita come un percorso a tappe obbligate per giungere a quella che gli economisti chiamano un’area valutaria ottimale, caratterizzata da effettiva mobilità dei fattori di produzione (capitale e lavoro), oltre che di beni e servizi. Anche ove si superassero difficoltà linguistiche e culturali, tale effettiva mobilità è impedita, per il lavoro – ora che si sono superate quelli attinenti strettamente al diritto del lavoro – a sistemi previdenziali  profondamente differenti in termini di accesso, livello, e amministrazione delle prestazioni (per citare gli aspetti più salienti). Sono il frutto di percorsi storici e sistemi di sicurezza sociale molto diversi.

Esiste, è vero, una rete (o meglio una ragnatela o un labirinto) di accordi bilaterali per le pensioni statali – o comunque pubbliche – oltre a una direttiva europea per facilitarne l’attuazione. Tuttavia, se un lavoratore dell’Ue, in caso di difficoltà di occupazione per la sua professione, richiesta invece in un altro Paese, si spostasse dove c’è domanda (come avviene, ad esempio, negli Stati Uniti) subirebbe molto probabilmente una perdita secca (e anche forte) in termini di tutela previdenziale. Quindi, la sua mobilità verrebbe frenata. Con un costo, in termini di occupazione e reddito per l’individuo e di produttività, per l’intera Ue.

Come uscirne? Da circa 12 anni, la strada è stata tracciata in una conferenza internazionale, organizzata dalla Banca mondiale e dall’Istituto di previdenza sociale svedese (con folta ed attiva partecipazione di esperti italiani), e tenuta nell’isola di Sandhamn, nell’arcipelago baltico a circa un’ora di navigazione da Stoccolma. Il percorso è quello di una graduale convergenza dei vari Stati dell’Ue verso quello che, in gergo tecnico, viene chiamato un sistema Notional defined contribution (Ndc), in effetti un sistema contributivo figurativo, modellato su quelli messi in atto da Italia e Svezia, quasi contemporaneamente, pur se distintamente (e senza consultazioni o coordinamento) nella primavera del 1995. Da allora è adottato gradualmente da oltre una ventina di Stati, tra cui gran parte dei nuovi aderenti all’Ue.

Il messaggio principale delle maggiori organizzazioni è che, pur basate sull’Ndc, le pensioni statali o comunque pubbliche sono solamente una promessa che non potrà essere soddisfatta se il quadro economico non migliora in misura significativa, sempre in balìa di governi e parlamenti che guardano a riforme delle pensioni anche (ove non principalmente) per fare cassa.

Tale promessa, alle prese con un costante rischio politico, deve essere affiancata da fondi pensione anch’essi gradualmente europei, soggetti sì al rischio finanziario ma, se sufficientemente grandi e diversificati, in grado di minimizzarlo, cosa che non possono fare i 700 lillipuziani fondi pensione nostrani, tra quelli di vecchia e quelli di nuova generazione. Per di più, tali fondi andrebbero incoraggiati fiscalmente, non penalizzati (come si è fatto di recente) per essere in linea con standard, criteri e direttive europee (una seconda direttiva europea sulla previdenza complementare è in avanzata fase di preparazione).

L’Italia è stato uno dei primi due Paesi a mettere in atto un sistema previdenziale Ndc. Ha l’opportunità di avere un ruolo importante nella costruzione di un sistema previdenziale Ndc europeo, se effettua i correttivi necessari per incoraggiare la previdenza privata. Ovviamente, tenendo i conti previdenziali – pubblici o privati – ben distinti da spese assitenziali per anziani non capienti, che per loro natura devono essere a carico della collettività (come avviene nel resto del mondo), non si contribuisce alla previdenza per la tarda età.

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Perché il fondo salva imprese non è (forse) una Nuova Gepi

Giuseppe Pennisi – Formiche

Il 25 maggio sono stati distribuiti due documenti, del tutto distinti e distanti, ma tra i quali c’è un messo probabilmente non notato dagli autori. Il primo è un’analisi del piccolo ma dinamico Centro Studi ImpresaLavoro sulla dinamica della spesa pubblica negli anni delle varie e numerose spending review. Il secondo è il decreto legge sulla nuova società a partecipazione statale variamente chiamata “turnaround” (la svolta) o “salva aziende” e spesso considerata come una nuova Gepi.

I due testi si prestano a una lettura parallela o simultanea in quanto il primo (quello di ImpresaLavoro) fornisce la cornice in cui situare il secondo (la nuova società a partecipazione statale).

L’analisi di ImpresaLavoro sottolinea che, durante la crisi degli ultimi sette anni, la spesa pubblica in Italia è cresciuta in rapporto al Pil dal 47,8% del 2008 al 51,1% del 2014: un balzo in avanti di 3,3 punti percentuali superiore sia alla media dei Paesi dell’Unione Europea UE (+1,6%) che a quelli della sola Area Euro (+2,6%).

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Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con  cura le pensioni

Cari Renzi, Poletti e Boeri, maneggiate con cura le pensioni

Giuseppe Pennisi – Formiche

Ai tempi del governo Letta (quando Matteo Renzi non era ancora Segretario del PD e le “larghe intese” sembravano destinate a durare per l’intera legislatura), a un conversazione tra amici economisti, l’allora ministro pro-tempore (peraltro breve) Enrico Giovannini affermò che dopo avere messo mano al mercato del lavoro (si era appena in parte risolta la questione degli “esodati”) avrebbe rivolto il proprio il proprio pensiero e le proprie energie ad una nuova “riforma delle pensioni”. Si levò, dagli altri commensali, un ‘coretto a cappella’: Enrico non farlo; nessun Paese regge una riforma della previdenza l’anno, le informazioni su futuro delle pensioni sono la determinante che più incide sui comportamenti dei cittadini-elettori poiché ti diventare prima o poi pensionati.

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Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Renzi sul tetto previdenziale che scotta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Le pensioni scottano. Specialmente in questi giorni in cui il Consiglio dei Ministri deve decidere che risposta dare alla sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione, a quella sui contributi di solidarietà attesa per giugno ed alla marea di ricorsi che si annunciano. In passato, anche gli avversari, hanno riconosciuto al Presidente del Consiglio una grande capacità di trasformare momenti di crisi in opportunità. Adesso, la “crisi previdenziale” gli offre un’occasione d’oro. I suoi solerti collaboratori hanno certamente portato alla sua attenzione il saggio di Karen Anderson e Michael Kadeing “European Integration and Pension Policy Changes: Variable Patterms of Europeanization in Italy, the Netherlands and Belgium” uscito nelVol 563 N.2 (ppa.231-253) del British Journal of Infustrial Relations.

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Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della   Consulta

Pensioni Inps, chi ciurla nel manico della Consulta

Giuseppe Pennisi – Formiche

Da quando è iniziato il noir della Consulta e della previdenza mi sono chiesto chi è Il Terzo Uomo di questa puntata della saga pensionistica. Vi ricordate il film di Carol Reed da cui Graham Green, autore della sceneggiatura, trasse un romanzo (uscito un anno dopo il thriller cinematografico? Joseph Cotten ed Alida Valli sanno che c’era certamente un “terzo uomo” accanto al carro funebre in cui sarebbe stata la salma di Orson Wells. L’intero avvincente film riguarda la ricerca del Terzo Uomo, il personaggio interpretato da Orson Wells non solo non è stato ucciso come si pensava dopo le prime inquadrature ma sarà lui ad assassinare il portiere dello stabile in cui abita poiché costui era l’uomo che sapeva troppo.

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Renzi non può pensionare la previdenza

Renzi non può pensionare la previdenza

Edoardo Petti – Formiche

L’orizzonte del regime previdenziale italiano appare più che mai ricco di incognite. A complicare un panorama che dal 1992 ha conosciuto ben sei riforme sono la bocciatura ad opera della Corte Costituzionale del blocco dell’adeguamento all’inflazione per le pensioni lorde superiori a tre volte il livello minimo, e la proposta di rendere flessibile l’abbandono del lavoro vincolato a una sensibile penalizzazione finanziaria rilanciata dal presidente dell’INPS Tito Boeri.

Temi che sono stati analizzati in un convegno promosso presso il CNEL dal Centro Studi ImpresaLavoro guidato da Massimo Blasoni.

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