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L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

L’Italia dei dipendenti pubblici. Boom di statali nelle regioni a statuto speciale. Ma anche quelle del Mezzogiorno sono oltre la media

La Notizia

Un’analisi del Centro studi ImpresaLavoro, realizzata su dati della Ragioneria Generale dello Stato e dell’ISTAT, evidenzia come le regioni a Statuto speciale siano quelle con la maggior concentrazione di dipendenti pubblici rispetto alla popolazione residente. A guidare questa classifica è la Valle d’Aosta con 11.909 dipendenti, pari al 9,26% dei residenti. Significa che un valdostano su dieci (bambini e anziani inclusi) campa di denaro pubblico. A seguire il Trentino Alto Adige (78.868 dipendenti, pari al 7,50% dei residenti) e il Friuli Venezia Giulia (85.610 dipendenti, pari al 6,96% dei residenti). Subito dietro si collocano il Lazio, che sconta l’elevato numero di sedi istituzionali presenti a Roma (396.865 dipendenti pari al 6,76% dei residenti) e un’altra regione a Statuto speciale come la Sardegna (109.066 dipendenti, pari 6,56% dei residenti). Per converso le regioni più grandi ed economicamente più sviluppate presentano tassi di presenza di dipendenti pubblici nettamente più bassi: 4,11% in Lombardia, 4,55% in Veneto e 4,92% in Piemonte. Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, anche la Campania ha un rapporto non altissimo (4,99%) di dipendenti pubblici in rapporto ai suoi residenti e comunque minore di quello che si registra in Emilia Romagna (5,09%), nelle Marche (5,23%), in Umbria (5,49%) e in Toscana (5,51%).

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Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

Negli ultimi 10 anni rimesse per 60 miliardi di euro

La Notizia

Una cifra davvero ragguardevole. Dal 2005 al 2014 le rimesse dei lavoratori stranieri in Italia ai loro Paesi di origine hanno raggiunto la cifra considerevole di quasi 60 miliardi di euro (per la precisione 59 miliardi e 266 milioni). Lo rivela un’analisi del Centro Studi “ImpresaLavoro” su elaborazione di dati Bankitalia. Osservando la ripartizione per anno, si osserva come la crisi economica italiana abbia comportato negli ultimi anni una significativa contrazione delle somme inviate da questi lavoratori alle loro famiglie di origine: dai 7,394 miliardi del 2011 ai 6,833 miliardi del 2012 (­7,6%) fino ai 5,533 miliardi del 2014 (­38%).

I residenti in Italia – fenomeni sbarchi a parte – dal canto loro aumentano e si avvicinano a quota 5 milioni (l’8% circa della popolazione). La comunità più numerosa è quella dei rumeni (presenti in oltre un milione, il doppio rispetto ad albanesi e marocchini, gruppi entrambi sotto le 500mila unità) e conferma il sorpasso sui residenti cinesi (la quarta nazionalità più numerosa, sono circa 260mila) quanto a valore delle rimesse: circa 880 milioni contro 820. Proprio le rimesse dei cinesi – dai dati che mergono dall’ultimo studio della Fondazione Moressa sulle “Rimesse verso l’estero degli immigrati in Italia” – lo scorso anno hanno regisrato la contrazione più forte (­26%) e ora la cifra con cui contribuiscono al benessere dei parenti rimasti a casa è pari a meno di un terzo rispetto a quella spedita nel 2012 (circa 2,7 miliardi). Nel complesso, a fronte di alcune nazionalità che hanno incrementato gli importi (Romania, Bangladesh, Marocco, Senegal, Perù e Sri Lanka), sono soprattutto i cinesi ad aver determinato la contrazione delle rimesse nel 2014 (­4%).

 

 

Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Produttività, l’Italia perde punti preziosi

Carola Olmi – La Notizia

L’Istat ha recentemente certificato che il costo del lavoro in Italia è in linea con la media europea. Dal 2007 stiamo assistendo a una compressione dei salari reali che, in linea teorica, potrebbe rendere le nostre imprese più competitive sui mercati internazionali. Per comprendere se un Paese sia più o meno competitivo, occorre però analizzare il livello non soltanto dei salari reali ma anche quello della produttività. E in Italia questa è sensibilmente diminuita.

Le cause sono sia la scarsa attitudine delle nostre imprese e dello Stato a investire in ricerca e sviluppo sia la crescita a un ritmo sempre più basso dello stock di capitale utile alla produzione (un dato che serve a capire se le imprese continuano a investire nell’impresa). Significa che senza innovazione non si possono fare passi avanti nella produttività, ma anche che senza investimenti non avremo mai alcuna innovazione. Lo dimostra una ricerca realizzata dal Centro studi “ImpresaLavoro” presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni.

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Lavoro, una riforma prematura

Lavoro, una riforma prematura

Gaetano Pedullà – La Notizia

Una riforma che guarda a sinistra ma non vede lontano. L’abolizione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa, gli ormai famosi co.co.co., insegue un principio giusto: basta con le scappatoie che favoriscono il precariato. E basta con il lavoro palesemente subordinato spacciato per prestazione autonoma o a progetto. Detto questo, il successo delle forme contrattuali nel mirino del ministro Poletti testimoniano come le imprese ancora oggi non abbiano molta scelta nelle assunzioni. La rigidità nella prosecuzione del rapporto anche in caso di difficoltà da parte delle aziende, scoraggiano le assunzioni a tempo indeterminato. E siccome non è vero che le famiglie (e le imprese) si stanno arricchendo – come sostiene il premier – la rincorsa del giusto obiettivo di ridurre la precarietà rischia di rivelarsi un boomerang. La ripresa infatti è ancora lontana e smantellare con tanta fretta uno dei maggiori elementi di flessibilità contrattuale è una mossa prematura. Partiti di sinistra e sindacati ne faranno una bandiera, ma l’effetto concreto sul mercato del lavoro rischia di essere negativo, proprio mentre la crescita all’orizzonte spingerebbe le imprese a investire di più. Un azzardo.

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Camera, lo spreco siede sulle poltrone Frau

Carmine Gazzanni – La Notizia

Non c’è niente da fare. Dopo annunci e strombazzamenti vari, sprechi e spese colossali continuano tranquillamente ad entrare a Montecitorio e, come se non bastasse, ad accomodarsi su comode poltrone Frau per le quali, soltanto negli ultimi sei mesi del 2014, la Camera dei Deputati ha speso oltre 18 mila euro. Non è, questo, che uno dei tanti esempi che si potrebbero fare delle tante spese che Montecitorio ha collezionato nell’ultimo semestre dell’anno appena trascorso, i cui dati sono stati resi pubblici ieri. Ma la conclusione è una soltanto: rispetto allo stesso periodo del 2013 la spesa per beni, servizi e forniture è aumentata di ben 5 milioni di euro. Alla faccia della spending review. Tanto che, anche facendo un calcolo complessivo sulla spesa annuale, quello che era stato annunciato come un taglio poderoso, alla fine si è risolto in un taglietto: siamo passati dai 121 milioni spesi in forniture, beni e servizi del 2013 ai 118 milioni del 2014.

Ma entriamo nel dettaglio. Secondo le tabelle visionate da La Notizia, nel periodo luglio-dicembre 2014 la Camera dei Deputati ha speso oltre 16 milioni di euro (che si aggiungono ai 102 milioni del primo semestre, periodo durante il quale fisiologicamente le spese sono più alte per via di contratti, appalti e via dicendo) contro gli 11 invece spesi nello stesso periodo del 2013. Ma, come spesso accade, sono i dettagli che fanno la differenza. E così, scorrendo le singole voci, scopriamo che, oltre alle comodissime poltrone Frau, la Camera di Laura Boldrini ha speso in arredi oltre 780 mila euro contro i 158 dell’anno precedente. Molti, però, sono stati anche i trasferimenti. E così per il facchinaggio, se da luglio a dicembre del 2013 l’esborso è stato pari a poco più di 186 mila euro, nell’ultimo periodo 2014 se ne sono andati quasi 600 mila. E se i mobili sono di nuova fattura, ovviamente anche i dipendenti devono vestire di tutto punto. E così anche le spese per il vestiario salgono: scarpe e divise di alta rappresentanza sono costate 171 mila euro contro i 101 del secondo semestre 2013.

Ma non basta. Perché le spese di maggiore entità le ritroviamo alla voce – manco a dirlo – “ristorazione”. Tra buffet, catering vari e mensa in sei mesi Montecitorio ha bruciato 2 milioni 832 mila euro, in clamoroso aumento rispetto al secondo semestre 2013 quando si spesero solo 330 mila euro. E che dire, ancora, dei servizi informatici: tra assistenza e forniture, nell’ultimo periodo abbiamo speso quasi 3 milioni contro i 2 del 2013.

Spazio, poi, a un’ultima curiosità. Tra le tante, spunta anche la voce “studi”. Questa volta non parliamo di cifre esorbitanti (246 mila euro). Ciò che stupisce, però, sono i beneficiari di tale cifra. Il potenziamento dell’attività di studio, infatti, è stata affidata, tra gli altri, al Cespi (42 mila euro), all’Ispi (altri 42) e all’Iai (25 mila euro). Tutti enti già finanziati lautamente dal ministero degli Esteri e nei cui direttivi siedono una marea di deputati e senatori. Ma, per carità, sarà semplicemente un caso.

Tasse sul risparmio, dal 2011 bruciati 9 miliardi

Tasse sul risparmio, dal 2011 bruciati 9 miliardi

Raffaella Salato – La Notizia

Il settimanale “Panorama” oggi in edicola dedica la copertina a una ricerca del Centro studi “ImpresaLavoro” sul progressivo e repentino aumento della pressione fiscale operata dai governi Monti, Letta e Renzi sui risparmi degli italiani. Un fenomeno che in questi ultimi anni ha assunto forme diverse: l’incremento delle aliquote sui redditi di natura finanziaria, più che raddoppiate – salvo eccezioni – tra la fine del 2011 e la metà del 2014; l’introduzione di una tassa su una parte delle transazioni finanziarie (la Tobin Tax) a partire dal marzo 2013; la trasformazione dell’imposta di bollo sul deposito titoli in una vera e propria patrimoniale (che grava anche su conti deposito e altri strumenti finanziari), introdotta nel 2012 e già raddoppiata nel giro di due anni.

Secondo la ricerca di “ImpresaLavoro” (le cui stime si basano su dati e indici Banca d’Italia, ABI, MEF e Fideuram) questa stretta fiscale corrisponde a un incremento di 9 miliardi annui (pari al +130%) per il periodo 2011-2015 così suddiviso: 4,7 miliardi dall’aumento delle aliquote sui rendimenti, 4 miliardi dall’introduzione dell’imposta di bollo proporzionale, e altri 0,3 miliardi dalla Tobin Tax. Il prelievo complessivo è così passato dai 6,9 miliardi del 2011 ai 15,9 miliardi attesi per il 2015.

Se ciò non bastasse, per il futuro prossimo circola l’ipotesi di un giro di vite fiscale anche sulla rivalutazione di fondi pensione, casse previdenziali e trattamento di fine rapporto. Lo studio di “ImpresaLavoro” mostra che un incremento delle aliquote sui fondi pensione al 17% potrebbe ridurre il montante contributivo atteso (e quindi la pensione) dei giovani lavoratori di una percentuale compresa tra il 3,3% ed il 5,7%, mentre un aumento al 26% lo ridurrebbe fino al 14,6%. Considerazioni analoghe si possono esprimere sia sulle casse previdenziali che sul TFR: con un aumento dall’11% al 17% i giovani lavoratori potrebbero subire una decurtazione della liquidazione di fine rapporto compresa tra il 3,6% ed il 6,2%.

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Crescita, debito, esportazioni: la moneta comune ha fatto bene solo a Berlino

Sergio Patti  – La Notizia

Dall’avvento dell’euro ad oggi tutti i principali indicatori della condizione economica del nostro Paese sono nettamente peggiorati: la disoccupazione è passata dal 9 al 13%, il rapporto tra debito e Pil è cresciuto di più di venti punti percentuali mentre l’Istat ha appena certificato come il rapporto tra deficit e Pil sia ormai arrivato nei primi tre trimestri del 2014 al 3,7%.Volendo fare un irriguardoso paragone calcistico, si potrebbe dire che se si giocasse oggi Italia-Germania non finirebbe certamente 4 a 3 come nell’epico scontro dell’Azteca: i tedeschi, infatti, ci batterebbero 7 a 0. A tanto ammontano gli indicatori che il Centro studi ImpresaLavoro ha analizzato prendendo come base di partenza il 2001 (ultimo anno prima dell’entrata in circolazione dell’euro) e confrontandolo con gli ultimi dati disponibili.

La forbice s’allarga
Ne esce un quadro molto chiaro nella sua drammaticità: l’euro ha fortemente avvantaggiato la Germania, aumentando il divario con l’Italia e le rigidità che ci sono state imposte dalla moneta unica ci hanno impedito la flessibilità necessaria a fare riforme importanti in un tempo di crisi. Veniamo ai numeri: il Pil pro-capite tedesco cresce a valore nominale del 29,5%, il nostro “solo” del 17,1%. Se prima dell’euro tra un cittadino di Roma e uno di Berlino c’era una differenza del 16%, oggi il gap è quasi di un terzo (il 28%). I governi guidati da Schroeder e Merkel hanno visto il deficit passare da una cifra di poco superiore al 3% (3,1%) a un surplus di bilancio dello 0,1. L’Italia, invece, nonostante gli sforzi, è passata dal 3,4% del 2001 al 2,80% del 2013 fino all’attuale 3,7%. Contemporaneamente, rispetto al Pil, il nostro debito è passato dal 104,70 al 127,9% mentre il loro dal 57,5% si è fermato al 76,9%. Dove la moneta unica risulta determinata è però nel settore delle esportazioni. L’export tedesco ha visto salire il suo valore nominare dell’84,3% mentre quello italiano è cresciuto del 32,3%: significa che mentre prima della moneta unica l’export tedesco valeva il doppio di quello italiano, oggi vale quasi tre volte tanto (2,8 volte).

Poche prospettive
Quanto alla disoccupazione, in Germania i senza lavoro sono scesi di 2,2 punti mentre la nostra disoccupazione è salita del 4,4%. Se prima dell’euro il tasso di disoccupazione italiano era del 20% più elevato di quello tedesco, oggi per ogni disoccupato in Germania ce ne sono addirittura tre nel Belpaese. “Dall’adozione della moneta unica – osserva il presidente di ImpresaLavoro Massimo Blasoni – non c’è pertanto un solo indicatore economico che non sia peggiorato nel confronto con i tedeschi. Crescita, debito, bilancia commerciale. Senza inflazione che ridurrebbe il peso del debito e una valuta più debole in grado di aiutare, o quantomeno non penalizzare, le esportazioni delle nostre aziende anche le riforme rischiano di non bastare a far ripartire il Paese”.

FCA assume, il successo delle riforme

FCA assume, il successo delle riforme

Gaetano Pedullà – La Notizia

Chi dice ancora che le riforme servono a poco, che tanto questo Paese è infetto e prima di cambiare le nostre regole c’è sempre qualcos’altro di più urgente da fare, si fermi a contare fino a milleecinquecento. Tanti sono i posti di lavoro che la Fca (il nuovo nome della Fiat) attiverà nel giro di poche settimane in Italia. Ora è chiaro che Marchionne, per quanto possa essersi legato a Renzi, mai avrebbe annunciato un tale piano se dietro non ci stava il successo commerciale di alcuni modelli (ed era ora che la Fiat ricominciasse a farne di appetibili per il mercato!). Ma la possibilità di utilizzare strumenti nuovi, come quelli previsti dal Jobs Act, ha dato certamente una spinta in più. Gli investitori esteri d’altronde è questo che vogliono: regole chiare e comparabili sul piano internazionale, oltre ad alcune condizioni di base come le infrastrutture, l’accesso al credito e la sicurezza. Pensiamo allora a quanti altri investimenti guadagneremmo se le riforme procedessero più spedite e se dopo quelle non sempre drastiche del primo anno di governo Renzi riuscissimo a farne altre più decise ed efficaci. Insieme alla Fiat qui tornerebbe a fare impresa tutto il mondo.

Un passo avanti e due indietro

Un passo avanti e due indietro

Gaetano Pedullà – La Notizia

Un passo avanti e due indietro, anche il Job Act si avvia a diventare legge. Doveva essere una rivoluzione, sarà invece una riforma zoppa. Per renderla meno indigesta a sinistra Pd e sindacati, torna infatti il reintegro in caso di licenziamento disciplinare senza giusta causa. Quali saranno queste giuste cause lo vedremo nei decreti delegati, ma dall’entusiasmo con cui si è ricompattata la minoranza Dem c’è da scommettere che le maglie saranno larghe. Renzi incassa così la sua riforma e, come effetto collaterale, un maggiore isolamento della Camusso, ormai mollata da Cisl e Uil. Alla politica e al sindacato che fa politica sfugge però che mentre ci si accapiglia per definire nuove regole (in questo caso del lavoro), c’è un’Italia vasta che delle regole (tutte) se ne sbatte. Le occupazioni abusive degli alloggi popolari a Milano e Roma – dove ieri c’è quasi scappato il morto – sono una prassi. Così come la violenza nelle periferie. E la rivolta degli abitanti di Tor Sapienza, nella Capitale, con i residenti che si fanno giustizia da soli per i furti degli immigrati, è il certificato di morte di uno Stato che continua a mettere e togliere regole. Senza la forza però di applicarle.

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Pubblica amministrazione, i debiti non si sono ridotti

Sergio Patti – La Notizia

La pubblica amministrazione non sta affatto riducendo i suoi debiti con le imprese creditrici. I debiti commerciali si rigenerano con frequenza, dal momento che i beni e servizi vengono forniti in un processo di produzione continuo e ripetitivo. Dunque, limitarsi a liquidare i debiti pregressi di per sé non riduce lo stock complessivo dei debiti: questo può avvenire soltanto nel caso in cui i nuovi debiti creatisi nel frattempo risultano inferiori a quelli oggetto di liquidazione. Una condizione che non potrà crearsi fino a quando il livello di spesa della pubblica amministrazione e i suoi tempi medi di pagamento (che al momento sono di 170 giorni) non subiranno una drastica diminuzione.

«Nel caso concreto – osserva Massimo Blasoni, presidente del Centro Studi “ImpresaLavoro” – stimiamo che dall’inizio del 2014 a oggi siano già stati consegnati alla Pubblica amministrazione italiana beni e servizi per un valore di circa 113,5 miliardi di euro e che di questi, in forza dei tempi medi di pagamento della nostra PA, ne sarebbero stati pagati soltanto 40 miliardi. Con la logica conseguenza che, nonostante le promesse del governo Renzi, lo stock complessivo del debito della PA rimane invariato nel suo livello e cioè pari a 74 miliardi di euro circa».

Vanno ricordati in particolare due aspetti: i debiti di cui parla Renzi sono quelli maturati entro il 31 dicembre 2013. Solo per questi, infatti, è possibile per le imprese chiedere la certificazione e la relativa liquidazione di quanto dovuto. Già su questa cifra occorre dire che “ImpresaLavoro”, incrociando il dato della spesa per beni e servizi e quello dei tempi di pagamento, aveva stimato uno stock di debiti di 74 miliardi di euro. «Siccome ne sono stati rimborsati “solo” 32,3 (su uno stanziamento complessivo di 40), possiamo senza dubbio affermare che la promessa di Renzi non è stata mantenuta» è la conclusione di Blasoni. «Non solo: mentre questo processo era in corso, come detto, la PA continuava ad accumulare debito. Nessun indicatore oggi a disposizione ci permette di dire che vi è una diminuzione dei tempi di pagamento. Ciò significa che lo stock complessivo del debito è ad oggi invariato a 74 miliardi circa e che l’intervento del governo, pur meritorio, è servito soltanto ad impedire che lo stock aumentasse ulteriormente».