grecia

Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Una via di uscita ‘alla portoghese’ se il negoziato dovesse fallire

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Data la situazione del negoziato, vale la pena chiedersi se la Grecia può uscire dall’Unione monetaria senza che si facciano troppo male sia Atene sia gli altri Stati che fanno parte dell’area dell’euro. Occorre dire che negli ultimi cinquant’anni non sono mancati casi di unioni monetarie che si sono ‘sciolte’ senza grandi crisi o anche che siano state ‘lasciate’ da uno solo degli Stati membri senza che ci siano state grandi sofferenze. A differenza di altre unioni monetarie, però, l’area dell’euro è stata costruita come passo per contribuire a trasformare l’Unione europea in una confederazione o anche federazione politica. Ciò comporta un nodo giuridico: può la Grecia, Stato membro dell’Ue che ha scelto volontariamente e liberamente di entrare nell’Eurozona, uscirne senza lasciare, simultaneamente l’Ue medesima? I giuristi paiono concordi: uscire dall’euro vuol dire uscire dell’Unione europea, con le conseguenze che si possono immaginare (imposizione di dazi doganali, fine dei fondi strutturali e dei finanziamenti della Bei e via discorrendo).

In diritto internazionale, e in diritto europeo, ostacoli puramente giuridici sono superabili se tutte le parti in causa sono d’accordo nel farlo. Il premio Nobel Paul Krugman ha scritto, correttamente, che il nodo di fondo non è tecnico-giuridico ma politico: la mancanza del minimo di fiducia reciproca tra l’attuale governo greco e i creditori.

Se ci fosse tale fiducia, non sarebbe difficile delineare una via d’uscita tecnica. Nel febbraio 2012, la crisi portoghese ha spinto alcuni economisti lusitani a lavorare su ipotesi di uscita: una fase di transizione di alcune settimane (autorizzando severi controlli sui movimenti di capitale); la stampa di una nuova unità di misura, transazione e riserva (ossia una nuova moneta) con cui sostituire l’euro; l’ingresso in quello che viene giornalisticamente chiamato lo Sme2 (l’accordo sui cambi che consente fluttuazioni del 15%). La proposta prevedeva il rimborso del debito in euro (non nella nuova moneta). Solo che i greci non possono farlo perché hanno le casse vuote. La proposta non è più d’attualità per Lisbona dato che, in seguito ad un severo programma di riassetto strutturale, il Portogallo – il cui debito pubblico in percentuale del Pil è leggermente inferiore a quello dell’Italia – è stato ‘promosso’’dalla trojka (Bce, Fmi, Commissione europea). Contiene, però, idee che possono essere utili alla Grecia. Sempre che si stabilisca il clima di fiducia essenziale per fare parte della stessa unione.

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Renzi escluso dal tavolo Grecia, l’Ue ci gira un conto da 40 miliardi

Davide Giacalone – Libero

È grave che l’Italia sia stata esclusa dal vertice europeo sulla situazione greca. Sono ridicoli quelli che vogliono sempre andare a battere i pugni da qualche parte, ma la nostra esclusione ha a che vedere con interessi vitali del Paese, mica con questioni d’etichetta o fasulla prosopopea. Il fatto che si siano visti i capi dei governi francese e tedesco, assieme ai vertici della Banca centrale europea e del Fondo monetario inoltre, non trova legittimità in alcun trattato europeo. In attesa di aggiornarli si dovrebbe rispettarli.

Qualche numero è utile a capire la nostra posizione, nonché l’inaccettabilità dell’esclusione. Il debito greco ammonta a 330 miliardi di euro. Il 60% è detenuto da fondi europei Efsf ed Esm. L’8% dalla Bce. Il 5% sono altri prestiti. Il 12% dal Fmi. Sommando le prime tre voci si arriva al 73%. Noi italiani siamo i terzi contributori di quei fondi e di quelle istituzioni, giacché si paga in ragione del prodotto interno lordo (Germania 27, Francia 20, Italia 18%). Già questo basterebbe e avanzerebbe per essere invitati non a colazione, ma a parlare di una Grecia la cui sorte ci riguarda tutti. Ma questi dati sono in parte ingannevoli, perché l’Italia è si il terzo creditore, ma, forse, è il primo netto.

Al momento del primo default greco (2010) i sistemi bancari erano cosi esposti rispetto al montante del debito greco: Germania 42%, Francia 32, Olanda 11, Belgio 8 e Italia 5. Quei titoli del debito greco non venivano acquistati per generosità, ma perché ad alto rendimento. Si pensava senza rischio, sbagliando alla grande. A quel punto i più esposti gridarono aiuto, altrimenti sarebbe saltato il sistema bancario europeo. Il primo fondo di salvezza (Efsm) fu finanziato con il meccanismo solito, quindi noi pagammo per il 18 del totale, essendo esposti per il 5%. Si disse che era sperimentale, ma poi quella regola restò. Quindi: sì, siamo i terzi creditori, ma considerato che il primo e il secondo sono quelli che hanno preso più soldi per le loro banche, è probabile si sia i primi netti. E stiamo fuori dall’uscio?

Poi c’è l’altra faccia della medaglia, ovvero il nostro mostruoso debito pubblico. Che è una colpa, Però è anche la ragione per cui siamo più interessati di altri. Il risalire degli spread (nonostante la morfina Bce) lo paghiamo noi più di tutti. E va anche detto che dal 2008 al 2013 l’incremento del valore monetario del nostro debito è stato del 24%, mentre quello tedesco è cresciuto del 30 e quello francese del 44. Il che contribuisce (solo in parte) a capire come abbiamo fatto ad avere la recessione più lunga e dura.

Dunque: sulla base di quale superiorità politica e in virtù di quale articolo dei trattati due governi europei trattano come cosa loro un problema collettivo? Hanno ricevuto un mandato? Da chi? Considerato che al tavolo sedevano una istituzione internazionale (Fmi) e due europee (Bce e Commissione), si sono prese decisioni, o anche solo orientamenti? Perché la loro legittimità non sarebbe dubbia, bensì inesistente. Dopo due guerre mondiali l’asse franco-­tedesco fu un bene, ma dopo la nascita dell’Unione europea e dell’euro (in particolare), quell’esclusività sa di usurpazione. Non è un modo per rendere più dinamica e autorevole l’Unione, ma per garantirsi l’esatto contrario, alimentando il vittimismo na­ zionalista di quanti si sentono prede della forza teutonica. Dall’Italia si lanciano appelli, a cominciare da quello del Presidente della Repubblica, affinché gli inglesi anticipino il loro referendum sull’Ue, previsto per il 2017. Ma perché? Capisco lo facciano francesi, spagnoli e tedeschi, che hanno varie scadenze elettorali, ma a noi converrebbe il contrario: usare la pendenza di quell’arma (così concepita dagli inglesi) per innescare negoziati seri e rivedere quel che non va nell’ingranaggio europeo. Si può essere per la fine dell’Ue e l’uscita dall’euro. Trovo siano errori, ma ne capisco il senso (temendo che sfugga a chi li propone). Da europeista, però, vedo quel che s’è inceppato e so per certo che se non riparato porterà tutto alla rovina, sicché, quando si tengono riunioni come quella di Berlino, mi domando se c’è ancora un governo italiano e se pensa, con calma, di dovere dire qualche cosa. Anche per non dare l’impressione che si taccia per avere indietro l’elemosina dell’elasticità sui conti, ovvero un favore da somari che aiuta il governo in quel momento in carica senza essere di alcuna utilità all’Italia.

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

L’escamotage: una rata unica per tutto giugno

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La crisi greca sarà senza dubbio il tema che terrà banco al Consiglio della Banca centrale Europea in programma oggi. Ad Atene le casse sono vuote ed è improbabile che la Grecia sia in grado di pagare la rata di 303 milioni di euro dovuta al Fondo monetario entro il 5 giugno. Sarebbe di Carlo Cottarelli, che ha passato circa trent’anni al Fmi e rappresenta, nel Consiglio dell’istituto, un gruppo di Paesi tra cui la Grecia, l’idea che potrebbe dare un po’ di respiro ad Atene: combinare tutte le rate dovute in giugno (per un totale di 1,3 miliardi) e pagarle a fine mese. È una procedura adottata in alcuni casi in passato per Paesi molto indebitati e a basso reddito: l’ultima volta fu una quarantina di anni fa per lo Zambia. Forse l’orgoglio di Tsipras e Varoufakis (e di tanti greci) verrebbe ferito dall’essere trattati come il Paese dell’Africa australe. Tuttavia, se il sistema funzionasse e se nei prossimi giorni si arrivasse ad un accordo tanto sul debito quanto su nuovi finanziamenti, si tranquillizzerebbero anche i contribuenti italiani che hanno prestato alla Grecia circa 40 miliardi di euro, oltre il doppio di quanto stimato per la perequazione delle pensioni e un nuovo contratto nel pubblico impiego.

Tuttavia, la strada è irta e tutta in salita. In primo luogo si è arrivati al punto che il direttore del Fmi, Christine Lagarde, ha detto di avere perso la pazienza con le promesse (vaghe e senza esito concreto) di Tsipras e Varoufakis; per di più, la strumentazione econometrica del Fmi direbbe che l’uscita della Grecia dall’eurozona sarebbe ininfluente sui mercati mondiali ed europei. In secondo luogo, sempre al Fmi, la decisione improvvisa di sostituire il supplentevicario di Cottarelli (incarico spettante alla Grecia) con Elena Paranitis, una parlamentare del partito socialista ellenico non rieletta alle ultime elezioni e passata tra le file di Syriza; a rendere il tutto ancora più complicato, nel giro di 48 ore, proprio su richiesta dei maggiorenti di Syriza la nomina è stata ritirata, creando costernazione a Washington. In terzo luogo, in seno all’unione monetaria europea non ha fatto una buona impressione l’intervista di Tspiras a Le Monde in cui le difficoltà del negoziato sono state interamente addossate alle istituzioni di Bruxelles e al Fmi; non solo garbo, ma anche efficienza ed efficacia richiedono di mantenere il più stretto riserbo su trattative relative ad argomenti così delicati come debito e flussi finanziari aggiuntivi. In quarto luogo, all’interno di Syriza è in atto una vera e propria rivolta contro Tspiras, accusato di concedere troppo ai creditori – ciò spiegherebbe i temi dell’intervista a Le Monde. In breve, lo spiraglio che s’intravvedeva all’inizio della settimana scorsa ora sembra molto più stretto.

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Quelli che sputano nel piatto in cui mangiano

Davide Giacalone – Libero

Da Atene a Londra, da Madrid a Varsavia, l’Unione europea mette in scena il proprio paradosso. Realtà e rappresentazione, però, si muovono in direzioni opposte. Ciascuno sperando di potere nascondere le proprie responsabilità, o di scaricarle su altri. A 100 anni dalla prima guerra mondiale sarà bene essere severi e non smarrire la ragionevolezza.

La crisi greca, sperando che non generi una tragedia, sarà ricordata come il trionfo della stupidità. stato sciocco e presuntuoso pensare che conti scassati s’aggiustassero con il tempo, il che non vale solo per gli ellenici. Sappiamo tutti bene che i soldi prestati non potranno essere restituiti (nei tempi stabiliti) e che il solo modo per evitare che si traducano in una bancarotta (la terza) è prestarne altri. Ai greci si chiede una sola cosa: non di restituire, ma di dire che intendono farlo. Ma è quello che il governo in carica non si sente di dire, perché il contrario di quel che ha raccontato agli elettori. Un gruppo d’incoscienti, che ha messo un esibizionista a guidare l’economia. Dovesse andare male non è che cadrà il loro governo, è che c’è il rischio crolli la democrazia greca. Il popolo, più saggiamente, per più del 70% esclude di volere uscire dall’euro. Fanno di conto meglio di chi li governa.

Il Regno Unito si prepara al referendum sulla permanenza nell’Ue, previsto per il 2017. Nella recente campagna elettorale s’è fortemente agitato il tema dell’immigrazione. Eppure neanche troppi anni fa, quando giovani mettevamo piede a Londra, eravamo colpiti da una società multietnica (i giornalai, di cui resto cliente in ogni pizzo del mondo, erano tutti indiani), quale noi non eravamo. La comunità degli affari guarda con sospetto al referendum: buona l’idea, se serve a trattare con Bruxelles, ma mica si vorrà fare sul serio? Significherebbe perdere la sede di banche e industrie, la ricchezza finanziaria della City, e farei conti con un debito (pubblico e privato) enorme.

La Spagna ha trovato nell’Europa la spalla cui appoggiarsi per uscire da un passato di dittatura e miseria. In questi anni ha ricevuto aiuti rilevantissimi, per superare la crisi successiva allo scoppio della bolla immobiliare, in grado di sgretolare le banche. Grazie a questa politica ha un tasso di crescita che noi ce lo sogniamo. Eppure chi governa è in difficoltà. Anche nella Catalogna che ha bocciato il referendum separatista vincono le forze euroscettiche. La Polonia sarebbe, senza l’Europa, quel che la geografia e la storia le hanno più volte ricordato di essere: un confine esterno dell’espansionismo russo. Zarista, comunista o nazionalista che sia. Talora quel confine li ha risucchiati, facendoli sparire dal mondo libero. Eppure forze euroscettiche vincono le elezioni, pur ribadendo che il gigante russo deve essere tenuto a distanza. Come? Da chi? Dagli Usa? Diano uno sguardo all’Ucraina.

Eccolo il paradosso: sentimenti, ragionevolezza e interessi spingono verso l’integrazione europea, perdendo per strada solo rigurgiti di sangue e terra che servirono, in passato, a seppellire sotto la terra tanto sangue innocente; eppure le urne si aprono e mostrano uno spettacolo diverso. Come è possibile? Lo è per l’ignavia e la viltà delle classi dirigenti. Sia sul fronte esterno, nel non sapere raccontare che l’integrazione monetaria (Uem) comporta integrazione di bilanci e debiti, mentre l’integrazione normativa (Ue) non può spingersi fino a stabilire quanto devono essere lunghe le zucchine. Sia sul fronte interno, nello scaricare sull’Europa, trasformata in concetto mitico e arcigno, l’obbligo di cambiare per non recedere e scivolare.

Mario Draghi ha ragione da vendere, quando dice che senza riforme coordinate l’area dell’euro produrrà conflitti e perderà occasioni, ma le classi dirigenti la raccontano ai propri popoli come fosse un giogo, anziché una ciambella di salvataggio. Il paradosso è ancora più grosso se si pensa che le classi dirigenti produttive, quelle che esportano fuori dall’Ue, questa musica l’hanno capita benissimo e la ballano con coerenza. Cento anni fa era già in corso un conflitto mondiale le cui cause reali e materiali a me sembrano meno rilevanti degli scontri che oggi possono scatenarsi. Il fatto che se ne parli senza che nessuno sia al fronte è già un successo dell’Unione che c’è e quale è. Ma non è affatto il caso di sopravvalutarne la tenuta.

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Per evitare la ‘Grexit’ gli Stati aiutino Atene a ripagare Fmi e Bce

Giuseppe Pennisi – Avvenire

C’è ancora una via d’uscita dalla ‘trappola’ del debito greco? Trappola che potenzialmente coinvolge tutti, perché dopo l’eventuale default, Unione europea e Unione monetaria non sarebbero più le stesse. Su un punto cruciale, in ogni caso, i giuristi non sono d’accordo: può uno Stato restare nell’Unione se esce da un’area valutaria comune (l’Eurozona) in cui è entrato liberamente accettandone le regole, tra cui quella dell’irreversibilità? Anni fa un parere dell’ufficio legale Bce concluse che uscita volontaria o meno dall’euro voleva anche dire addio alla Ue (mercato unico, politica agricola, fondi strutturali). Oggi tale interpretazione è messa in dubbio da numerosi giuristi.

Proviamo però a fare due conti. All’ultima rilevazione della Banca per i regolamenti internazionali (Bri), il debito pubblico greco ammontava a circa 323 miliardi di euro, pari al 177% del Pil. Di questi, il 15% è detenuto dal settore privato, il 10% dal Fmi e il 6% dalla Bce. Il 60% del totale, pari a 195 miliardi di euro, è in mano agli altri governi dell’eurozona. Inoltre: 142 miliardi sono arrivati alla Grecia attraverso l’Efsf, il Fondo europeo di stabilità finanziaria (ossia il ‘Fondo salva-stati’), 53 miliardi sono invece il frutto di prestiti bilaterali ricevuti dagli altri Stati UE. Oggi i più esposti sono la Germania (60 miliardi), la Francia (46 miliardi), l’Italia (40 mi-liardi), la Spagna (27 miliardi) e l’Olanda (12 miliardi). Una famiglia di quattro persone deve pertanto ricevere dalla Grecia circa 4700 euro se tedesca, 4500 se francese, 3800 se italiana.

I crediti del Fmi e della Bce, va ricordato, sono ‘iperprivilegiati’, poiché su tale privilegio si regge l’intera impalcatura finanziaria internazionale. Il Fmi , in particolare, deve ricevere da Atene 1,5 miliardi di euro in giugno, in quattro rate (5,12, 16 e 19 giugno). Se Atene non onorerà questo debito, non sarà possibile trovare una via d’uscita e la pratica passerebbe di fatto agli avvocati.

Si potrebbe tentare di evitare il peggio se anzitutto gli Stati creditori aiutassero la Grecia a far fronte alle scadenze nei confronti di Fmi e Bce. I creditori dovrenbbero inoltre accettare una dilazione ulteriore dei pagamenti a loro dovuti, con Atene, però, disposta a un monitoraggio molto stretto sulle riforme (dovrebbe in pratica accettare una nuove missione dei creditori in residenza in Grecia per tutto il tempo necessario).

La “tattica” (e i costi) per  mantenere Atene nell’euro

La “tattica” (e i costi) per mantenere Atene nell’euro

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Alla vigilia del Consiglio europeo di Riga, in particolare degli incontri con Merkel e Hollande, Tsipras ha ostentato ottimismo e un “accordo di reciproco vantaggio” i cui contenuti sono ancora da definire. Varoufakis è stato ancora più dettagliato: “La rottura delle trattative è fuori dal nostro orizzonte”, ha dichiarato, specificando anche che il nodo più difficile sono le pensioni. “Ci chiedono casse in pareggio con il 27% di disoccupazione”, si è lamentato il ministro delle Finanze di Atene. Né Tsipras, né Varoufakis hanno dato l’impressione di contare sull’appoggio di Renzi come mediatore o “pontiere”; si sono resi conto che nel consesso europeo il Presidente del Consiglio italiano ha problemi (da ultima gli è giunta la vera e propria “mazzata”, anche se piccola, sul reverse charge relativo all’Iva) e non è in una posizione di chiedere comprensione per altri dato che ne deve chiedere per se stesso.

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Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Voci di un altro salvataggio da 50 miliardi

Giuseppe Pennisi – Avvenire

Anche se un bonifico di 757 milioni di euro è partito dal Tesoro greco (grazie all’apporto di enti locali e di depositi di istituti di credito) per il Fondo monetario internazionale (evitando il temuto default), le cifre fanno accapponare in ogni caso la pelle: entro metà luglio Atene dovrà trasferire al Fondo altri 3 miliardi di euro e farsi rifinanziare 11 miliardi in scadenza, nonché inviare alla Banca centrale europea 6,7 miliardi di euro. Se le casse sono vuote, il pagamento di stipendi e pensioni è a rischio, con la prospettiva di nuovi disordini sociali. Gli altri creditori di Atene – lo si mormorava nei corridoi della riunione dell’Eurogruppo – hanno ingoiato la pillola di accettare una dilazione dei pagamenti (e forse anche una riduzione). Fmi e Bce, invece, non possono ritardare e tanto meno ridurre i pagamenti a loro dovuti a ragione della ‘sa- cralità’ delle istituzioni finanziarie internazionali: si tratta infatti di creditori privilegiatissimi che devono costantemente avere la fiducia dei mercati e collocare, nell’interesse di tutti, le loro obbligazioni. In questo quadro, discettare su un eventuale referendum greco sull’euro è un’inutile distrazione. Il nodo è come fare fronte alla scadenze e inoltre trovare capitali stranieri (molti di quelli greci sono in fuga) per riattivare l’economia. Secondo stime elaborate da diversi centri studi americani, sarebbe necessario entro l’estate un nuovo salvataggio. Di ben 50 miliardi di euro.

Nessun vuole scottarsi ancora una volta le dita. Allo stesso tempo, però, nessuno vuole che la Grecia vada a picco. Non lo vogliono neanche gli USA, in quanto temono sia lo spappolamento dell’eurozona sia una liaisons dangereuses tra Atene e Mosca.

Si sta affacciando una nuova strada: varare per la Grecia un programma analogo a quello che è stato attuato dal 1990 al 2010 con successo per i Paesi più poveri e più indebitati. In breve, parte dei crediti bilaterali (come quelli dell’Italia) verrebbero non solo dilazionati, ma anche ‘rimessi’. Entrerebbe in gioco la Banca mondiale (che non fa prestiti dal 1979 alla Grecia a ragione del reddito pro-capite allora raggiunto) con operazioni a lungo termine (25 anni) per rimborsare Fmi e Bce e riattivare investimenti. Un’operazione basata su un programma di politica economica concordato e monitorato attentamente, nel caso, da una missione Banca mondiale e Fmi residente ad Atene. La Grecia deve complessivamente all’Italia tra i 30 ed i 40 miliardi: ciò equivale a dieci volte circa l’impatto (al netto delle imposte) sui conti pubblici, della sentenza della Corte Costituzionale sulla perequazione delle pensioni.

Il “piano d’emergenza” che  non basta per l’Italia

Il “piano d’emergenza” che non basta per l’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Dobbiamo temere di essere trascinati da un tracollo della Grecia, ossia un’insolvenza seguita da un’uscita (volontaria o forzata) dall’unione monetaria con implicazioni sulla stabilità finanziaria dell’Italia? L’eventuale sfaldarsi dell’eurozona farebbe accanire la speculazione nei nostri confronti? Lo spread tornerebbe a quota 500, o anche più, a ragione pure del nuovo “buco” apertosi nei conti pubblici in seguito a una sentenza della Corte Costituzionale prevedibile (e prevista da tempo da parte di tutti coloro che si intendono di diritto previdenziale)?

Nell’infuocato fine settimana, le voci della Banca centrale europea (Bce) e dei suoi accoliti hanno ribadito che non c’è nulla da temere poiché dal 2009 a oggi è stata costruito un vero e proprio “muro anti-incendio” (firewall): due pilastri dell’Unione bancaria europea (il sistema di vigilanza e il meccanismo per risolvere gravi crisi bancarie e potenziali dissesti), il Quantitative easing per rilanciare la domanda aggregata, il Piano Juncker per dar vita a un programma pluriennale di investimenti innovativi, nuove agenzie per monitorare gli andamenti finanziari.

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Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Ricchi ed evasori schivano l’austerità (anzi, ci guadagnano)

Giuseppe Pennisi – Avvenire

La saga greca che da cinque anni si dipana sotto i nostri occhi non vuole dire ‘lacrime e sangue’ per tutti coloro in essa coinvolti. In primo luogo, all’interno della Repubblica Ellenica, se la godono i ceti a reddito alto ed i grandi evasori (spesso le stesse persone). Uno studio della Banque de France documenta che il forte aumento tributario attuato nel 2010, il secondo ‘salvataggio’, non ha comportato che un lievissimo aumento del gettito; è, quindi, cresciuta alla grande l’evasione. Esaminando i dati dell’agenzia delle entrate della Grecia, risulta che un terzo dell’aumento tributario è stato perso in quanto è aumentata la proporzione di reddito non dichiarato dalle piccole e medie imprese e dal ‘popolo delle partite Iva’ (le imprese individuali). Numerosi greci, e non solo greci, hanno scommesso soprattutto nel 2012 sul salvataggio; quindi hanno acquistato, sul mercato secondario, titoli pubblici a prezzi stracciati (tra un terzo e la metà del valore nominale) con un rendimento del 15-20% e, dopo il salvataggio quando il valore di mercato dei titoli si è riavvicinato al valore nominale, hanno guadagnato sul conto capitale, incassando al tempo stesso un lauto dividendo.

Oggi, per chi ama il rischio ( e crede in Mamma Europa) la situazione è ancora più favorevole. Sul secondario i titoli greci sono considerati spazzatura; per attirare acquirenti i buoni del Tesoro a tre anni rendono il 27% (l’anno) , mentre i decennali (prima o poi la fune si spezzerà) il 20%. In queste condizioni, le occasioni di guadagno non mancano, sia per i greci (specialmente per chi ha portato capitali all’estero) sia per gli altri (specialmente se hanno buone imbeccate sull’esito del negoziato).

Tutto ciò è molto più grave della dilazione, in 80 -100 rate, su 60 miliardi di arretrati con il fisco che il Governo Tsipras- Varoufakis , pur dichiarandosi ‘di sinistra’ ha esteso a tutti i contribuenti, anche ai più ricchi.

Crisi Grecia – I rischi (e i costi) per l’Italia

Crisi Grecia – I rischi (e i costi) per l’Italia

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Dopo un “tormentone” (per usare il gergo giornalistico) di sei anni circa, la saga greca è arrivata al suo ultimo atto. Ove non all’epilogo. Lo ha mostrato a chiare note la riunione dell’Eurogruppo a Riga in cui il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze della Repubblica ellenica sono stati chiamati “dilettanti allo sbaraglio”. Quindi, incomunicabilità piena e totale con il resto del gruppo. Nonostante i canali Rai trasmettano immagini (credo di una precedente riunione) in cui il nostro Presidente del Consiglio Matteo Renzi ostenta – in barba non solo all’etichetta internazionale ma semplicemente al buon gusto – baci e abbracci con la sua controparte Alexis Tsipras.

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