danilo taino

L’occasione giusta per le imprese italiane

L’occasione giusta per le imprese italiane

Danilo Taino – Corriere della Sera

Com’è possibile che l’economia italiana, in recessione da oltre due anni, abbia continuato a tenere sui mercati esteri? Con un aumento medio annuo delle esportazioni, tra il 2005 e il 2013, del 2% in volume e di quasi il 4% se misurato in dollari (dati Wto)? Ristrutturazione delle aziende, in particolare uso intenso dell’innovazione – sembra essere la risposta. È vero che lo Stato è inefficiente. È vero che il tasso di cambio dell’euro rispetto al dollaro è stato elevato durante gli anni della Grande Crisi. Ma forse proprio per questi vincoli le imprese che hanno voluto sopravvivere non hanno potuto fare altro che innovare, a 360 gradi.

Eurostat ha calcolato che nell’Unione Europea l’Italia è quarta per quota d’imprese considerate innovative. Se la media Ue conta il 48,9% di aziende che tra il 2010 e il 2012 hanno innovato, l’Italia è al 56,1%. Meglio hanno fatto solo Germania (66,9%), Lussemburgo (66,1%) e Irlanda (58,7%). In tutti e quattro i settori considerati, le italiane sono sopra la media Ue. Il 29,1% ha effettuato innovazione di prodotto (sempre nei tre anni 2010-2012), contro una media europea del 23,7%. Nell’innovazione di processo, le percentuali sono rispettivamente del 30,4 e del 21,4. Il 33,5% delle aziende italiane ha cambiato e modernizzato l’organizzazione, mentre in Europa lo ha fatto il 27,5% delle imprese. Nelle novità di marketing, infine, la quota delle italiane è il 31% e la quota europea il 24,3%.

L’Ufficio statistico della Ue fornisce anche dati, aggregati a livello europeo, della differenza di risultati tra le imprese che hanno innovato e quelle che non l’hanno fatto. Tra le innovative, il 60% ha aumentato il fatturato, il 56% ha abbassato i costi, il 51% ha aumentato i margini di profitto e il 42% ha accresciuto la propria quota di mercato. Tra le non innovative, solo il 48% ha aumentato il fatturato e abbassato i costi, il 36% ha aumentato gli utili e il 29% ha conquistato fette di mercato.

A parte l’importanza, ben conosciuta, dell’innovazione, i dati sembrano indicare che l’intreccio tra lo Stato inefficiente e l’euro forte ha costretto a ristrutturazioni serie le imprese italiane. Questo non per dire che ora l’euro indebolito sarà negativo e che le riforme strutturali, se ci saranno, indeboliranno l’energia delle aziende italiane. Al contrario, per dire che siamo su una base solida: l’opportunità del momento può essere notevole.

Bce, il coraggio che ci vuole

Bce, il coraggio che ci vuole

Danilo Taino – Corriere della Sera

Una giornata inusuale per l’Europa, ieri. Due leader in azione, in parallelo, hanno affermato che nel Vecchio Continente le crisi e i passaggi più delicati si possono affrontare con coraggio. Che si può fare ciò che si ritiene giusto senza piegarsi ai calcoli della piccola politica.

Mario Draghi ha condotto la Banca centrale europea a lanciare un piano potente di lotta alla deflazione, con una portata che ha impressionato gli osservatori. Si tratta di acquisti di titoli, in maggioranza degli Stati dell’eurozona, per 60 miliardi ogni mese fino al settembre 2016, e oltre se ce ne sarà bisogno: un’iniezione di nuovo denaro per almeno 1.100 miliardi nella zona euro. L’operazione è importante non solo per gli effetti che può avere sull’economia ma – forse soprattutto – perché afferma in via definitiva l’indipendenza della Bce dai governi, anche da quello tedesco che non ha nascosto di essere contrario agli acquisti. È l’ingresso dell’istituzione nella maturità, nell’età in cui ci si emancipa dalle tutele e si cammina da soli. Da oggi la Bce è più simile alla Federal Reserve, la Banca centrale americana.

Angela Merkel ha fatto qualcosa di non meno rilevante: un passo laterale da leader europeo. L a cancelliera non è d’accordo con la scelta che la Bce ha compiuto ieri. Ritiene che produrre un enorme stimolo monetario finisca con lo spingere i governi, soprattutto quelli strutturalmente deboli, a non realizzare le riforme che si sono impegnati a fare. Pensa che l’operazione voluta e progettata da Draghi rischi di fare scivolare l’eurozona verso quella «Europa dei trasferimenti» – cioè di un Paese costretto a finanziare il debito di un altro – alla quale la Germania si oppone da sempre. Soprattutto, Frau Merkel sa che il suo partito, gran parte del Parlamento di Berlino, la gloriosa Bundesbank, la maggioranza delle imprese, delle banche e della cultura economica tedesche si oppongono all’operazione della Bce: come si è già capito dalle reazioni di ieri pomeriggio, in Germania nei prossimi mesi la battaglia, anche legale, contro di essa sarà dura.

Ciò nonostante, la cancelliera ha ritenuto che l’indipendenza della Banca centrale fosse un bene superiore all’interesse politico immediato: ieri a Davos, negli stessi minuti in cui a Francoforte Draghi annunciava l’ormai famoso Quantitative easing , esprimeva le sue preoccupazioni ma si spostava di lato, non lanciava l’opposizione del suo governo alla Bce. In Europa, leadership vuole anche dire sapere garantire l’unità: e questo, ieri, Angela Merkel ha fatto.

Oggi, naturalmente, gran parte dei problemi dell’area euro sono ancora quelli dei giorni scorsi. Già domenica, la Grecia va al voto e il risultato potrebbe riaprire una fase di alto nervosismo politico e di mercato. I risultati stessi dell’operazione della Bce contro la deflazione (caduta dei prezzi per un lungo periodo) non sono scontati e per avere successo dovranno essere accompagnati dall’azione riformista dei governi nazionali. Sta di fatto, però, che la giornata di ieri ha indicato che in Europa si può fare politica (sì, anche l’affermazione di Draghi nel confronto con le posizioni tedesche è un fatto politico): ha detto che non sono necessariamente i compromessi opportunistici e le visioni nazionaliste a doversi affermare, che la vera leadership, anzi, si realizza alzando lo sguardo.

Niente di comodo. Su Mario Draghi è ora caduta una responsabilità ancora maggiore di quella che aveva in passato. Se il Quantitative easing non avrà successo, la vittoria di ieri si trasformerà in una passività e ne dovrà rispondere a una Germania arrabbiata. Per parte sua, la signora Merkel dovrà ora impegnarsi a controllare le proteste in casa: ben conscia, come sempre, che la sua legittimità democratica deriva dagli elettori tedeschi, non da quelli europei. Ma proprio per il significato e la pesantezza che hanno, le responsabilità prese ieri da Draghi e Merkel possono, se non diventare un modello, almeno ispirare.

Da ieri sera, la cancelliera è in Italia, a Firenze, per un incontro con Matteo Renzi. Anche il presidente del Consiglio italiano è reduce dal vertice dei potenti di Davos, dove è stato accolto con grande attenzione e ha avuto modo di misurare le aspettative che ha sollevato fuori dall’Italia. Aspettative che si sposano con il fatto che l’economia della Penisola sia nella posizione di beneficiare del calo del petrolio e dell’indebolimento dell’euro. L’opportunità per rendere stabile e di lungo periodo l’interesse degli investitori è dunque lì, da cogliere. Serve leadership: la quale, come gli possono raccontare oggi la sua amica Angela e domani Draghi, non sta nelle parole ma nelle azioni, nel caso italiano le riforme. È a questo impegno che chiama l’inusuale e interessante giornata di ieri.

La flessibilità che serve per creare occupazione

La flessibilità che serve per creare occupazione

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un numero che colpisce nelle statistiche sul mercato del lavoro di Eurostat. Dice che, alla fine del terzo trimestre del 2014 , gli italiani «disponibili per il lavoro ma che non lo cercano» (e che quindi non entrano nelle statistiche della disoccupazione) erano il 14,2% del totale della forza lavoro; in crescita dell’ 1,1% rispetto a un anno prima. In assoluto è la quota più alta nella Ue, la cui media è il 4,1% . In Germania, per dire, la percentuale è 1,2 , in Gran Bretagna 2,2 , in Spagna 5,0.

La prima considerazione che il dato solleva è che la disoccupazione italiana è dunque di parecchio più alta del tasso ufficiale – 13,4% lo scorso novembre – che Eurostat calcola secondo i criteri stabiliti dall’Ilo, l’Ufficio internazionale del lavoro. C’è insomma un gruppo di persone, più consistente che negli altri Paesi, che non cerca un’occupazione anche se sarebbe nelle condizioni di farlo: su scala europea, si tratta per il 57,4% di donne e probabilmente questa maggioranza di genere è ancora più accentuata in Italia.

Una seconda considerazione, più interessante, parte dal fatto che queste persone hanno ragioni strutturali e stabili per non cercare lavoro: ritengono che esso non sia disponibile, preferiscono occupazioni in nero, svolgono funzioni domestiche a cominciare dalla cura dei figli, mostrano ritrosie culturali. Di base, però, a scoraggiare la ricerca di un’occupazione è la rigidità del mercato del lavoro stesso. Quando, nei primi Anni Duemila, la Germania riformò il sistema delle garanzie all’occupazione e introdusse una dose di flessibilità nella tipologia dei contratti, aprì le porte a centinaia di migliaia di studenti e soprattutto di casalinghe che non avevano mai ufficialmente cercato un lavoro ma che, di fronte all’opportunità, entrarono nel sistema produttivo. Il numero di persone impiegate, che fino al 2006 non aveva mai superato i 40 milioni , oggi supera di molto i 42 milioni. I posti così creati sono in gran parte mini-job e dunque hanno retribuzioni basse; ritenute però interessanti da questi soggetti. Uno sviluppo che in parallelo ha reso le imprese più disponibili a creare posizioni, prima inesistenti, adatte alla nuova offerta di lavoro. Non sempre, dunque, è una variazione nella domanda che arriva dalle imprese a creare occupazione. Molto spesso, sono i cambiamenti nell’offerta i fattori che la creano. E, con essa, reddito e ricchezza.

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

In Italia 2 milioni e 300mila famiglie non possono permettersi una casa

Danilo Taino – Corriere della Sera

Sono anni che non si parla più di diritto alla casa, almeno in Occidente. Quasi che il problema fosse risolto. Non lo è: nelle città italiane, per dire, ci sono due milioni e trecentomila famiglie che non sono in grado, per ragioni economiche, di garantirsi un’abitazione minima. Il problema non è risolvibile con i vecchi modelli delle rivendicazioni sociali degli Anni Settanta e Ottanta, o con i piani di edilizia popolare del passato. Ciò nonostante, resta: è un guaio sociale e rimbalza in negativo sui livelli di istruzione e di salute del Paese e pesa sulla crescita complessiva. La società di consulenza McKinsey, attraverso il suo istituto di ricerca MK Global Institute, pubblicherà domani uno studio – globale e articolato per Paese – su questo che è uno dei temi essenziali del momento. E ha elaborato alcune proposte “di mercato” per affrontarlo.

Il gap
Al cuore della ricerca c’è il calcolo di un gap di accessibilità alla casa: in sostanza, quanto salario in più servirebbe a una famiglia media per comprare l’abitazione (nel caso italiano di 60 meri quadrati) senza dovere impegnare più del classico 30% del reddito stesso. Il risultato è che, in Italia, i 2,3 milioni di famiglie in difficoltà avrebbero bisogno di nove miliardi di dollari in più (7,1 miliardi in euro) ogni anno. Il gap maggiore si registra nell’area metropolitana di Milano: quattro miliardi di dollari. Seguono Roma, tre miliardi; Firenze, un miliardo; Torino, 500 milioni; Napoli, 300 milioni e Venezia, 200 milioni. «Due milioni e trecentomila famiglie in condizioni di difficoltà abitativa non sono cosa da poco per un Paese come il nostro. E un gap pari allo 0,5% del Pil è considerevole», dice Stefano Napoletano, il partner di McKinsey che ha seguito lo studio per l’Italia.

Le soluzioni possibili
Per ridurre questo gap di accessibilità alla casa, Napoletano vede quattro possibili interventi applicabili al caso italiano (che ovviamente è diverso da quello di altri Paesi). Vanno di molto ridotti i tempi e i costi della burocrazia per ottenere i permessi, soprattutto di ristrutturazione; il settore delle costruzioni, uno dei più lenti nei guadagni di produttività, va modernizzato; occorre una gestione delle case costruite meno costosa, il che significa introdurre innovazioni sin dalla progettazione, ad esempio nella sostenibilità energetica; vanno abbassati i costi di finanziamento per l’acquisto della casa e resi disponibili, attraverso strumenti di debito ad hoc, anche a chi ha redditi bassi e scarse garanzie da offrire. A livello globale, lo studio calcola che ci siano 330 milioni di famiglie in difficoltà finanziarie quando devono affrontare la questione abitazione. Che, in ragione degli intensi flussi migratori verso le metropoli nei Paesi emergenti, diventeranno 440 milioni nel 2025: almeno un miliardo e trecento milioni di persone coinvolte.

Nel mondo
Nel mondo, il gap di accessibilità alla casa – misurato a seconda delle caratteristiche di ogni Paese – è oggi di 650 miliardi di dollari all’anno: quasi l’uno per cento del Prodotto lordo mondiale. Ai costi attuali, per risolvere il problema occorrerebbe investire tra i novemila e gli 11 mila miliardi di dollari da qui al 2025, che salgono a 16 mila se si aggiungono i costi di acquisizione dei terreni da edificare. Evidente è che la chiave sta nel tagliare i costi: di costruzione, di gestione e di rendita data dalle molte restrizioni regolamentari (questi ultimi all’origine dei prezzi elevati nei centri delle città). McKinsey calcola che si possano ridurre tra il 20 e il 25 per cento.

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

L’atlante mondiale delle economie: l’Italia scende dalla “top 10”

Danilo Taino – Corriere della Sera

È difficile per chi ha superato i 30 anni. Dobbiamo però ridisegnare nelle nostre menti l’atlante de mondo economico. Ieri, il Fondo monetario internazionale ha pubblicato una mappa interattiva (google.com/publicdata) dalla quale si ricava che l’ordine mondiale misurato in termini di Prodotto interno lordo (Pil) a parità di potere d’acquisto sarà, alla fine del 2014, questo: prima economia, la Cina con 17.632 dl dollari; seconda, quella degli Stati Uniti, 17.416 terza l’indiana, 7.277 miliardi. Seguono Giappone, Germania, Russia, Brasile, Francia, Indonesia, Regno Unito. All’ undicesimo posto il Messico, con 2.143 miliardi e al dodicesimo l’Italia, 2.066 miliardi di dollari.

Questa classifica è una novità, non paragonabile agli anni passati. Pil a parità di potere d’acquisto significa che si stabilisce un basket di prodotti e servizi e si guarda quante unità di una certa valuta servono per comprarlo, in ogni Paese; poi si registra quanti dollari servono per comprare il basket e sulla base del rapporto tra i due si corregge il Pil nominale. È una misura discutibile come tutte ma realistica: racconta a quanti beni e servizi corrisponde un singolo Pil.

L’Italia è insomma fuori dalle prime dieci economie. Qualcuno (per esempio il Financial Times) ha anche immaginato un G7 di Paesi emergenti: ha scoperto che un gruppo formato da Cina, India. Russia, Brasile, Indonesia, Messico, Turchia avrebbe un Pil più alto di quello del G7 tradizionale formato da Usa, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada: 37.800 miliardi contro 34.500.

Figli e figliastri delle rigidità

Figli e figliastri delle rigidità

Danilo Taino – Corriere della Sera

La decisione annunciata ieri da Parigi, unilateralmente, di volere ritardare di altri due anni il rientro del suo deficit pubblico nei limiti stabiliti dai patti europei è un passaggio destinato a testare la solidarietà tra i 18 partner dell’eurozona. A verificare la tolleranza reciproca che ancora esiste tra i Paesi al cuore della moneta unica, innanzitutto la Germania, e i cosiddetti periferici, tra i quali l’Italia e sempre più la Francia. Sarà una navigazione burrascosa. Già ieri, Angela Merkel ha ribadito che non ci può essere crescita senza conti pubblici in ordine: si può prevedere che la posizione di Berlino – ripresa poi a Bruxelles – nei prossimi giorni sarà anche più netta. Ciò nonostante, questa può essere l’occasione per introdurre una nuova dinamica nella gestione della crisi.

Le regole europee di stabilità sono importantissime, ma non possono diventare il feticcio contro il quale schiantare l’eurozona se non si trova un punto di mediazione tra chi non lo sopporta e chi lo difende. Ed è la storia stessa dell’euro a indicare metodo e contenuto dell’approccio che Bruxelles e le capitali nazionali possono seguire per affrontare il momento critico di un’area in semi-recessione e vicina alla deflazione. Tra il 2003 e il 2004, proprio Germania e Francia decisero di non rispettare gli impegni presi con il Trattato di Maastricht sui loro deficit: segno che possono esserci passaggi economici e politici che in casi eccezionali spingono in quella direzione. E ciò che valse per due capitali dai muscoli robusti non può non valere oggi per altri se ciò ha una giustificazione. Berlino, però, usò lo spazio di bilancio conquistato per rendere meno dolorose le riforme, soprattutto del mercato del lavoro, che in quegli anni realizzò; Parigi non fece alcuna riforma strutturale.

Una lettura dei patti europei flessibile per quel che riguarda i tempi in cui rispettarli potrebbe dunque avere un senso se legata a impegni precisi, contratti stipulati a Bruxelles tra Paesi, sulle riforme da fare ai livelli nazionali. Un piano riformista europeo vincolante, approvato e monitorato da Bruxelles – come immaginato dal presidente della Bce Mario Draghi – in cambio di flessibilità è un’ipotesi che potrebbe evitare una scissione verticale all’interno dell’eurozona, la rottura ufficiale dell’asse Berlino-Parigi e vedere un ruolo attivo di Paesi come l’Italia che hanno bisogno sia di riforme sia di manovrare un po’ il bilancio. Fatti salvi i vincoli europei, che se venissero ripudiati creerebbero – come ha avvertito Draghi – sfiducia diffusa nei mercati e nell’economia.

Il passaggio è stretto, la crisi è diventata del tutto politica e mette in difficoltà domestiche il presidente francese Hollande come la cancelliera Merkel. Se la situazione sfuggisse di mano, la stessa Bce finirebbe stretta tra veti nazionali incrociati, impossibilitata a realizzare le iniziative di stimolo che ha annunciato nelle settimane scorse. Chiamata forte per i leader europei.

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un recente sondaggio del centro di analisi americano Pew Research che dobbiamo sperare sia sbagliato. Parla di commercio internazionale e di investimenti tra un Paese e l’altro. E dice che il 59% degli italiani ritiene che il commercio distrugga posti di lavoro. Scioccante: 1’Italia è il Paese avanzato che è grazie alla sua apertura al mondo, all’industria nata sulle esportazioni, al miracolo economico emerso dalla guerra rinnegando l’autarchia. A disorientare ancora di più è il fatto che un’opinione simile sia espressa anche dal 50% degli americani, dal 49% dei francesi, dal 38% dei giapponesi. Che gli scambi globali aumentino l’occupazione lo pensa solo il 13% degli italiani; in America il 20%, in Francia il 24%, in Giappone il 15%.

Se si escludono questi quattro Paesi – che comunque pesano per oltre il 20% del commercio mondiale di merci e servizi – l’analisi di Pew in altri 40 Paesi indica che solo il 19% crede che il commercio distrugge posti di lavoro. Il 52% dei Paesi emergenti pensa anzi che li crei e la quota sale al 66% nei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Quella parte di mondo – in genere chiamata Occidente (più il Giappone membro onorario) – che si immagina essere il faro dell’economia di mercato, aperta, senza barriere ha in realtà le opinioni pubbliche più scettiche – se non più contrarie – su un pilastro storico del capitalismo. A pensare che le locomotive dello sviluppo e della libertà di commercio, e in fondo della globalizzazione, non siano più i Paesi occidentali ma quelli asiatici e africani non si fa peccato, probabilmente ci si avvicina alla realtà. La conferma sta nelle opinioni espresse sugli investimenti esteri, cioè su quella rete di relazioni commerciali e produttive che caratterízza l’econornia moderna. Che un’impresa estera ne compri una locale è negativo per il 73% degli italiani (positivo per il 23%), per il 79% dei tedeschi (19%), per il 67% degli americani (28%). In media, un’acquisizione all’estero è considerata positiva dal 31% dei cittadini nei Paesi avanzati, dal 44% in quelli emergenti, dal 57% nei Paesi invia di sviluppo.

Queste percentuali non sono solo una curiosità. Hanno conseguenze politiche. Ad esempio sul negoziato transatlantico Ttip che Stati Uniti ed Europa stanno discutendo proprio per liberalizzare totalmente commerci e investimenti reciproci. Se Pew Research non ha sbagliato, firmare l’accordo tra Washington e Bruxelles sarà complicato.

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Con la testa all’ingiù le tasse vanno solo su

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte ci si abitua a guardare il mondo a testa in giù. Rimettersi di tanto in tanto sui piedi può fare bene: cambiare paradigma ridisegna l’ordine delle cose. Le statistiche sulla tassazione in Italia, in Europa e nel mondo aiutano: e suggeriscono che, forse, nel dibattito su spending review, vincoli europei di bilancio, crescita dell’economia potremmo ribaltare la prospettiva. Innanzitutto, il confronto mondiale (i dati sono quelli riportati nella pubblicazione di Eurostat «Taxation trends in the European Union, 2014»). Nella Ue a 28, le tasse (compresi i contributi sociali) raccolte dai governi sono state, nel 2012, pari al 39,4% del Prodotto interno lordo. Nei 18 Paesi dell’eurozona sono arrivate al 40,4%. Nel mondo, c’è qualche Stato più esoso, ad esempio la ricca ed eccentrica Norvegia (42,2%). Ma fuori dall’Europa le tasse sono molto, molto più basse: il 24,7% del Pil negli Stati Uniti, il 27,8%, in Canada, il 30,3% in Giappone, il 27,8% in Australia.

In generale, si tende a spiegare queste differenze con il fatto che in Europa c’è un alto livello – quindi costoso – di Welfare State. L’argomentazione ha debolezze intrinseche. Per esempio, è difficile sostenere che le protezioni sociali della Ue sono efficienti, destinate solo a chi ne ha davvero bisogno; o negare che spesso sono addirittura incentivanti del non lavoro. E, in una buona parte dei Paesi, il Welfare gigante toglie risorse alla crescita dell’economia, con l’effetto di gonfiare la disoccupazione, abbassare i redditi, ridurre la competitività rispetto al resto del mondo. Ma quel che è più interessante è vedere come si colloca l’Italia. Il totale delle tasse raccolte, sempre considerando i contributi sociali, nel 2012 è stato pari a 689,3 miliardi, il 44% del Pil (nel 2000 era del 41,5%), decisamente sopra la media dell’eurozona. Siamo il sesto Paese della Ue per livello di tassazione, ma mentre i cinque più esosi – Danimarca (48,1%), Belgio (45,4%), Francia (45,0%), Svezia (44,2%), Finlandia (44,1%) – possono rivendicare una qualità elevata di servizi pubblici per noi è notoriamente diverso (dal 2000 in poi, tra l’altro, Svezia, Finlandia e Danimarca hanno ridotto il carico fiscale, Stoccolma addirittura del 7,3%).

Per dare l’idea di quanto sia pesante l’imposizione in Italia: nella Ue a 28 siamo settimi per tasse indirette come percentuale del Pil (ma al 26° posto per Iva), quinti per imposte dirette, ottavi per contributi sociali, settimi per tasse sul lavoro, secondi per tasse sul capitale, quarti per tasse sull’energia, quarti per tasse sulla proprietà. La questione è un macigno, forse il maggiore, sull’attività dell’intero Paese. Perché dunque il dibattito è tutto sul tagliare le spese, fatto che finora non è avvenuto, e si dice che solo dopo si potranno abbassare le imposte? Probabilmente avrebbe più senso guardare la realtà raddrizzando la prospettiva: darsi obiettivi progressivi ma vincolanti di riduzione delle tasse e sulla base di questi costringere lo Stato a tagliare le spese, non il contrario. In fondo, s’è visto: a testa in giù si sbaglia strada.

Ma più di così sarà difficile

Ma più di così sarà difficile

Danilo Taino – Corriere della Sera

Ieri sera, un importante banchiere svizzero diceva che Matteo Renzi è un ragazzo fortunato. Le misure di politica monetaria annunciate da Mario Draghi, in effetti, sono il massimo che ci si potesse aspettare: anzi, vanno al di là delle aspettative della gran parte degli economisti. Attraverso misure convenzionali e non convenzionali – cioè ordinarie e straordinarie – e anche dividendosi al proprio interno, la Banca centrale europea ha ridotto al minimo possibile i tassi d’interesse; si prepara a comprare debiti degli operatori economici (raccolti in pacchetti) per liberarne i bilanci e spingerli a chiedere credito; fornirà denaro alle banche a costi che più bassi non potranno mai essere in modo che li prestino a imprese e famiglie. È lo stimolo monetario più poderoso che i Paesi dell’Eurozona abbiano mai avuto: quel Quantitative Easing (allentamento monetario) teso a spingere la crescita, a creare inflazione e a indebolire il cambio dell’euro.

Renzi è un ragazzo fortunato nel senso che nessun presidente del Consiglio ha mai avuto un aiuto del genere dalla Bce. Questo però significa che non potrà chiedere più nulla a Draghi: il governatore è arrivato al limite estremo (salvo un difficile, eventuale programma di acquisto di titoli di Stato) a cui poteva arrivare. D’ora in poi, tutto è nelle mani dei governi. E, anche da questo punto di vista, Draghi è stato esplicito nel chiarire il suo pensiero su cosa occorre fare, pensiero in una certa misura distorto dalle letture che del suo discorso al seminario dei banchieri di Jackson Hole (Wyoming), a fine agosto, avevano dato alcuni media (ad esempio il Financial Times ) e alcuni leader europei (ad esempio il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble).

Il governatore ieri ha chiarito ancora una volta che dei tre strumenti per rafforzare la crescita – politica monetaria, politica di bilancio, riforme strutturali finalizzate a liberare l’offerta – «il primo e prioritario» è quello delle riforme strutturali. Senza un’economia efficiente, ogni stimolo finisce nella sabbia. In più, ha precisato di non avere mai messo in discussione il Patto di stabilità europeo, che anzi ritiene «l’àncora per la fiducia» economica. Le flessibilità di cui ha parlato – ha detto – sono interne al Patto, non ne devono «danneggiare l’essenza» e, affermazione non secondaria, ha spiegato che nella politica di bilancio il taglio delle tasse stimola (sempre mantenendo i conti in ordine) l’economia più di quanto non faccia l’aumento della spesa pubblica. «Il punto chiave – ha ribadito – sono le riforme strutturali», che devono essere «ambiziose, importanti e forti». Inoltre, ha voluto fare un’aggiunta che va inevitabilmente letta come indirizzata all’Italia: dal momento che le basse aspettative sul futuro e sulle prospettive dell’economia limitano le possibilità di ripresa, sarebbe bene recuperare la fiducia con «prima una discussione molto seria sulle riforme strutturali e dopo sulla flessibilità».

Draghi e la Bce hanno dunque preso tutte le decisioni di politica monetaria possibili. Ora, le scelte cadono sui governi nazionali. In Italia, significa che Renzi e il governo devono realizzare riforme economiche vere e serie; almeno una, ad esempio quella del mercato del lavoro, in fretta, prima del vertice europeo sulla crescita del 7 ottobre. Non può essere come nella canzone di Jovanotti, dove al «ragazzo fortunato» di dieci cose fatte (o dette) ne è «riuscita mezza».

Una commedia degli equivoci

Una commedia degli equivoci

Danilo Taino – Corriere della Sera

Certe volte, sempre più spesso, l’Europa è il palcoscenico di una commedia degli equivoci. Di fronte alla disoccupazione alta, alla stagnazione dell’economia, al pericolo della deflazione, gli equivoci non dovrebbero però essere ammessi: l’eurozona è tornata a vivere una stagione di crisi e le ambiguità politiche e interpretative la rendono drammatica. 

La telefonata di ieri di Angela Merkel a Mario Draghi andrebbe catalogata tra gli scambi di valutazioni tra leader di fronte all’emergenza – non diversamente dall’incontro in Umbria di Matteo Renzi con il presidente della Bce una decina di giorni fa. La famosa frase di Draghi che bloccò la crisi del 2012 – la Banca centrale avrebbe fatto «qualsiasi cosa» per evitare la rottura dell‘euro – fu, per dire, preceduta da una conversazione tra il presidente della Bce e la cancelliera tedesca. Invece, oggi, si tende a verdere ovunque scontro e divisione. Non dovrebbe essere così. 

La gravità della situazione nell’area euro – l’unica al mondo che non riesce a togliersi di dosso i postumi della crisi e sembra immobilizzata –  è chiara a tutti. E i governi sanno che vanno messe in opera tutte le azioni – riforme, politiche di bilancio, politiche monetarie – capaci di scuotere la situazione, di dare una svolta. Significa che i governi nazionali devono fare quelle riforme finalizzate a rendere efficienti le economie: erano il presupposto della creazione della moneta unica europea, 15 anni fa, e molti Paesi non le hanno fatte. Significa che spese produttive e riduzioni del peso fiscale vanno messe in campo per stimolare le economie. Significa che la Banca centrale europea deve fare tutto ciò che può per evitare la spirale della deflazione e per favorire il credito all’economia. Il fatto è che tutto è chiaro, non ci sono misteri. Ma ci sono gli equivoci. 

Al seminario dei banchieri centrali di fine agosto a Jackson Hole, Wyoming, Draghi ha sostenuto che «nessuna quantità di aggiustamenti fiscali o monetari può sostituire la necessità di riforme strutturali: la disoccupazione strutturale era già molto alta nella zona euro prima della crisi». Senza riforme strutturali, più spesa pubblica e una politica monetaria espansiva semplicemente non funzionano, perché si perdono nelle sabbie di economie inefficienti. Qualche media internazionale ha invece dato una lettura del discorso di Draghi a Jackson Hole come un ripudio delle politiche seguite finora dall’eurozona, volute soprattutto dalla Germania. Commentatori e mercati sono entrati in confusione e, probabilmente, così qualche governante. In realtà, la posizione di Draghi – nota non da ora – è che si tratta di fare riforme che mettano i Paesi in grado di beneficiare di ogni azione espansiva possibile, di spesa o monetaria che sia. Non c’è equivoco, se non lo si crea.