commercio

Mignatte

Mignatte

Davide Giacalone – Libero

Aboliamo gli scontrini, puntiamo sulla tracciabilità usando i pagamenti elettronici, e l’Agenzia delle entrate non sarà più vissuta come un avvoltoio. Parole di Matteo Renzi. Già, peccato che è proprio lo Stato a non accettare i pagamenti elettronici. Peccato che anziché spiegarlo ai cittadini il capo del governo dovrebbe spiegarlo alla pubblica amministrazione. E peccato che anche questo rischia di essere un modo per ciucciare via soldi dalle tasche dei privati. Non saprei dire degli avvoltoi, ma la sensazione delle mignatte è forte.

Partiamo dall’osservazione del mercato europeo: i pagamenti in contante sono regolati in modo diverso e il nostro è il solo Paese in cui è considerato illecito pagare in moneta mille euro. In Germania non ci sono limiti all’uso del contante. Il fatto che sia anche l’economia che va meglio non necessariamente suggerisce un rapporto di causa-effetto, ma lascia che sia fondato il sospetto. Me ne sono occupato altre volte e non ci torno, ma giusto per premettere che oltre a perdermi il bello del paradiso fiscale mi scoccia subire il peggio dell’inferno monetario.

Posto ciò, non c’è dubbio: se tutti i pagamenti fossero elettronici e tracciati non ci sarebbero margini per l’evasione fiscale. Che bello. Ma fino a un certo punto, perché ci sono pagamenti di cui legittimamente non intendo lasciare traccia. Ma facciamo finta che sia superabile il problema della privacy. C’è un dettaglio, che forse al presidente del Consiglio sfugge: nel mentre si costringono tutti i privati a dotarsi del pos, ovvero del terminale per incassare pagamenti da carte di credito, di debito e prepagate, lo Stato non li accetta. Ieri sono stato all’ufficio postale, per pagare una cartella Equitalia, e non hanno accettato la mia carta di credito. Che si fa? Direi che si costringono le Poste, che sono una società dello Stato, ad accettare anche quel circuito (legittimo, pubblicizzato, serio e globale). Finché le Poste si permetteranno di non accettare la carta di credito, essendo le Poste dello Stato, il loro proprietario non ha la legittimità morale per imporre ad altri alcunché.

Ma non è finita. Se un negoziante mi chiede di pagare un obolo in più, una volta visto che intendo pagare con la carta di credito, egli commette un illecito passibile di denuncia. Ed è giusto che sia così. Salvo il fatto che è esattamente quanto succede con Equitalia, dato che se vuoi pagare on line con la carta di credito ti chiede un euro in più. Equitalia, per chi si fosse distratto, è dello Stato. Allora: perché un negoziante deve accettare di subire il costo della transazione e lo Stato no? Direi che, anche qui, manca la legittimità morale per far lezioncine su come sarebbe giusto, bello e sano pagare.

Ancora non ho finito. Provate a pagare sigarette, sigari o tabacco con la carte di credito. Nella quasi totalità dei casi vi diranno che non è possibile. Ma non è che i tabaccai siano perfidi o accidiosi, è che il margine a loro riconosciuto è così basso che, a seconda dei diversi circuiti delle carte di credito, sono praticamente equivalenti e in qualche caso inferiori al costo della transazione. Meglio non dimenticare, anche in questo caso, che i tabaccai sono sì dei privati (micro)imprenditori, ma concessionari dello Stato, che vendono (tra le altre cose) prodotti di cui lo Stato ha il monopolio. E’ lo Stato a dettare le condizioni che rendono inutilizzabile la carta di credito.

Conosco già la risposta a questi rilievi: usa il Bancomat. No, scusate: uso quello che mi pare. Se si vogliono promuovere i pagamenti elettronici non si può farlo né a spese dei cittadini né stabilendo per decreto signorile a quale circuito devo portare i miei quattrini. Se la carta di credito è lecita chi opera per conto dello Stato deve avere l’obbligo di accettarla. In caso contrario, almeno, la si smetta di dire cose senza senso e prive della benché minima esperienza di vita vissuta.

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Aprirsi ai commerci, ridimensionare il potere. In Cina come in Occidente

Carlo Lottieri

Entro questa Europa che sta avvitandosi su se stessa, l’unica vera strategia può consistere nell’allargare gli spazi di libertà. Solo una fuoriuscita dal mito dallo Stato e, di conseguenza, dall’interventismo pubblico può ridare una chance alle popolazioni europee. E in questo senso, una spinta nella direzione giusta potrebbe venire dal TTIP, ossia da quel “Transatlantic Trade and Investment Partnership” (trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti) che dovrebbe unificare le economie di Stati Uniti ed Europa.
De negoziati in atti, però, si parla assai poco e questo in promo luogo perché ben pochi credono che ampliare gli scambi sia un atto di civiltà e una scelta che favorisce la prosperità. In questo senso dovremmo imparare da chi, negli ultimi decenni (per giunta partendo da una situazione ben peggiore della nostra), ha saputo imboccare la strada giusta. Al riguardo può essere molto utile quanto scrissero Ning Wang e Ronald Coase – quest’ultimo scomparso lo scorso anno – in uno straordinario volume (il libro è stato tradotto in italiano da IBL Libri) volto a spiegare come e perché la Cina sia riuscita a diventare un Paese capitalista. Com’è successo che uno dei Paesi più statici, piegati dallo statalismo e distrutto da progetti folli quali la Rivoluzione Culturale e il Grande Balzo in Avanti abbia saputo mettersi sui giusti binari, tanto da crescere al ritmo del 10% all’anno? Mentre Europa e Nord America vanno perdendo sempre più dinamismo, com’è possibile che la Cina abbia invece imboccato la strada opposta?
Wang e Coase insistono su vari punti, ma in particolare su due. In primo luogo, essi sottolineano il carattere altamente decentrato della Cina, che è un autentico continente e che nel corso dei secoli non è mai stato gestito direttamente da Pechino, poiché nessun regime ha mai preteso tanto. Per giunta, lo stesso Mao evitò ogni dirigismo economico sovietico (basato su piani economici quinquennali) perché riteneva che una struttura di quel tipo avrebbe rafforzato i luogotenenti politici e avrebbe quindi rappresentato un pericolo per la sua leadership. Avere tanti capetti di livello locale era probabilmente meglio che non dotarsi di una tecnostruttura che disponeva dell’economia cinese.
Mao non aveva alcuna delle preoccupazioni che gli studiosi liberali hanno di fronte alla al dirigismo, ma perseguendo in modo assai machiavellico i suoi calcoli bloccò ogni eccessiva concentrazione del potere economico in poche mani. L’altra questione su cui gli autori insistono è il ruolo che hanno avuto i cambiamenti “ai margini”. In definitiva la Cina collettivizzata da Mao si è trovata a dover affrontare una povertà terribile e una disoccupazione di grandi dimensioni. In questo quadro drammatico e, spesso, a migliaia di chilometri dalla capitale, in varie circostanze quella che ebbe luogo fu una privatizzazione di fatto dei terreni che produsse ottimi risultati e poi venne presentata dal regime come l’effetto di una scelta strategia.
Anche nelle città, la nascita di imprese private ebbe luogo nell’illegalità. Non solo il regime comunista non organizzò in alcun modo i primi passi del sistema privato, ma neppure creò un quadro giuridico che favorisse tutto questo. L’afflusso nelle città di masse di disoccupati obbligò però molti ad arrangiarsi: e anche stavolta il Pcc si attribuirà i buoni risultati conseguenti. Il regime subì i cambiamenti, anche se ebbe la furbizia di non ostacolarli una volta che le cose ebbero avuto luogo e, anzi, si attribuì le trasformazioni quali effetti di decisioni “lungimiranti”.
Spesso s’insiste sul pragmatismo di cui diedero prova i comunisti cinesi e, in particolare, Deng Xia-ping, cui poco interessava se fosse meglio adottare Stato o mercato, perché l’importante era che l’economia crescesse. Questo è cruciale per capire l’apertura al mercato della Cina, ma anche Deng avrebbe potuto fare ben poco se – lontano dai centri potere – non ci fosse stata la coraggiosa iniziativa di chi ha osato, sfidando i pregiudizi e gli interessi consolidati. E oggi la partita cinese è assai più aperta – anche sotto il profilo politico – proprio grazie all’espansione di imprese che sfidano il mercato invece che rispondere a esigenze politiche.
Non lo si dice quasi mai, ma l’esperienza cinese è soprattutto quella di un potere che, un po’ alla volta, si è ridimensionato e ha finito per perdere il monopolio sulla società. Oggi – nonostante i molti problemi che persistono: dal partito unico alla situazione tibetana – la libertà individuale in Cina è assai più rispettata e il potere meno ramificato, perché le forze del mercato hanno creato spazi di autonomia e sparigliato le carte.
Se il coraggio d’intraprendere ha condotto entro un ordine capitalistico pure la Cina del marxismo in salsa maoista, perché non dovrebbe poter succedere lo stesso anche nella nostra Europa dominata da iper-regolamentazione, tassazione e redistribuzione? E se l’apertura del mercato cinese ha tanto aiutato quella società, perché mai questo non dovrebbe succedere anche sulle due coste dell’Atlantico?
Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Scontrino fiscale, bonus ai commercianti

Antonella Baccaro – Corriere della Sera

Una scatolina grigia, 15 centimetri per 20, collegabile con una connessione Usb al computer e il gioco è fatto. Voi acquistate in contanti o con carta, il commerciante batte il prezzo del prodotto, dalla piccola stampante esce lo scontrino cartaceo. Ma soprattutto, in tempo reale, da quello stesso apparecchio la transazione viene trasmessa per mezzo di un indirizzo e-mail ad un server che la archivia, una sorta di cloud (nuvola, ndr), capace di memorizzare milioni di operazioni. Le prime stampanti di scontrini digitali sono già in commercio, essendo state autorizzate a gennaio scorso. La novità è che il governo, per incentivarne l’uso, potrebbe accollarsene in tutto o in parte il costo, attraverso un meccanismo di detrazione fiscale.

Ma partiamo dal principio, che è la delega fiscale che ha già prodotto un decreto delegato sulla dichiarazione dei redditi precompilata che arriverà a casa di 20 milioni di contribuenti dall’aprile 2015. Ora però il governo ha intenzione di spingersi oltre e integrare quel 730 con un’ulteriore facilitazione: la possibilità di completare la dichiarazione precompilata con alcune spese detraibili. Nasce qui la necessità di introdurre lo scontrino digitale in uno dei prossimi decreti delegati, su cui sta lavorando una squadra di tecnici, coordinata dal viceministro Luigi Casero. In particolare si prevederà che, attraverso l’uso degli scontrini digitali, le spese sostenute per il medico, i farmaci, la palestra dei figli vengano inviate immediatamente al cervellone dell’Agenzia delle Entrate, con il semplice uso della tessera sanitaria, in modo che la dichiarazione che verrà inviata a casa del contribuente, a partire dal 2016, possa già contenere le detrazioni.

Ma cosa ci guadagna la controparte? Minori oneri per la conservazione e la rendicontazione delle scritture contabili: per i più piccoli il governo sta pensando di abolire l’obbligo di tenuta dei registri dei corrispettivi, oltre a concedere una detrazione per l’acquisto delle stampanti digitali. L’operazione però non sarebbe completa se non contemplasse l’attivazione del sistema della fatturazione elettronica anche tra privati (oggi è già in vigore nel rapporto tra lo Stato e i privati). Anche questa è allo studio e dovrebbe essere inserita nel prossimo decreto delegato, insieme con alcuni sistemi di incentivazione per chi adopererà la fatturazione elettronica: minori controlli fiscali, minori obblighi di presentazione di documentazione contabile.

Il quadro si completa con un accordo con il sistema bancario per rendere meno oneroso l’utilizzo di tutti i sistemi di pagamento elettronici, i cosiddetti Pos. L’obiettivo del governo è creare un sistema totalmente tracciabile ma anche sicuro: il server, ad esempio, dovrà soddisfare alcuni requisiti tecnologici di riservatezza. L’operazione è complessa e richiede ancora che alcune autorizzazioni giungano dall’Unione europea ma il governo conta che possa andare completamente a regime entro il 2018. Il risultato dovrebbe essere uno snellimento del sistema fiscale ma anche un forte recupero dell’evasione, in particolare di quella dell’Iva, l’imposta più evasa nel nostro Paese. In attesa che siano pronte le autorizzazioni e le infrastrutture informatiche, il recupero dell’evasione dell’Iva è stato temporaneamente affidato al sistema del reverse charge (inversione contabile,ndr) dal venditore all’acquirente (escluso quello finale).

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

E ora spunta lo spettro dell’aumento dell’Iva

Il Giornale

Nuova batosta in arrivo. I conti non tornano. E così per il pareggio di bilancio nel 2017 il governo ha previsto la clausola di salvaguardia da introdurre nella legge di stabilità che ipotizza l’aumento dell’Iva. Che cosa significa? «Una perdita di Pil pari a 0,7 punti percentuali a fine periodo dovuta a una contrazione complessiva dei consumi e degli investimenti per 1,3 punti percentuali e un aumento del deflatore del Pil di pari importo», recita la Nota di aggiornamento al Def trasmessa dal governo al Parlamento. La legge di stabilità, riporta il documento, «conterrà una clausola di salvaguardia automatica con la quale il governo si impegna ad assicurare la correzione necessaria a garantire il raggiungimento del saldo strutturale di bilancio in pareggio a partire dal 2017». In particolare, «è ipotizzata una clausola sulle aliquote Iva e sulle altre imposte indirette per garantire il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine per un ammontare di 12,4 miliardi nel 2016, 17,8 miliardi e 21,4 miliardi nel 2017 e nel 2018».

Insomma, la stangata sui consumi è assicurata. Ed è subito rivolta tra le associazioni di categoria, da Confcommercio a Confesercenti. «Un eventuale nuovo inasprimento della pressione fiscale, già a livelli da record mondiale, attraverso l’ennesimo aumento delle aliquote Iva e delle imposte indirette, acuirebbe la crisi strutturale che caratterizza il sistema Italia», ha affermato il presidente di Confcommercio, Carlo Sangalli. «In Italia è stato commesso l’errore di aumentare la pressione fiscale in un contesto già depresso. I margini delle imprese – ha sottolineato – sono al limite della sopravvivenza, i redditi e la ricchezza delle famiglie hanno subito una riduzione di entità senza precedenti nella nostra storia economica». «Mantenere il raggiungimento del pareggio di bilancio è un obbligo – ha aggiunto Sangalli -, ma è altrettanto evidente che per raggiungere questo obiettivo la via da seguire è tagliare la spesa pubblica improduttiva, visto che ci sono circa 80-100 miliardi di spesa ritenuti aggredibili».

Il ricorso alla clausola di salvaguardia è stato bocciato senza mezzi termini anche dalla Confesercenti. «Sarebbe una mossa sbagliata, non è questa la strada», ha detto il presidente Marco Venturi, che ricorda come la categoria si sia già lamentata per i due precedenti aumenti dell’Iva al 21% e al 22%. «In una situazione di crisi, con i consumi che vanno male e il commercio in fortissima difficoltà, se l’Iva dovesse aumentare, le famiglie sarebbero indotte a stringere ancora di più i cordoni della spesa. E se non ci sono i consumi si potrebbe verificare un’ulteriore frenata della crescita». Occorre piuttosto, secondo Venturi, «creare condizioni di fiducia, altrimenti si rischiano ripercussioni anche sul mercato del lavoro e dell’occupazione». Quanto alla possibile disponibilità del Tfr in busta paga Venturi commenta «non so a cosa possa servire se non a pagare più Iva».

Fortemente critici anche gli esponenti di Forza Italia e Ncd. «La clausola sull’Iva salvaguarda la Ue, salvaguarda il governo, ma non le tasche dei cittadini», ha scritto su Twitter il deputato di Fi Luca Squeri. Sulla stessa lunghezza d’onda Raffaello Vignali, responsabile Sviluppo economico del Ncd: «L’Ue smetta di guardare solo ai bilanci pubblici. L’ipotesi di una clausola di salvaguardia da inserire nel Def resta un’eventualità preoccupante, un clamoroso autogol per il Paese».

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Per sei italiani su dieci il commercio è un male

Danilo Taino – Corriere della Sera

C’è un recente sondaggio del centro di analisi americano Pew Research che dobbiamo sperare sia sbagliato. Parla di commercio internazionale e di investimenti tra un Paese e l’altro. E dice che il 59% degli italiani ritiene che il commercio distrugga posti di lavoro. Scioccante: 1’Italia è il Paese avanzato che è grazie alla sua apertura al mondo, all’industria nata sulle esportazioni, al miracolo economico emerso dalla guerra rinnegando l’autarchia. A disorientare ancora di più è il fatto che un’opinione simile sia espressa anche dal 50% degli americani, dal 49% dei francesi, dal 38% dei giapponesi. Che gli scambi globali aumentino l’occupazione lo pensa solo il 13% degli italiani; in America il 20%, in Francia il 24%, in Giappone il 15%.

Se si escludono questi quattro Paesi – che comunque pesano per oltre il 20% del commercio mondiale di merci e servizi – l’analisi di Pew in altri 40 Paesi indica che solo il 19% crede che il commercio distrugge posti di lavoro. Il 52% dei Paesi emergenti pensa anzi che li crei e la quota sale al 66% nei Paesi più poveri, in via di sviluppo. Quella parte di mondo – in genere chiamata Occidente (più il Giappone membro onorario) – che si immagina essere il faro dell’economia di mercato, aperta, senza barriere ha in realtà le opinioni pubbliche più scettiche – se non più contrarie – su un pilastro storico del capitalismo. A pensare che le locomotive dello sviluppo e della libertà di commercio, e in fondo della globalizzazione, non siano più i Paesi occidentali ma quelli asiatici e africani non si fa peccato, probabilmente ci si avvicina alla realtà. La conferma sta nelle opinioni espresse sugli investimenti esteri, cioè su quella rete di relazioni commerciali e produttive che caratterízza l’econornia moderna. Che un’impresa estera ne compri una locale è negativo per il 73% degli italiani (positivo per il 23%), per il 79% dei tedeschi (19%), per il 67% degli americani (28%). In media, un’acquisizione all’estero è considerata positiva dal 31% dei cittadini nei Paesi avanzati, dal 44% in quelli emergenti, dal 57% nei Paesi invia di sviluppo.

Queste percentuali non sono solo una curiosità. Hanno conseguenze politiche. Ad esempio sul negoziato transatlantico Ttip che Stati Uniti ed Europa stanno discutendo proprio per liberalizzare totalmente commerci e investimenti reciproci. Se Pew Research non ha sbagliato, firmare l’accordo tra Washington e Bruxelles sarà complicato.

La famiglia taglia anche la spesa

La famiglia taglia anche la spesa

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

Continua, senza soste, il lento scivolamento dei consumi in Italia. Ma, ora, a pagare il prezzo più salato della crisi è l’alimentare mentre si attenua la caduta dei prodotti non food. Le rilevazioni Istat di luglio indicano un calo delle vendite al dettaglio dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,5% rispetto a un anno fa. Spacchettando il dato però emerge che la contrazione dei prodotti alimentari è molto superiore a quella del non food: il 2,5% contro l’1 per cento. E anche le forme distributive dei beni di largo consumo risentono della divaricazione tra food e non food: le catene della gdo alimentare perdono l’1,7% su base annua mentre quelle del non food guadagnano lo 0,2%. I discount alimentari segnano una crescita dell’1,7% ma, a rete costante, il segno più si appiattisce. Il messaggio è chiaro: dopo aver eliminato gli sprechi, scoperto i discount, sostituito vari prodotti con altri meno costosi e approfittato della pioggia di promozioni, le famiglie stanno tagliando la lista della spesa. Persino la corsa degli italiani nel biennio d’oro 2012/13 verso smartphone e tablet si è esaurita: la domanda ora è in picchiata.

Dai dati Istat emerge che, su base annua, nel non food a soffrire di più sono cartoleria, libri e giornali (-3,6%), casalinghi (-2%), utensileria per la casa (-1,4%) e profumeria (-1,2%). «Il dato di luglio delle vendite al dettaglio – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – conferma che siamo ancora lontani dall’uscita dal tunnel e che la ripresa del Paese rimane un miraggio. Poi preoccupano i dati dei consumi di prodotti alimentari: il -2,5% è il segno che le famiglie stanno cercando economie e risparmi anche nei bisogni più essenziali». Per Cobolli è impressionante il calo dell’ortofrutta, «un tipico prodotto di consumo italiano. Dopo una prima forte caduta, la discesa è proseguita: sono mutate le abitudini di acquisto e sorge il dubbio che, anche quando la ripresa si manifesterà, sarà difficile tornare agli stili di vita precedenti». Anche per Coldiretti le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo sui consumi alimentari per il 47% delle famiglie,con la ricerca dei prodotti low cost e dei punti vendita meno cari. Secondo l’indagine Coldiretti nel carrello della spesa il 23% degli italiani ha ridotto i quantitativi di ortofrutta, il 21% acquista prodotti e varietà che costano meno, il 16% rinuncia a prodotti che costano troppo (dalle ciliegie ai frutti di bosco), il 13% è andato alla ricerca di punti vendita con prezzi più bassi.

Che fare? «Non abbiamo segnali – commenta Mario Resca, presidente Contimprese – che facciano presagire un’inversione di tendenza delle vendite nei prossimi mesi. Settembre è iniziato a rilento, complici anche le condizioni meteo che non hanno favorito un aumento di battute di cassa. E anche il bonus di 80 euro finora è stato utilizzato dalle famiglie per pagare bollette c risparmiare». Cauto Cobolli Gigli: «Io negli 8o euro ci credo. Intanto sono stati distribuiti 10 miliardi alle famiglie più bisognose che li hanno utilizzati, parte, per i consumi alimentari e, parte, per pagare le bollette e accantonarli. Sul medio periodo sono fiducioso che l’effetto cumulo induca le famiglie a spendere di più per i consumi». Per l’ufficio studi di Confcommercio «è necessario che nella Legge di Stabilità siano inseriti provvedimenti che, ridando slancio ai consumi, creino le premesse per una vera ripresa nel 2015».

Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Per dare ossigeno ai negozi servono incentivi ai consumi

Bruno Villois – Libero

La stagione più difficile per il commercio e i servizi non accenna a modificarsi, ogni azione messa in atto dai vari governi degli ultimi 2 anni, non ha prodotto nulla, anzi si sono innescare illusioni, come quella degli 80 euro che si sono sgonfiate in un batter d’occhio.

Il presidente di Confcommercio, Sangalli, ha lanciato continui inviti ad attivare iniziative pro consumi, che sono stati totalmente inascoltati dalla politica. Le piccole partite Iva sono oltre 5 milioni, commercio e servizi ne raccolgono poco meno della metà, insieme all’artigianato (che al suo interno ha anche la grande maggioranza degli edili) e all’agricoltura costituiscono oltre il 90% del totale. Numeri fondamentali per l’economia reale, che purtroppo, per il mondo politico, contano solo con l’approssimarsi delle scadenze elettorali, superate le quali, vengono totalmente dimenticati, mentre la grande industria, grazie al suo peso economico e al rapporto con i sindacati, ottiene dalla politica ben più attenzioni e sovente favori, le diminuzioni dell’Irap, e del costo dell’energia, sono prettamente di interesse della grande impresa e non certo del commercio, servizi e artigianato, nonostante che i tre settori, tra titolari e lavoratori, rappresentino un numero maggiore di cittadini di quelli espressi dall’industria. Il manifatturiero resta il perno della nostra economia, la grande maggioranza di tali produzioni è esclusivamente indirizzata al mercato interno, purtroppo i nostri consumi, di ogni tipo sono tornati ai livelli di trent’anni fa.

Industria e commercio sono collegati in maniera indissolubile, inutile favorirne la prima se non si sostiene il secondo. Da inizio crisi le chiusure di esercizi commerciali, artigianali e di servizi hanno sfiorato il 20% del totale, oltre 400 mila esercizi, altrettanti sono in sofferenza, in tutti i settori, ma soprattutto abbigliamento, arredi ed elettrodomestici ne sono le vittime principali. Discorso a parte merita l’alimentare, in cui piccoli esercizi hanno cominciato a scomparire, ben prima di inizio crisi e adesso sono rimaste solo vere boutique del cibo collocate nei centri delle grandi città. La grande distribuzione ha fatto piazza pulita, stessa situazione ha riguardato gli ambulanti dei mercati rionali.

A fronte di una così sconvolgente Caporetto del commercio e dei servizi, la politica non ha messo in atto nessuna vera azione a sostegno di un comparto essenziale sia per i cittadini che per i produttori. La pressione fiscale per le Pmi è cresciuta soprattutto a livello locale, con Imu, tassa rifiuti e acqua a tirare la volata, stessa cosa è avvenuta per i contributi previdenziali, in continuo aumento, mentre il lavoro nei migliori casi si è bloccato, nei tanti peggiori, è crollato.

Per ridare ossigeno al commercio servirebbe una incisiva azione a favore dei consumi, uno stimolo a spendere favorito da bonus fiscali concessi ad ogni contribuente sarebbe una manna del cielo. Oggi chi potrebbe fare acquisti, avendo reddito e certezza di occupazione, lo fa sempre meno, perché è disincentivato, grazie a strumenti come lo Spesometro, che fa scattare controlli fiscali a chi intende mettere mano al portafoglio. Una situazione che dovrebbe essere impensabile per uno stato dove il rapporto fiduciario tra cittadino e amministrazione dovrebbe essere alla base del sistema Paese, ma purtroppo così non è.

La deflazione è figlia del crollo dei consumi, il ricorso a continui sconti, saldi, 3×2, sono emergenze a cui ricorrono i commercianti per non essere sopraffatti dall’enormità delle incombenze, di ogni genere, a cui sono soggetti. Il governo per rianimare realisticamente i consumi, ed evitare il definitivo tracollo del commercio e dei servizi, ha solo più l’arma degli incentivi fiscali, un’arma che più passa il tempo e più diminuisce la fiducia per il futuro, rischia anch’essa di diventare spuntata. Agire subito è indispensabile, ogni ulteriore ritardo produrrà altri danni, forse irrecuperabili, al più bel paese del Mondo, che è il nostro.

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Renzi l’affamatore: aumenta anche il pane

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Sprechi e privilegi non si toccano ma per far cassa, Renzi sarebbe pronto a colpire pane, pasta, farina, burro e olio. Insomma i beni di prima necessità che, dall’oggi al domani, alla faccia del crollo dei consumi, sarebbero rincarati. Ciò che nemmeno Monti, nella cura da lacrime e sangue, ebbe il coraggio di fare, potrebbe essere servito da Renzi. E per farci ingoiare questo ennesimo sacrificio la giustificazione è già pronta: lo vuole Bruxelles. In un documento con una sfilza di consigli, la Commissione europea scrive che «c’è il margine per spostare ulteriormente il carico fiscale verso i consumi».

Ignorando quindi i dati che continuano a registrare il crollo dei consumi, la Commissione sostiene che «è determinante una revisione delle aliquote Iva ridotte e delle agevolazioni fiscali dirette». L’aliquota minima, quella del 4%, riguarda beni di prima necessità quali pane, pasta, riso, farina, latte, burro, formaggi, olio d’oliva, frutta, verdura e patate. Verrebbe colpita anche l’editoria ce già versa in una crisi comatosa. L’Iva al 4% è infatti anche su giornali, libri e riviste. Ma è anche su occhiali, lenti a contatti, materiali terapeutici, mense aziendali e scolastiche. A rischio anche la fascia di beni con aliquota al 10%. Si tratta di acque minerali, uova, zucchero, latte conservato, pesce, carni e salumi, cioccolato, tè, marmellate, yogurt, birra. Subirebbero rincari cinema e teatri, alberghi e pensioni, tutti i trasporti (ferroviari, marittimi, aerei e autobus), l’energia elettrica, il gasolio e il gas, la raccolta dei rifiuti. Sarà più caro un pasto al ristorante e la consumazione al bar.

Al momento è solo un’ipotesi al vaglio dei tecnici del ministero dell’Economia ma il fatto che lo sponsor sia proprio Bruxelles le dà maggio forza. Perchè se Renzi davanti alle televisioni ostenta il pugno duro contro i diktat europei, in realtà è molto attento alle raccomandazioni della Commissione europea. Anzi potrebbe sfruttarle per giustificare decisioni ad alto tasso di impopolarità. Un po’ quello che è stato con la riforma Fornero delle pensioni. Ogni punto di Iva vale 4 miliardi di gettito. Una cifra da non sottovalutare per un governo con l’acqua alla gola. Tanto più che in un momento di bassa inflazione sarebbe facile da applicare. Che poi questo possa comprimere ancora di più i consumi è un problema che il governo potrebbe giustificare estendendo per un altro anno il bonus da 80 euro.

Contro l’ipotesi di un rincaro dell’Iva si è già scatenata la polemica generale. In prima fila le categorie del commercio che temono dai rincari un ulteriore crollo delle vendite. «Sarebbe davvero una follia, specie in una situazione nella quale l’Italia è già con un piede nella deflazione: anche se si trattasse di uno spostamento selettivo di beni dalle aliquote più basse, quelle del 4% e del 10%, un’ulteriore caduta dei consumi sarebbe infatti inevitabile» commenta la Confesercenti.

Le conseguenze sarebbero drammatiche: «Si sottrarrebbero una serie di beni alle possibilità di acquisto di vasti ceti popolari, con un ritorno inferiore alle attese in termini di gettito. Senza contare il raddoppio delle chiusure di imprese nel commercio e nel turismo, già oltre quota 50mila nei primi 8 mesi del 2014».

Confesercenti ha calcolato che portando l’aliquota dal 4% al 10% «l’aggravio per le famiglie sarebbe pari a 5 miliardi l’anno». Per la Confcommercio «sarebbe il colpo di grazia per imprese e famiglie. Verrebbero colpiti soprattutto i redditi medio bassi che hanno beneficiato del bonus di 80 euro, neutralizzandone l’effetto». Contro l’aumento delle aliquote minime anche tutti i partiti. «Sarebbe il de profundis per la nostra economia» afferma il presidente della Commissione di Vigilanza sull’Anagrafe Tributaria Giacomo Portas, eletto alla Camera nel Pd. Per Squeri di Forza Italia «è un’ipotesi suicida. Come si può parlare di crescita se si continuano ad alzare le tasse? Se la risposta del governo al Pil che affonda, al potere d’acquisto delle famiglie ridotto al lumicino e ai consumi fermi, con conseguente crisi delle attività commerciali, è il via libera all’aumento delle aliquote iva ridotte, significa che davvero si è perso il senso della realtà». Per il vicecapogruppo Ncd alla Camera, Dorina Bianchi sarebbe «un grave passo falso del governo. Ci saremmo aspettati una smentita da parte del Tesoro. Invece di cambiare davvero verso, si continuerebbe così sulla scia di politiche di austerità che tanti danni hanno procurato al nostro tessuto produttivo». «Sull’aumento dell’Iva saremo irremovibili, respingeremo pressing Ue e avvisi di ogni sorta e invitiamo Renzi a fare altrettanto», tuona Barbara Saltamartini, portavoce del Nuovo Centrodestra. E sottolinea che «con una pressione fiscale a quota 44%, anche solo immaginare un aumento dell’Iva sarebbe una scelta improvvida, che avrebbe effetti deleteri su consumi per famiglie e imprese».

Basta aumenti Iva

Basta aumenti Iva

Francesco Forte – Il Giornale

Circolano due notizie inquietanti. L’Unione europea avrebbe chiesto all’Italia di aumentare al 10% l’Iva, attualmente al 4% per i generi alimentari e altri beni di prima necessità. E il Pil italiano quest’anno anziché crescere dello zero, come si è visto dai dati sino a luglio, decrescerebbe secondo l’Ocse dello 0,4 (con un peggioramento nel secondo semestre) e ciò danneggerebbe l’equilibrio di bilancio e il rapporto debito/Pil. Di qui una manovra correttiva, che verrebbe attuata sul lato delle imposte, anziché sul lato delle spese e delle privatizzazioni.

Se si seguisse la prima tesi, insieme alla seconda, ciò diventerebbe un vero suicidio. E i famosi 80 euro in busta paga apparirebbero una presa in giro, insensata. Che il Pil debba decrescere dello 0,4 in Italia nel 2014 mentre quello medio dell’Eurozona avrà comunque secondo l’Ocse un modesto andamento positivo, è qualcosa che dipende da ciò che Renzi si deciderà a fare, tanto per il decreto Sblocca Italia, che ancora non è operativo, quanto per l’urgentissima liberalizzazione del mercato del lavoro, di continuo rimandata e ridimensionata.

Comunque, in questo frangente, il governo non si può permettere un aumento generale al 10% dell’aliquota Iva del 4%, che in parte ricadrebbe, come maggior onere, sui consumatori e in parte rimarrebbe a carico delle imprese, accrescendo la crisi che serpeggia in molti esercizi commerciali e in molte imprese dei beni di largo consumo. E non si potrebbe neppure addurre l’argomento adottato per aumentare le imposte sugli immobili e reintrodurre quella sulla prima casa, ossia che esse riguardano i proprietari (come se non ci fossero persone a basso reddito che lo integranti con qualche modesto possesso immobiliare). L’aliquota Iva del 4% riguarda frutta, pasta, pane, verdura, latte, latticini, formaggi, cereali, pesce, crostacei, fertilizzanti, giornali, articoli per disabili, medicinali, vendita di prima casa e analoghi beni considerati di prima necessità.

Guardando con attenzione la lista, si trova che qualche aliquota del 4% è un privilegio, ma non sembra che lo si possa dire per l’elenco di massima appena esposto. Se è vero che esiste una richiesta dell’Unione europea di aumento dell’aliquota dal 4% al 10%, ciò non può riguardare i beni di consumo nella fase finale, perché questa tassazione è competenza dei singoli Paesi. Al massimo la richiesta europea per il consumo finale è di adottare l’aliquota ridotta comunitaria del 5% e non del 4%, ma l’Italia non è l’unico Paese che ha ottenuto questa piccola deroga.

Ciò che l’Unione europea ci può chiedere è di portare al 10% l’aliquota prelevata sui beni importati, per armonizzare il traffico internazionale comunitario. Questo può convenire anche a noi, perché ci consente di penalizzare le aziende produttive e gli esercizi commerciali che non fatturano l’Iva alla propria clientela. Essi perderebbero il diritto al rimborso del 10% sulla merce importata corrispondente e la loro concorrenza sleale rispetto agli esercizi che effettuano le fatturazioni diminuirebbe. L’Iva al confine per il traffico extracomunitario si controlla facilmente per i beni di massa di natura agroalimentare dato il loro volume e dato che, quando si tratta di prodotti freschi, si debbono adottare veicoli speciali a ciò attrezzati, Per il traffico comunitario non c’è la tassazione al confine, ma per i veicoli che trasportano i prodotti freschi è agevole fare i controlli presso i luoghi di destinazione all’ingrosso. Questo gettito comporta un recupero di imposte evase e non un onere per il consumatore, posto che alla fase finale il tributo rimanga al 4%.

Per il pane, la pasta, il latte, la frutta e la verdura ecc. che si vende nei negozi, la decisione dell’aumento appartiene al governo italiano. E sarebbe una ingiuria al buon senso l’effettuare questo aumento proprio ora, che la gente tira già la cinghia e che c’è scoraggiamento. Se il Pil diminuisce, anziché crescere di zero, il governo deve tagliare le pubbliche spese di natura variabile, non aumentare le entrate. In una famiglia, se il reddito cala, si tagliano tutte le spese variabili, non solo quelle dei biondi e non dei bruni e dei calvi o viceversa.

Quel commercio senza aiuti

Quel commercio senza aiuti

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Se non riparte la domanda interna, non riparte l’intera Azienda Italia. I dati del Rapporto Coop testimoniano, ancora una volta, la drammatica crisi della capacità di spesa delle famiglie. Ci vuole dunque una scossa forte, urgente, che stimoli investimenti e nuovo lavoro e dia fiducia ai consumatori. Servono ricette nuove. Proviamo a dare incentivi alle promozioni.

Alleggeriamo dunque il fisco su lavoro e imprese, ridiamo fiducia alle famiglie, diamo vantaggi concreti a chi fa promozioni ma facciamo presto, altrimenti perdiamo anche il treno del 2015. La crisi dei consumi, determinata in generale dal progressivo dimagrimento dei redditi e dalle turbolenze del mercato del lavoro, si protrae da anni ed oggi presenta un consuntivo pesante, come testimoniano i risultati del Rapporto Coop. La crisi ha anche provocato mutazioni profonde nei comportamenti di spesa delle famiglie costrette a razionalizzare drasticamente gli acquisti.

Ciò che dobbiamo fare oggi però è guardare avanti, traendo profitto dalla lezione di questi anni. Siamo infatti a un punto che potrebbe essere di svolta. Un punto dal quale è possibile iniziare un il recupero della domanda interna. Alcuni segnali ci sono, come quelli che arrivano dal fronte dei mutui, ad esempio, in moderata ma apprezzabile ripresa. Le decisioni espansive della Bce possono costituire la cornice macro di interventi che il Governo dovrebbe però adottare in tempi rapidi per stimolare il mercato interno. Ci vorrebbe un mix di iniziative tra alleggerimento fiscale e bonus per incentivare i consumi. Il punto è che i provvedimenti temporanei esauriscono i benefici nel tempo. Sarebbe invece opportuno pensare a un percorso di alleggerimento e di incentivazione che diventasse stabile con il tempo. Il tutto accompagnato da un rilancio della modernizzazione dei canali distributivi. Il fatto che per la prima volta sia in calo la quota di nuove superfici di vendita delle strutture moderne è un segnale davvero preoccupante, in aggiunta alla grave crisi del dettaglio tradizionale. Più investimenti e più concorrenza nel settore commerciali portano a prezzi più convenienti in termini relativi.

Dobbiamo recuperare poi due divari chiave: quello con gli altri Paesi leader d’Europa, rispetto ai quali la dinamica della domanda interna italiana è sempre più distante, e quello domestico. La spesa delle famiglie flette un po’ ovunque in media ma al Sud il calo è tre volte più alto rispetto al Nord.