fiducia

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Ripresa? I numeri dell’Italia che “mettono all’angolo” l’Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

I fine settimana sono utili anche per assimilare rapporti, documenti e dati che nei giorni feriali hanno avuto una lettura superficiale, specialmente in quotidiani dove la pressione a “chiudere” non permettere di cogliere le sfumature. Ad esempio, il 27 novembre (Giorno del Ringraziamento negli Stati Uniti) è stata data molta enfasi, soprattutto in televisione, all’utile “Congiuntura Flash” del Centro Studi Confindustria (Csc), un documento che, proprio perché di poche pagine, richiede un’attenta lettura.

In effetti, mentre gran parte dei “mezzi busto” televisivi hanno sbrigativamente parlato di “ripresa dietro l’angolo” e alcune testate di livello hanno annunciato “una ripartenza in primavera”, il testo è molto più cauto: si limita a sottolineare come una crescita zero del Pil nel quarto trimestre (ma il dato sarà noto solo a fine gennaio/inizio febbraio) sarebbe “una buona base” per indicare che dopo sette anni di recessione si sta ricominciando a crescere. Soprattutto, la nota Csc enfatizza che “le riforme strutturali danno frutti nel medio periodo, ma nel breve rispondono al cambiamento e infondono fiducia”.

In parallelo con la nota Csc, è stato diramato il breve, ma succoso, rapporto mensile Istat sul clima di fiducia delle imprese; a novembre 2014 l’indice composito del clima di fiducia delle imprese italiane (Iesi, Istat economic sentiment indicator), espresso in base 2005=100, scende a 87,7 da 89,1 di ottobre. Il primo grafico a fondo pagina mostra a tutto tondo come non si sia ancora alla fase in cui riforme (peraltro in gran misura solo enunciate in termini approssimativi) infondano fiducia.

Contemporaneamente, l’Istat ha diffuso il rapporto periodico sulla produttività e competitività (si veda il secondo grafico a fondo pagina). In breve, il sistema è affaticato. Una ragione è la frammentazione. Le imprese attive dell’industria e dei servizi di mercato sono 4,4 milioni e occupano circa 16,1 milioni di addetti, di cui 11,2 milioni sono dipendenti. La dimensione media si conferma di 3,7 addetti. La spesa sostenuta per gli investimenti ammonta a circa 92 miliardi di euro e il valore aggiunto realizzato a circa 690 miliardi di euro.

Nell’industria in senso stretto, le imprese attive sono 437.650, assorbono 4,2 milioni di addetti – in larga maggioranza dipendenti (3,6 milioni, pari al 32,2% dei dipendenti complessivi) – e realizzano circa 245 miliardi di euro di valore aggiunto. All’interno del segmento delle microimprese, risulta rilevante la presenza di imprese con non più di un solo addetto (2,4 milioni di unità), che realizzano un terzo del valore aggiunto di questo segmento dimensionale. Le fasce dimensionali delle piccole (circa 190.000 unità con 10-49 addetti) e delle medie imprese (circa 21.000 unità con 50-249 addetti) assorbono rispettivamente 3,3 e 2 milioni di addetti, con una presenza relativa importante soprattutto nell’industria.

D’altro canto, le grandi imprese ammontano a circa 3.400 unità e impiegano 3,1 milioni di addetti su oltre 16 milioni. Alla produzione del valore aggiunto complessivo contribuiscono per il 22,3% le microimprese dei servizi, seguite dalle grandi imprese dei servizi (17,1%) e dalle grandi imprese dell’industria in senso stretto (13,8%). Le imprese delle costruzioni con almeno 10 addetti forniscono il contributo più basso alla realizzazione di valore aggiunto (in totale 3,7%).

Ancora più preoccupante il quadro occupazionale (nel grafico a fondo pagina). A ottobre 2014 gli occupati sono 22 milioni 374 mila, in diminuzione dello 0,2% rispetto al mese precedente (-55 mila) e sostanzialmente stabili su base annua. Il tasso di occupazione, pari al 55,6%, diminuisce di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali mentre aumenta di 0,1 punti rispetto a dodici mesi prima. Il numero di disoccupati, pari a 3 milioni 410 mila, aumenta del 2,7% rispetto al mese precedente (+90 mila) e del 9,2% su base annua (+286 mila). Il tasso di disoccupazione è pari al 13,2%, in aumento di 0,3 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,0 punti nei dodici mesi.

I disoccupati tra i 15 e i 24 anni sono 708 mila. L’incidenza dei disoccupati di 15-24 anni sulla popolazione in questa fascia di età è pari all’11,9%, in aumento di 0,1 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 0,7 punti su base annua. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, è pari al 43,3%, in aumento di 0,6 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 1,9 punti nel confronto tendenziale. Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni diminuisce dello 0,2% rispetto al mese precedente (-32 mila) e del 2,5% rispetto a dodici mesi prima (-365 mila). Il tasso di inattività si attesta al 35,7%, in diminuzione di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e di 0,8 punti su base annua.

Ciò indica l’urgenza di una politica industriale volta non a sussidiare questo o quello, ma a facilitare, anche tramite concentrazioni e fusioni, maggiori dimensioni medie d’impresa – essenziali per raggiungere adeguate economie di scala e un’efficiente utilizzazione di ammodernamenti tecnologici.

Le certezze che mancano

Le certezze che mancano

Federico Fubini – La Repubblica

Il passo del governo di recente è così rapido che è mancato il tempo di ripensare a un dettaglio. È un peccato, perché su di esso si giocano la legge di Stabilità o il rapporto dell’Italia con il resto d’Europa. E quel dettaglio è ingombrante: quest’anno le previsioni di crescita si sono dimostrate fuori bersaglio di 15 miliardi. L’Italia credeva di essere in ripresa, ma era in recessione.

Si tratta di capire come sia stato possibile sbagliare la mira di tanto. È una domanda decisiva per la legge di Stabilità in gestazione, perché nella soluzione di quel rebus il governo di Matteo Renzi può trovare una guida che gli eviti nuove trappole. L’Italia nel 2014 è andata peggio del previsto in parte perché l’export ha deluso, anche a causa della frenata in Cina, Russia o Germania. Ma l’altra origine della recessione del 2014 è più vicina a casa ed è questo che conta per la legge di Stabilità 2015: il Pil è sceso perché gli italiani hanno investito in costruzioni e macchinari industriali molto meno del previsto. Gli investimenti dei privati sono scesi del 2%. È mancata la fiducia: chi ha denaro da mettere al lavoro per creare impianti lo ha tenuto fermo, incapace di farsi un’idea su cosa lo aspetta sulle tasse, le regole del lavoro o i tempi della giustizia.

L’incertezza produce paralisi, ma proprio per questo ha un ruolo di primo piano nella legge di Stabilità di cui ieri al Quirinale hanno parlato Giorgio Napolitano e Matteo Renzi. Il nuovo bilancio potrà contenere o togliere un premio ai ceti medio-bassi o ai fondi pensione, togliere tasse dalle imprese o dai nuovi contratti e imporre tagli agli enti decentrati. Ma non otterrà quello che vuole – il primo anno di crescita dal 2010 – se non produce certezze su ciò che gli italiani si devono attendere da ora in poi. In assenza di questo ingrediente immateriale, nessuno investirà per ampliare un cementificio, aprire un ristorante, situare una fabbrica in Italia anziché in Romania.

Quanto a questo, i fotogrammi che passano sotto gli occhi in queste ore non aiutano. Non c’è dubbio che la Ragioneria generale dello Stato alla fine metterà il suo timbro sulla legge di Stabilità, né che il capo dello Stato assecondi – nel suo ruolo – la spinta di Renzi per disincagliare l’economia. Qualche dubbio invece può esserci sulla capacità di questa legge di bilancio di produrre certezze. L’aggiornamento al documento di economia e finanza del Tesoro, un paio di settimane fa, annuncia che anche nei prossimi anni gli italiani cammineranno su un terreno mobile. L’Iva può salire in automatico di 12 miliardi nel 2016 e fino a 21 nel 2018 se non fossero raggiunti gli obiettivi di deficit. Il Tesoro stesso avverte che ciò può portare a una caduta di consumi e investimenti e meno Pil per circa 10 miliardi. Sulla base di una nota a pie’ di pagina nei documenti del governo, non è facile rischiare i propri soldi per produrre beni o servizi al consumatore in Italia. Più difficile ancora se, per varare la legge di Stabilità su un terreno solido in termini contabili, una clausola simile fosse inserita già dal 2015.

L’incertezza ha un suo modo virale di trasmettersi e questa viene da quella di certi provvedimenti inseriti a copertura dei tagli di tasse nella legge di Stabilità. Già da ora il governo per esempio prevede entrate in più per 3,8 miliardi dalla lotta all’evasione. Le novità su questo fronte sono importanti e una di queste è il pagamento dell’Iva da parte dei committenti, non più da parte di imprese di pulizia o costruzioni che spesso “dimenticano” di farlo. Yoram Gutgeld, consigliere di Renzi, è in buona fede quando prevede che le risorse dalla lotta all’evasione saranno anche maggiori del previsto. Ma tredici anni di impegno su questo fronte hanno prodotto dieci miliardi e, se avverrà, il 2015 segnerebbe dunque un balzo straordinario. Certo quest’anno le risorse dall’evasione sono state di 300 milioni, dieci volte meno. Prudenza imporrebbe di non dar quasi niente per scontato e tenere conto dei risultati solo a fine anno: così farà la Commissione europea nel giudicare il bilancio italiano, non a caso il governo deve ricorrere alle maxi-clausole sull’Iva che bloccano la visibilità sul futuro.

Altri dubbi si potrebbero poi avere sui 6,2 miliardi di tagli su regioni e enti locali. La realtà dell’Italia di oggi è che moltissime amministrazioni hanno conti in parte falsi, da ripulire dolorosamente: trovare sei miliardi in più di economie presuppone una profonda riorganizzazione dei poteri locali, del loro numero e dei loro statuti autonomi o speciali. Eppure nessuno ne parla, meno di tutti il governo. Renzi ha impostato una legge di Stabilità per dare una scossa positiva alle famiglie e alle imprese, a costo di sfidare la Commissione Ue. Ormai non gli serve a nulla trovare nuovi capri espiatori se qualcosa non va. Il suo compito, più faticoso, adesso è solo produrre certezze.

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Ridare fiducia a imprese e famiglie

Vincenzo Chierchia – Il Sole 24 Ore

Si allunga l’ombra dello spettro della deflazione, ossia del calo generalizzato dei prezzi al consumo, scenario che suscita non pochi grattacapi, per l’effetto deprimente su consumi interni già ai minimi e per i contraccolpi negativi sulle attese degli operatori economici. Si rafforzano dunque le richieste al Governo di interventi a sostegno della domanda interna mentre le imprese chiedono sostegni agli investimenti. L’obiettivo è quello di spezzare quel circolo vizioso all’interno del quale ci stiamo lentamente avvitando: prezzi in calo, domanda debole, attese sempre più negative sulle opportunità offerte alle imprese e sulle prospettive di reddito delle famiglie.

Certo, non va dimenticato che il dato sull’inflazione di settembre è stato condizionato dalla flessione dei beni energetici e delle comunicazioni. Restano invece in tensione, sia pure con incrementi da prefisso telefonico, i prezzi rilevati dall’Istat per capitoli importanti come istruzione e ristorazione (compresi i servizi ricettivi). Gli alimentari scontano qualche tensione dovuta al maltempo che ha interessato soprattutto i prodotti freschi. Il punto è che ci avviciniamo sempre più all’inflazione zero, se guardiamo al dato di fondo (core), ossia alla dinamica dei prezzi al consumo depurata da componenti più volatili come l’energia. Un obiettivo agognato in Italia negli anni dei prezzi galoppanti, della sindrome sudamericana peraltro molto cavalcata all’epoca dalla politica. Oggi ci fa più paura la deflazione perché è sintomo di paralisi del sistema economico, sempre più immobilizzato nelle spire di una stagnazione che si sta rivelando quasi endemica.

Cosa fare allora? Dobbiamo spezzare le catene e dare una scossa al sistema, ma non basta. Dobbiamo ridare fiato alle aspettative, ma ci vogliono interventi su più fronti. Gli operatori commerciali lamentano appunto che i prezzi scendono ma i carrelli sono vuoti. Beni e servizi costano meno in media, è vero, ma il punto è che le famiglie non se ne accorgono o quasi. I depositi in banca aumentano ma certo non per far salire la quota di consumo. Ci può forse consolare il fatto che la stagnazione investe anche il resto d’Europa? Che i nostri cari amici tedeschi soffrano anche loro? Che i nostri cugini francesi abbiano più o meno le nostre stesse difficoltà? La Banca centrale europea sta cercando di intervenire in maniera massiccia per immettere benzina nel sistema economico continentale facendo tra l’altro leva sul fatto che l’obiettivo di inflazione è più lontano. Ma finora non c’è stata una reazione forte. Serve tempo si dirà. Se Francoforte da un lato e i Governi nazionali ci si mettono d’impegno dall’altro la ripresa non può tardare. A quel punto però conteranno le riforme strutturali dei vari sistemi nazionali. È questa la scossa da dare. Occorre far capire che si sta intervenendo nel profondo e che si aprono nuovi spazi a una maggior fiducia sulle prospettive del Paese e così dell’intera Ue.

La spinta che serve per costruire la fiducia

La spinta che serve per costruire la fiducia

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Non è irrealistico pensare che anche la quota di Tfr destinata alla busta paga rischi di non finire ai consumi, così come sono rimasti “sotto il materasso” gli 80 euro. Complessità fiscali e previdenziali a parte, basta leggere le mail che arrivano al giornale o i messaggi indirizzati a Radio24 per capire come gli italiani abbiano un’idea “sacra” della liquidazione. È un unicum nel panorama dei Paesi occidentali e proprio per questo ha un valore a sé di paracadute per l’imponderabile futuro. Ma ha anche un retrogusto da fine Ottocento, quando i socialisti venivano chiamati “ciucia liter” perché dediti alle riunioni in osteria, politicamente accese e alcolicamente generose. Era il tempo in cui veniva concordato il salario settimanale proprio per evitare che quello giornaliero finisse “scolato” nottetempo tra bicchieri e intemerate rivoluzionarie. Questa idea “di sinistra” del salario – o di una parte di esso – come risparmio differito si è evoluta fino alla famosa “liquidazione”.

Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l’operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l’idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L’ottimismo non è in vendita. Nemmeno quello che il premier sparge a piene mani – e con retorica efficace – in ogni contesto, dalla direzione Pd all’assemblea dell’Onu. È uno sforzo comunque lodevole e necessario. Guai ad avere leader piagnoni e disfattisti. Ma non è sufficiente, perché non basta il verbo dell’uomo solo al comando per far cambiare verso a un intero Paese, complesso, stratificato, percorso e pervaso da interessi spesso contrapposti e conflittuali.

Il programma strategico di Renzi dell’operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell’ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Né è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perché, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull’articolo 18). Certo, c’è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca.

I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. E, come dimostra anche la storia del nostro Paese, dà la robustezza necessaria a quella tela per poter reggere anche i peggiori rovesci dell’economia. Perchè tutti, alla fine – come cittadini prima ancora che come capitalisti, imprenditori, lavoratori, professionisti, volontari – condividono l’obiettivo e remano nella stessa direzione. E a muoversi è l’intero Paese. Soprattutto è semplicistico pensare che il valore del consenso sociale sia una commodity, come lo è la musica da scaricare con i-Tunes o come lo è l’attività di trasporto urbano al centro della guerra tra Uber e i tassisti tradizionali. Né è pensabile che la mediazione del consenso sia spazzabile da una App digitale così come è stata spazzata l’epopea delle guide turistiche o quella delle agenzie di viaggio. Certo, oggi si comprano libri senza librerie, vestiti senza boutique, si ordinano cibi, si prenotano babysitter, dogsitter, badanti con un click. Ma non c’è ancora la democrazia on demand. Non ha funzionato (o ha funzionato in minima parte) l’idea – anni ’90 – che un candidato politico fosse “vendibile” come un detersivo; è stato utile introdurre elementi di marketing nella politica, non ridurla a politica-spettacolo.

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Francesco Manacorda – La Stampa

Potrebbero servire davvero altri 100 euro in busta paga promessi ieri dal premier agli italiani – per la precisione solo ad alcuni italiani – a spingere i consumi e l’economia? A differenza degli 80 euro messi a marzo nelle buste paga più basse attraverso un taglio delle aliquote fiscali questi nuovi 100 euro – che deriverebbero dall’anticipo di metà della liquidazione e riguarderebbero solo i dipendenti privati – non sarebbero reddito aggiuntivo, ma semplicemente reddito anticipato: una somma che va subito nella disponibilità dello stesso lavoratore a fronte però di una rinuncia a riscuotere dalla sua azienda quella stessa somma, debitamente rivalutata alla fine del rapporto di lavoro.

Alcune imprese, in questo scenario, potrebbero trovarsi penalizzate rispetto a quanto è accaduto in marzo. Allora, infatti, si decise di tagliare il cuneo fiscale sul lavoro solo a favore dei dipendenti e sulle aziende non ci furono effetti, ne negativi né positivi. Adesso, invece le aziende sotto i 50 dipendenti – quelle che possono tenere il Tfr in cassa e lo usano per soddisfare le loro esigenze di liquidità – vedrebbero svuotarsi all’improvviso la cassaforte. Renzi assicura che si verrà incontro alle loro esigenze facendo sì che il denaro a basso costo che arriva dalla Bce alle banche italiane sia convogliato proprio a queste aziende. Le banche non paiono intenzionate a fare le barricate. Dunque la soluzione è possibile, ma probabilmente non è semplice: le esperienze di credito per decreto del passato – ricordate i prefetti che secondo Giulio Tremonti dovevano vigilare sulle banche? – non sono memorabili. E in più adesso gli istituti devono fare i conti con una serie di esami e regole internazionali che li porteranno a stringere e non ad allargare il credito.

Al di là delle polemiche sull’utilizzo del Tfr, comunque, è chiaro che per il governo – in questa fase economica – il risparmio privato, in alternativa ai consumi, non è più una virtù. Del resto, se è vero che dalla crisi del 2008 a oggi il tasso di risparmio delle famiglie italiane è calato sensibilmente – secondo i dati Bankitalia solo dal 2008 al 2010 è sceso dal 12,1 al 9,7% del reddito lordo – resta il fatto che si tratta di una percentuale elevata se confrontata a quella di altri Paesi occidentali. I depositi bancari, poi, aumentano e da due anni le sottoscrizioni di fondi comuni salgono senza sosta: solo nei primi sei mesi del 2014 gli italiani hanno messo nel risparmio gestito 60 miliardi contro i 65 dell’intero 2013.

Il problema, però, è che la cinghia di trasmissione tra reddito disponibile, propensione ai consumi e propensione al risparmio non funziona sempre allo stesso modo. È ovvio che se il reddito è appena sufficiente sarà speso tutto in consumi e il risparmio diminuirà o scomparirà del tutto. Ma non è altrettanto ovvio che mettendo più soldi in tasca agli italiani – siano essi 80 o addirittura 180 euro – questi si trasferiscano integralmente, o almeno in parte, sui consumi. In una fase d’incertezza come questa è più facile che vengano destinati a un prudente risparmio. Addirittura si potrebbe pensare che in alcuni o in molti casi il Tfr anticipato possa essere reinvestito subito in piani pensionistici individuali, per far fronte a un trattamento futuro che – basato ormai solo sul sistema contributivo – sarà inevitabilmente più basso di quello della generazione precedente. In Italia ci lamentiamo molto dell’insistenza tedesca per un’austerità di bilancio che rischia di soffocare l’economia, ma poi ciascun capofamiglia cerca per quanto possibile di fare di casa sua una piccola Berlino, virtuosa nelle scelte finanziarie, prudente nelle spese e nemica del debito.

Mettiamola così: senza soldi in più i consumi non sono destinati a crescere. Ma solo con soldi in più non è assolutamente detto che crescano. Per far rinnegare agli italiani la virtù privata del risparmio che si trasforma in vizio pubblico serve anche la fiducia. O almeno ci vuole qualche certezza in più all’orizzonte. Su alcuni fronti che alimentano l’incertezza – dalla Siria all’Ucraina – un singolo governo nazionale non può quasi nulla. Su altri capitoli, invece, può essere incisivo: una ragionevole certezza sull’assenza di nuove tasse (anche occulte o in arrivo dagli enti locali), una definizione chiara delle regole sul lavoro e una transizione – se ci sarà – all’anticipo del Tfr senza eccessive complicazioni per dipendenti e aziende, peseranno di sicuro sulle nostre scelte di consumo e di risparmio. Anche se a fine mese non le vedremo segnate sulla busta paga.

Ai minimi la fiducia delle imprese

Ai minimi la fiducia delle imprese

Luca Orlando – Il Sole 24 Ore

Scegliete un dato, uno qualunque. Perché sia che si tratti di prodotto interno lordo o produzione industriale, di domanda interna o export, di erogazione di credito o investimenti, le conclusioni sono pressoché identiche: l’economia italiana va male. Si può discutere sui dettagli, aggrapparsi a qualche zero virgola di differenza nelle stime sul Pil 2014, ma il senso delle statistiche offre in realtà un quadro omogeneo e negativo, rimandando a data da destinarsi ogni possibilità di ripresa.

In un quadro fosco l’ottimismo diventa merce rara. E così, per il secondo mese consecutivo, la fiducia delle imprese ingrana la retromarcia tornando a ridosso dei livelli di inizio anno, a quota 86,6. Ancora peggio il dato della manifattura, dove l’indice arretra per la quarta volta di fila: per trovare un livello più basso occorre tornare ad agosto 2013. Una discesa corale dove cedono terreno industria e servizi, commercio e costruzioni, accomunati dalla debolezza della domanda. Alla cronica assenza del mercato interno si aggiunge infatti ora anche la stasi dell’export, capace di generare nei primi sette mesi dell’anno un magro progresso dell’1,3%, quasi certamente da ritoccare al ribasso alla luce dei pessimi dati extra-Ue di agosto.

Per la prima volta dall’inizio del 2013 i giudizi sui ricavi oltreconfine sono negativi mentre le attese volgono al peggio, appesantite senza dubbio non solo dal rallentamento del commercio mondiale indicato dalla Wto ma anche dai focolai di guerra e dalle tante crisi che si sviluppano attorno a noi, a cominciare da quella aperta con Mosca. Fiducia in calo soprattutto perché osservando il portafoglio ordini le aziende continuano a vedere nero, soprattutto in casa: a considerare “alto” il livello degli ordini nazionali è una sparuta pattuglia, il 5% del campione tra le realtà manifatturiere, mentre all’estremo opposto, insoddisfatte del livello attuale delle commesse interne sono ben 43 imprese su 100. Appena un poco meno sbilanciato il dato se la domanda riguarda l’economia nazionale, vista in crescita da sei aziende su 100, in calo da 28.

Sulla manifattura pesa come un macigno il rallentamento della produzione industriale, tornata dopo otto mesi di oscillazioni esattamente sugli stessi livelli di un anno fa. Risultato poco brillante per chi deve recuperare un 25% di gap rispetto ai valori pre-crisi, anche se forse su una crescita “zero” altri comparti metterebbero la firma. A cominciare dalle costruzioni, la cui fiducia scende per il secondo mese consecutivo dopo un timido tentativo di rimbalzo estivo. Del resto si tratta del comparto che forse più di altri ha pagato il crollo della domanda, per definizione solo interna, con una caduta produttiva che ancora procede a doppia cifra, giù del 10,2% a luglio. Rispetto al 2010 manca all’appello il 27% del mercato e a cascata questo provoca ondate telluriche sui tanti settori legati al mattone: dalle caldaie alle piastrelle, dagli infissi ai rubinetti, iniziando ovviamente dal cemento. I cui consumi a fine anno dovrebbero scendere in Italia al di sotto dei 20 milioni di tonnellate, un livello che non si vedeva nel Paese dall’inizio degli anni ’60.

Ottimismo in fase calante anche nel settore del commercio al dettaglio dove ormai l’unico canale a resistere è quello dei discount. Ed è proprio qui, tra i commercianti, che si verifica l’arretramento maggiore dell’indice, un calo di oltre cinque punti che riporta indietro le lancette di quasi un anno. Un dato brutto, quello di settembre, che secondo l’economista di Intesa Sanpaolo Paolo Mameli non solo rende ora «molto probabile» un calo del Pil italiano nel terzo trimestre ma mette anche a rischio la previsione di una ripresa dell’attività economica nell’ultima parte dell’anno.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

La famiglia taglia anche la spesa

La famiglia taglia anche la spesa

Emanuele Scarci – Il Sole 24 Ore

Continua, senza soste, il lento scivolamento dei consumi in Italia. Ma, ora, a pagare il prezzo più salato della crisi è l’alimentare mentre si attenua la caduta dei prodotti non food. Le rilevazioni Istat di luglio indicano un calo delle vendite al dettaglio dello 0,1% rispetto al mese precedente e dell’1,5% rispetto a un anno fa. Spacchettando il dato però emerge che la contrazione dei prodotti alimentari è molto superiore a quella del non food: il 2,5% contro l’1 per cento. E anche le forme distributive dei beni di largo consumo risentono della divaricazione tra food e non food: le catene della gdo alimentare perdono l’1,7% su base annua mentre quelle del non food guadagnano lo 0,2%. I discount alimentari segnano una crescita dell’1,7% ma, a rete costante, il segno più si appiattisce. Il messaggio è chiaro: dopo aver eliminato gli sprechi, scoperto i discount, sostituito vari prodotti con altri meno costosi e approfittato della pioggia di promozioni, le famiglie stanno tagliando la lista della spesa. Persino la corsa degli italiani nel biennio d’oro 2012/13 verso smartphone e tablet si è esaurita: la domanda ora è in picchiata.

Dai dati Istat emerge che, su base annua, nel non food a soffrire di più sono cartoleria, libri e giornali (-3,6%), casalinghi (-2%), utensileria per la casa (-1,4%) e profumeria (-1,2%). «Il dato di luglio delle vendite al dettaglio – commenta Giovanni Cobolli Gigli, presidente di Federdistribuzione – conferma che siamo ancora lontani dall’uscita dal tunnel e che la ripresa del Paese rimane un miraggio. Poi preoccupano i dati dei consumi di prodotti alimentari: il -2,5% è il segno che le famiglie stanno cercando economie e risparmi anche nei bisogni più essenziali». Per Cobolli è impressionante il calo dell’ortofrutta, «un tipico prodotto di consumo italiano. Dopo una prima forte caduta, la discesa è proseguita: sono mutate le abitudini di acquisto e sorge il dubbio che, anche quando la ripresa si manifesterà, sarà difficile tornare agli stili di vita precedenti». Anche per Coldiretti le difficoltà economiche hanno avuto un effetto negativo sui consumi alimentari per il 47% delle famiglie,con la ricerca dei prodotti low cost e dei punti vendita meno cari. Secondo l’indagine Coldiretti nel carrello della spesa il 23% degli italiani ha ridotto i quantitativi di ortofrutta, il 21% acquista prodotti e varietà che costano meno, il 16% rinuncia a prodotti che costano troppo (dalle ciliegie ai frutti di bosco), il 13% è andato alla ricerca di punti vendita con prezzi più bassi.

Che fare? «Non abbiamo segnali – commenta Mario Resca, presidente Contimprese – che facciano presagire un’inversione di tendenza delle vendite nei prossimi mesi. Settembre è iniziato a rilento, complici anche le condizioni meteo che non hanno favorito un aumento di battute di cassa. E anche il bonus di 80 euro finora è stato utilizzato dalle famiglie per pagare bollette c risparmiare». Cauto Cobolli Gigli: «Io negli 8o euro ci credo. Intanto sono stati distribuiti 10 miliardi alle famiglie più bisognose che li hanno utilizzati, parte, per i consumi alimentari e, parte, per pagare le bollette e accantonarli. Sul medio periodo sono fiducioso che l’effetto cumulo induca le famiglie a spendere di più per i consumi». Per l’ufficio studi di Confcommercio «è necessario che nella Legge di Stabilità siano inseriti provvedimenti che, ridando slancio ai consumi, creino le premesse per una vera ripresa nel 2015».

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Il commento del Prof. Giuseppe Pennisi

Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro, è stato docente di Economia al Bologna Center della John Hopkins University e alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. È Consigliere del Cnel e insegna all’Università Europea di Roma.

Appena due giorni fa alcuni organi di stampa vicini a Palazzo Chigi avevano esultato perché a settembre l’indice di fiducia dei consumatori era cresciuto dal 101.9 a 102 – un aumento, in effetti, impercettibile. Nei giorni scorsi, la vera e propria gelata su fatturato ed ordini registrata per luglio (con il rallentamento registrato anche per la performance sui mercati internazionale) aveva anticipato il clima cupo in cui operano le imprese italiane. Nelle ultime settimane l’atmosfera è stata aggravata dalle divisioni sulla politica del lavoro e dalle voci insistenti di aumento dell’imposizione tributaria (anche se sotto la forma di ‘contributi’ e ‘canoni’) e di profondo riassetto dell’imposta di successione in occasione dell’ormai prossima legge di stabilità, il cui ddl deve essere presentato entro il 15 ottobre. Il Presidente della Banca centrale europea (Bce) Mario Draghi è chiaro e netto: la crisi finirà quando sarà tornata la fiducia. Affermazione del tutto condivisibile.
Oggi, però, indiscrezioni da Francoforte indicano che tra il Presidente della Bce ed il Governo tedesco è in atto una sfida all’Ok Corral innescata dalla proposta di acquisto di Abs (Asset backed Securities), titoli bancari cartolarizzati da parte dell’istituto. Anche se non si arriverà ad una resa dei conti all’interno della Bce, ciò non annuncia nulla di buono in materia di regole certe per le imprese (e quindi di fiducia). Tanto più che su piano interno è in atto un scontro sulla normativa per il lavoro all’interno del partito di maggioranza relativa.