alberto orioli

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

La riforma del lavoro e l’orizzonte da guardare

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Li “scarteremo” sotto l’albero. I decreti attuativi del Jobs act sono in fase di elaborazione avanzata e verranno divulgati nel Consiglio dei ministri di mercoledì. Alle parti sociali è stato detto poco. C’è il sospetto che, via via che si entra nel dettaglio delle complessità del mercato del lavoro, la riforma prenda atto dei rischi possibili se l’approccio è poco sistemico e troppo contingente. Il contratto a tutele crescenti fa il conto con la fatidica soglia dei 15 dipendenti e costringe il Governo a pensare a una forma “scontata” per gli indennizzi a carico delle piccole imprese, altrimenti penalizzate dalla nuova disciplina. E ciò naturalmente riproporrà una nuova forma di dualismo nel mercato che già sconta quello tra vecchi e nuovi assunti perché la riforma non si è spinta fino a generalizzare le nuove regole. E si affianca all’altro dualismo tra contratti a termine, versione riforma Poletti, e i contratti a tempo indeterminato senza contribuzione che il Governo vuole più convenienti e che entreranno in vigore dal 1° gennaio.

Il pendant del superamento dell’articolo 18 è la creazione di nuovi ammortizzatori sociali e il disboscamento delle forme di precariato. Ma anche in questo caso sono possibili rischi di incongruenza. L’aver annunciato di voler superare i contratti di collaborazione e, allo stesso tempo, di volerli includere tra i possibili beneficiari del nuovo ammortizzatore sociale universale (l’Aspi) non sembra improntato a coerenza e, soprattutto, rischia di avere un costo che nessuna Ragioneria generale potrà mai bollinare. La riforma è un importante passo avanti; va però inserita in un orizzonte più generale. È tempo di ripensare l’idea di ammortizzatori sociali che ha portato ai paradossi di lavoratori con anzianità aziendale di 20 anni dei quali solo 6 o 7 lavorati effettivamente. Non ha senso immaginare vite lavorative fatte di un rosario di cassa integrazione ordinaria, straordinaria, contratti di solidarietà, mobilità, mobilità lunga, prepensionamenti. La riforma deve diventare l’occasione per rendere efficiente il mercato del lavoro e viverlo come tale, un bacino dove si creano e si distruggono posizioni in continuazione, e dove conta facilitare al meglio l’incontro tra domanda e offerta tramite la collaborazione tra pubblico e privato. Più facile a dirsi che a farsi. Ma il riformismo vero sta tutto nel far coincidere il detto con il fatto.

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Archiviare il ‘900 del lavoro con i fatti

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Nel giorno in cui l’Italia lascia alle spalle il ‘900 e solennizza al Senato la presa d’atto che l’impresa non è l’«arma dei padroni», ma il luogo dove nascono eccellenze, conoscenza, collaborazione e responsabilità; per le vie di Milano la Fiom minacciava l’occupazione delle fabbriche. E a Palazzo Madama c’era chi occupava fisicamente lo scranno, dopo essere stato formalmente espulso, o chi gettava libri contro il banco della Presidenza creando un sovrappiù di tensione di cui certo non si sentiva il bisogno.

Una preoccupante aria di violenza (verbale in Aula, più concreta sulle strade), ancora una volta, ha segnato una giornata che resterà importante. E non basta a giustificarla il rimando subliminale alla “mitologia” di Enrico Berlinguer ai cancelli Fiat nell’80: la situazione non ha nulla di paragonabile. Semmai è proprio il continuo sguardo a un passato rigido socialmente, immutabile e schematico che ha portato a un mercato del lavoro “narrato” come il più garantista e tutelato del mondo ma che invece è nella realtà il più duale, il più distante dai giovani, il più ipocrita perché devastato dal sommerso, il più diseguale quanto a patto generazionale perché ha tolto la stabilità ad almeno tre generazioni di giovani per lasciare l’ipertrofia di un welfare e di garanzie disegnate negli anni 70 a misura di pochi e senza vera lungimiranza.

Il Jobs act, come era inevitabile, ha portato allo scoperto questo cambio di passo “ideologico”: la recessione ha indotto questa operazione verità perché la patria dei diritti non è in grado di trasformarsi nella patria dei lavori. Accadrà quando lo sguardo strategico si sposterà su un taglio drastico al cuneo fiscale su lavoro e imprese, unica vera terapia per creare occupazione attraverso una nuova stagione di investimenti. La detassazione è la strada indicata esplicitamente anche ieri al vertice europeo di Milano da Van Rompuy, Barroso, Hollande. Di questa rivoluzione fiscale c’è per ora solo una traccia nel Jobs act, va tutta tradotta e (molto) finanziata. Tolta l’enfasi dello scontro oratorio tra fazioni opposte, è importante guardare al dettaglio di ciò che è stato votato in Senato. E la fase attuativa di una delega a maglie tanto larghe potrebbe portare a risultati anche diametralmente opposti a quelli attesi, se non attentamente vigilata nella sua fase adattativa.

È importante l’attenzione alle politiche attive e la scelta di ancorare i nuovi ammortizzatori sociali universali a percorsi di formazione e di reinserimento secondo standard che funzionano bene all’estero. È una svolta vera quella di stabilire che il contratto a tempo indeterminato, nella sua nuova veste di contratto flessibile a tutele crescenti, sarà la forma principale di ingresso al lavoro e sarà anche una forma contrattuale particolarmente conveniente e incentivata. È importante che la delega intenda disboscare le modalità di “ingaggio” in nome della semplificazione, tema altrettanto rilevante anche nella riduzione di adempimenti tra imprese e amministrazioni di cui il testo del provvedimento si fa carico. È novità rilevante e di altissimo impatto sui conti pubblici, oltre che sul regolare svolgimento delle relazioni industriali, l’introduzione del salario minimo.

Di articolo 18 non si fa mai cenno. Astuzia politica forse, ma in ogni caso sarebbe escamotage di breve periodo. Non è «l’alfa e omega del provvedimento» – come ha detto il ministro Poletti – ma certo ha catalizzato l’asprezza del confronto politico e sindacale. La “politica del carciofo” con cui finora, riforma dopo riforma, si è cercato di ridurre le possibilità di reintegra sul posto di lavoro in caso di licenziamento illegittimo (compensata con un congruo risarcimento) conosce ora una nuovo capitolo: è stata tolta per il caso di licenziamento economico introdotto dalla riforma Fornero, ma viene ora riconfermato per i licenziamenti disciplinari (in un primo tempo erano esclusi, ma la mediazione dentro il Pd li ha alla fine ricompresi) oltre che, naturalmente, per i licenziamenti discriminatori.

Il Governo si è impegnato a “tipizzare” i casi per i quali diventi possibile il reintegro in caso di licenziamento disciplinare, ma è chiaro che, a fronte di ogni definizione legislativa, sorge naturale il contenzioso giurisdizionale per dirimere ambiguità o interpretazioni strumentali. Se si doveva ridurre l’alea delle sentenze non è affatto sicuro che l’obiettivo sia a portata di mano, senza contare che gran parte di chi è licenziato per motivo economico potrebbe avere interesse a farsi riconoscere dal giudice la fattispecie disciplinare.

Ieri Renzi ha girato la boa “europea” con il vertice di Milano che ha sancito in modo esplicito il plauso dei leader rispetto a una riforma di cui hanno colto la portata rifomista. Doveva essere anche un’operazione-immagine per il Governo Renzi e da questo punto di vista è stata un successo. Perché non resti solo il ricordo di una pacca sulla spalla, ora il Governo deve dare corso ai decreti delegati in modo coerente alle premesse e trasformarli in “moneta sonante” nella gestione della flessibilità nei conti pubblici anche per trovare parte delle risorse necessarie a finanziare questa stessa riforma. È la fase più delicata. E sarà il vero test, per il premier, per smentire l’accusa di eccessivo ricorso alla politica degli annunci senza fatti. Nel frattempo – triste revival – chi contesta le riforme prepara l’autunno caldo.

La spinta che serve per costruire la fiducia

La spinta che serve per costruire la fiducia

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Non è irrealistico pensare che anche la quota di Tfr destinata alla busta paga rischi di non finire ai consumi, così come sono rimasti “sotto il materasso” gli 80 euro. Complessità fiscali e previdenziali a parte, basta leggere le mail che arrivano al giornale o i messaggi indirizzati a Radio24 per capire come gli italiani abbiano un’idea “sacra” della liquidazione. È un unicum nel panorama dei Paesi occidentali e proprio per questo ha un valore a sé di paracadute per l’imponderabile futuro. Ma ha anche un retrogusto da fine Ottocento, quando i socialisti venivano chiamati “ciucia liter” perché dediti alle riunioni in osteria, politicamente accese e alcolicamente generose. Era il tempo in cui veniva concordato il salario settimanale proprio per evitare che quello giornaliero finisse “scolato” nottetempo tra bicchieri e intemerate rivoluzionarie. Questa idea “di sinistra” del salario – o di una parte di esso – come risparmio differito si è evoluta fino alla famosa “liquidazione”.

Ma il vero rischio di un possibile flop per questa ulteriore iniezione di quasi-salario è nella confusione delle ipotesi diagnostiche: la crisi di domanda è crisi di fiducia, e non sono la stessa cosa. Per rilanciare la fiducia non servono solo più disponibilità per chi già ne abbia (l’operazione Tfr non riguarda naturalmente il grande mondo degli esclusi: disoccupati, poveri, precari) ma condizioni di sistema che modifichino la percezione della realtà e l’idea stessa del futuro. Insomma, non bisogna più avere paura del domani. Ma non bastano 80 o 100 euro a comprare buonumore. L’ottimismo non è in vendita. Nemmeno quello che il premier sparge a piene mani – e con retorica efficace – in ogni contesto, dalla direzione Pd all’assemblea dell’Onu. È uno sforzo comunque lodevole e necessario. Guai ad avere leader piagnoni e disfattisti. Ma non è sufficiente, perché non basta il verbo dell’uomo solo al comando per far cambiare verso a un intero Paese, complesso, stratificato, percorso e pervaso da interessi spesso contrapposti e conflittuali.

Il programma strategico di Renzi dell’operazione fiducia confligge e si sfarina con il programma strategico di Renzi dell’ideologia della disintermediazione. Non è vero – o non è ancora vero – che i social network possono sostituire le tante articolazioni sociali. Né è sufficiente, per la storia del Paese, confidare solo nella composizione delle posizioni dei partiti (anche perché, magari, si rischiano mediazioni pasticciate come sembra essere diventata quella sull’articolo 18). Certo, c’è molto da modernizzare anche nei cosiddetti corpi intermedi ed è tempo di ridurne il tasso di corporativismo in nome di un superiore interesse generale. Nè servono liturgie stantie o bizantinismi solo formali se non ci sono contenuti e significati veri. La società italiana è piena di incrostazioni, ma serve un lavoro di fino e paziente per pulire la chiglia, non la scorciatoia di gettare via tutta la barca.

I contenuti esistono e rimangono: la mediazione sociale dà trama e ordito forte alla democrazia partecipativa. E, come dimostra anche la storia del nostro Paese, dà la robustezza necessaria a quella tela per poter reggere anche i peggiori rovesci dell’economia. Perchè tutti, alla fine – come cittadini prima ancora che come capitalisti, imprenditori, lavoratori, professionisti, volontari – condividono l’obiettivo e remano nella stessa direzione. E a muoversi è l’intero Paese. Soprattutto è semplicistico pensare che il valore del consenso sociale sia una commodity, come lo è la musica da scaricare con i-Tunes o come lo è l’attività di trasporto urbano al centro della guerra tra Uber e i tassisti tradizionali. Né è pensabile che la mediazione del consenso sia spazzabile da una App digitale così come è stata spazzata l’epopea delle guide turistiche o quella delle agenzie di viaggio. Certo, oggi si comprano libri senza librerie, vestiti senza boutique, si ordinano cibi, si prenotano babysitter, dogsitter, badanti con un click. Ma non c’è ancora la democrazia on demand. Non ha funzionato (o ha funzionato in minima parte) l’idea – anni ’90 – che un candidato politico fosse “vendibile” come un detersivo; è stato utile introdurre elementi di marketing nella politica, non ridurla a politica-spettacolo.

E così, anche oggi, si rischia di confondere lo strumento con lo scopo. Saranno le rappresentanze, certo riformate, snellite, modernizzate, a usare i social network e le comunità digitali per gestire le loro posizioni di interesse. Alla politica governante spetta la composizione di quegli interessi, la mediazione di alto profilo organizzata sulla rotta del bisogno generale. Che non sempre è quello di un uomo solo al comando che tweetta a 60 milioni di follower. Soprattutto in un Paese che rischia di avere 60 milioni di interessi singoli, tutti diversi e tutti confliggenti. Anche perchè, se così fosse, basterebbe un flash mob innescato con uno dei tanti tweet da Palazzo Chigi: il giorno x spendiamo 50-60-100 euro tutti insieme, la domanda avrà un sussulto, il Pil pure. Può valere, forse, per il Paese virtuale, quello reale ha bisogno di altri stimoli a cominciare da una vera, radicale riforma fiscale.

Che cosa insegna la lezione americana

Che cosa insegna la lezione americana

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Vista dal quartier generale di Auburn Hills, dove la Fca ha recuperato tutta la produzione e l’occupazione in un primo tempo perdute da una Chrysler data per spacciata, la guerra di religione italiana sull’articolo 18 appare ancor più “lunare” di quanto già non appaia a casa nostra nel suo angusto recinto culturale tutto novecentesco. Matteo Renzi e Sergio Marchionne hanno confermato una stagione di consonanza: al premier interessa creare lavoro e guarda a un Paese con un tasso di disoccupazione del 6,1% (da noi è il doppio); al supermanager italo-canadese interessa una chiarezza di strategia e di scelte di sistema che il giovane primo ministro italiano sembra garantirgli. In comune – parole di Marchionne – hanno il coraggio.

È il giorno dell’orgoglio esibito da Oltreoceano. È auspicabile che sia anche quello della consapevolezza. Si comparano grandezze omogenee o almeno commensurabili, per cui può sembrare ingenuo o velleitario accostare la situazione dell’Italia e quella degli Stati Uniti. Ma non lo è quando nelle stesse ore si deve dare conto di un crollo della fiducia delle imprese in ogni settore nel paese europeo e del boom del Pil Oltreoceano. E quand’anche si comparassero due grandezze statisticamente più accostabili, come sono ad esempio l’Europa e gli Usa, le conclusioni non sarebbero molto diverse. Purtroppo.

Questi due dati, pur se parziali e abbinati da un capriccio di calendario, aiutano a fissare, in modo non fallace, il risultato di culture, di atteggiamenti singoli e collettivi, di modelli di sviluppo, di strategie per accrescere e tutelare il capitale umano. E per queste vie rappresentano le scelte per creare fiducia, per investire, per indicare direttrici di sviluppo e di nuova modernità, magari attenta alla sostenibilità dello sviluppo e a una gestione meno selvaggia della globalizzazione. Non si può fare degli italiani altrettanti americani (o tedeschi), ma si può prendere atto delle lezioni che le scelte di quei Paesi offrono a chi le osservi senza pregiudizi. E ha fatto bene Renzi a dire che cambierebbe con gli Usa il modello di istruzione e trasferimento tecnologico ma non quello di welfare. Ma l’Italia non è ancora in grado di sbloccarsi e di usare al meglio il potenziale delle sue energie e risorse. Che la fiducia sia in caduta libera è dimostrato anche dal crollo dei consumi – per nulla scalfiti della pioggia degli 80 euro – dal gorgo della deflazione, dal crollo della produzione e dal primo, drammatico, scricchiolio anche per l’export, in flessione in vari settori dopo anni di crescita continua, unico antidoto alla gelata della domanda interna di un’Italia paralizzata e impaurita del suo stesso futuro. Dagli Usa arriva una lezione su come siano cruciali l’industria, l’innovazione e la flessibilità per ricostruire la fiducia di un intero Paese.

La nuova guerra di religione sul tema sensibile del lavoro che si sta combattendo per l’ennesima volta nel nostro Paese va nella direzione contraria alla fiducia. Se ne parla poco, ma anche negli States esiste in linea teorica il reintegro: ma non lo impone quasi mai il giudice e, soprattutto, non lo considera conveniente il lavoratore che, in genere, monetizza un indennizzo e cerca altre opportunità altrove. Perché lì il mercato – funzionante – lo consente. Ed è questa la vera posta in gioco: creare un mercato del lavoro degno di questo nome in cui la gran parte delle assunzioni siano affidate a contratti a tempo indeterminato flessibile. Superando una concezione assistenziale del welfare, degna più di sudditi che di cittadini-lavoratori consapevoli. E archiviando la stagione del dualismo squilibrato tra gli insider iperprotetti e gli outsider iperflessibili. È un fatto di equità e di efficienza.

Significa una rete di agenzie per facilitare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro (pubbliche e private in rapporto di sussidiarietà); risorse per gestire formazione per migliorare i curricula di chi perde l’impiego; risorse per garantire un forma di ammortizzatore sociale universale per chi perda il lavoro e si impegni a cercarne un altro. Significa superare le lacune di un federalismo sbilenco che ha destinato alle Regioni la creazione delle agenzie per l’impiego (con drammatici divari territoriali di efficienza) e il tema della formazione, in genere slegato rispetto alle reali esigenze delle imprese che dovrebbero assumere.

Si tratta di un impianto riformista – e la delega in discussione al Senato sembra recepirne l’ambizione, anche se con formulazioni ancora ampie e ambigue – ma ha bisogno di una dote ingente di risorse per funzionare davvero. Invece che dibattere tra i guelfi del sì-articolo 18 e i ghibellini del no-articolo 18 alla ricerca di uno “scambio” pasticciato tra tutele crescenti che abbiano prima o poi anche la “reintegra” sarebbe bene organizzare uno “scambio” tra semplificazione delle regole e dotazione delle risorse per le politiche attive. Anche perché si rischia l’eterogenesi dei fini: una riforma nata per togliere il reintegro per il 5% delle imprese italiane, quelle sopra i 15 addetti, rischia di introdurlo (dopo 5, 7 o 10 anni) per il 100% delle imprese italiane. In sostanza: si estenderebbe invece che ridursi.

La politica attiva è e resta il tema vero per il legislatore. Per le parti sociali, che hanno una storia importante e unica in Italia, l’impegno dovrebbe diventare invece quello di creare e distribuire la produttività. Rimasta finora negletta in questa Italia coperta dalle coltri delle polemiche sui diritti che ha reso impossibile una discussione serena su come creare ricchezza e come allocare gli investimenti. È questa la nuova frontiera di relazioni industriali avanzate, la vera sfida per imprese e sindacati. Negli Usa lo hanno capito. A un passo dal baratro. E si sono salvati. Non è il caso di tenerne conto?

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Al lavoro non servono sedute spiritiche

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

La riforma del lavoro è a un tornante delicato e decisivo al Senato. Non c’è tempo per meline o per guerre di religione agitate dalla triste cabala del numero 18. Sulla delega che va sotto il nome, un po’ troppo esterofilo, di Jobs act si è già perso troppo tempo. Su questo l’Italia gioca la partita della credibilità in Europa e quella della fiducia per gli investimenti. Lo scontro paralizzante sul punto nevralgico del cosiddetto contratto a tutele crescenti non fa presagire nulla di buono.

L’obiettivo deve restare la creazione di un contratto a tempo indeterminato flessibile e semplice nella gestione. Le correzioni fatte alle regole per contratti a termine e apprendistato hanno già dimostrato, dati alla mano, che se si facilitano le procedure il mercato risponde e 36mila giovani hanno aumentato gli occupati in un solo mese (luglio) e altrettanti sono usciti dalla palude dell’apatia e dell’inattività per tentare, finalmente la ricerca di un’opportunità lavorativa. Non è ancora il lavoro ma è, almeno, la volontà di cercarlo e la fiducia che qualcosa stia cambiando o possa cambiare.

È anche per questo che da domani Il Sole 24 Ore proporrà ai suoi lettori un intero quotidiano online dedicato al tema del lavoro. Un nuovo strumento specializzato – destinato a tutti gli operatori, imprese e professionisti – per conoscere, per approfondire, per orientarsi tra gli annunci e la realtà del lavoro che cambia. Nel Paese ormai preda della deflazione – dato psicologico (di paura) prima ancora che economico – della disoccupazione quasi doppia rispetto a quella media europea, della produzione in ritirata, dei consumi svaniti è assurdo bloccare la discussione tra articolo 18 sì e articolo 18 no.

La delega di cui si dibatte in Senato ha l’ambizione di creare un nuovo sistema di ammortizzatori sociali; di puntare, forse per la prima volta, federalismo permettendo, sulle politiche attive per la ricerca di un’occupazione piuttosto che su quelle passive per la gestione assistenziale di chi i posti li perde. La delega ha l’ambizione di razionalizzare le forme di ingresso e di uscita dal mondo del lavoro con un occhio all’Europa e ai nuovi orizzonti globali; di traguardare, con un cuore gettato molto oltre l’ostacolo, anche il salario minimo per legge. Più che un problema di diritti – la cannoniera del massimalismo è già in azione – è semmai un problema di risorse, come accade per molte altre riforme che difficilmente sono a costo zero. Il tema dunque è il seguente: quanto risulta velleitario questo Jobs act?

La spinta riformista che tutto il mondo ci chiede non è il «lavoro sporco» come lo ha chiamato Maurizio Landini segretario Fiom e (strano) interlocutore privilegiato del premier, tramite cinguettii virtuali e non solo; ma è l’indicazione di una direzione di marcia moderna sul tema più delicato in assoluto, il lavoro appunto. Il vero problema del contratto a tutele crescenti non è tanto l’abbandono di diritti o procedure di garanzia come è il reintegro affidato magari più a capricci giurisprudenziali che al buonsenso, sostituibile con una congrua monetizzazione nei casi diversi dalla discriminazione di rango costituzionale. Il punto è la creazione di forme di incentivazione per rendere più appetibili e convenienti i contratti a tempo indeterminato, ristabilendo una corretta gerarchia tra impiego stabile e occupazione flessibile (più costosa).

Il Governo sta studiando forme di abbattimento dell’Irap o dei contributi caricati sul lavoro a tempo indeterminato, ma si scontra con le compatibilità di bilancio in una fase in cui l’economia continua la tragica stagione dell’arretramento. Ma proprio la riforma del lavoro sarebbe il lasciapassare europeo anche per la cosiddetta “flessibilità” nelle gestione dei parametri da applicare ai conti pubblici, vale a dire per avere più risorse spendibili. È un obiettivo che ci sollecitano Bce, Fondo monetario e proprio gli stessi partner europei. Ma è un tratto che sfugge alla discussione sul tema e questo è grave. È più facile infiammare assemblee o piazze al grido di “giù le mani dallo Statuto dei lavoratori” che ragionare sui costi di sistema e sul peso di un finanziamento del modello di welfare che è quanto mai squilibrato e a danno delle nuove generazioni (peraltro ormai nemmeno tanto nuove perchè lo squilibrio dura da anni). Eppure lo Statuto dei lavoratori andava stretto, già negli anni 90, anche al suo “genitore storico”, Gino Giugni più volte lucidamente schierato sulla necessità di rivedere alcune parte di una normativa ormai anacronistica rispetto al mutare delle condizioni di produzione, di competizione, di innovazione.

Se l’argomento fosse stato de-ideologizzato e ricondotto a più prosaiche categorie economiche probabilmente avremmo un numero assai più elevato di occupati. La discussione tutta “politica” sullo scippo dei diritti ha fatto velo per troppo tempo al tema decisivo dell’aumento della produttività, e per quella via anche dei salari, di cui nessuno si è curato per decenni. Se partiti, ministri e parti sociali si fossero concentrati su questo punto il Paese probabilmente sarebbe cresciuto di più, avrebbe trovato il sistema per valorizzare il capitale umano, avrebbe spinto in avanti la frontiera produttiva dell’innovazione. Invece sono anni che si assiste a un surreale dibattito della paura: quello dell’impresa che non vuole “fare matrimoni” con i propri dipendenti e quello dei dipendenti persuasi che il primo pensiero dell’imprenditore sia quello di licenziare i propri collaboratori. Sono queste due posizioni agitate sui fantasmi che hanno obnubilato le menti e azzerato ogni discussione costruttiva. Renzi batta un colpo: se può faccia finire questa seduta spiritica. Nel suo partito e fuori.

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Se il lavoro esclude gli «azionisti del futuro»

Alberto Orioli – Il Sole 24 Ore

Chi il Jobs act lo ha fatto sul serio oggi confida in una crescita del Pil del 4 per cento. L’Italia del Jobs act per ora solo “parlato” fa i conti con i dati in chiaroscuro del mercato del lavoro. E supera di un punto il tasso medio di disoccupazione europeo (siamo al 12,3%) mentre la Germania si ferma al 5%, livello, come avrebbe detto Paolo Sylos Labini, «fisiologico» o addirittura frizionale.

Forse si è fermata l’emorragia di posti di lavoro, ma non c’è ancora una netta inversione di tendenza. Sono una goccia quei 50mila nuovi occupati registrati a giugno a fronte dei 31mila giovani in più che, invece, hanno perso il posto. E, in termini qualitativi, segnala un Paese non ancora in grado di dare risposte agli “azionisti del suo futuro”, i giovani appunto. Né vale la controdeduzione secondo cui il dato può essere in qualche modo “positivo” perché aumenta il numero di persone che si affacciano sul mercato avendo aspettative positive sul l’evoluzione dell’economia. Purtroppo la quota di inattivi tra i 15 e i 64 anni resta invariata, con un tasso monstre del 36,3 per cento (che diventa del 73,2% tra i giovani con un record di 4,3 milioni che non cercano nemmeno un’occupazione).
Ha detto bene ieri il ministro Pier Carlo Padoan. Serve uno sforzo in più per la crescita perché la situazione sta peggiorando. L’inflazione allo 0,1% conferma un’economia stagnante e congelata nella paura del futuro. Lo zerovirgola con cui il Pil chiuderà l’anno è preoccupante. I mercati si sa quanto siano rapidi nel “cambiare verso” e l’autunno potrebbe riservare sorprese. La risposta può venire dal l’Europa, come auspica il Governo italiano, se davvero al prossimo Ecofin verranno programmate azioni di investimento pubbliche e private. Ma non può non venire anche dall’Italia.

Lo sforzo fatto dal buonsenso del ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha dato risposte utili sui contratti a termine e sull’apprendistato; ma non si può realisticamente confidare su poche misure spot e di tipo ordinamentale (seppur importantissime) per cambiare verso alla crescita dell’intera economia.
L’aver rinviato la discussione sulla delega-lavoro, già viziata dal peccato d’origine della genericità, non ha giovato all’azione di incisività della politica economica, soprattutto perché è stata travolta (e oscurata) dal dibattito estivo sulle riforme istituzionali, tanto rissoso quanto lontano per i cittadini. Gli sforzi di rilancio dell’azienda Italia passano per ora soltanto dalla tenacia delle imprese impegnate a conquistare mercati nel mondo. Ma non bastano a compensare le migliaia di casi di crisi aziendali finora tamponate con un sistema di ammortizzatori sociali tradizionali o in deroga, insostenibile, alla lunga, rispetto al sistema fiscale.

È come se si faticasse a prendere coscienza che servono azioni vere di politica industriale: non basta l’enunciazione affidata a poco più di un tweet sulla volontà di facilitare la rivoluzione digitale e di immettere forti misure di innovazione del modello produttivo. Servono investimenti mirati, scelte strategiche costose per le quali, tra l’altro, le risorse – come ha detto ancora ieri lo stesso Padoan – non sarebbero di difficile mobilitazione: come del resto è stato fatto negli Usa dove la “obamanomics” ha riscoperto e rilanciato, con dovizia di mezzi, la vocazione manifatturiera di un Paese immenso coniugandola con un colossale disegno di conversione alla sostenibilità e al rispetto ambientale. Puntare sul trasferimento tecnologico dal mondo dell’accademia (o della ricerca astratta) a quello dell’industria è vincente, così come sono stati vincenti provvedimenti settoriali come i bonus per ciò che ruota sul business della casa.

Tentativi, mezze-scelte, azioni contingenti: non si ha la sensazione di un disegno organico, di quella «visione» che invece Matteo Renzi rivendica (lo ha fatto anche ieri) spesso come dato acquisito. Tanto più che anche quei tasselli finiscono per essere sparigliati dalle scelte “vecchio stile” operate dal Parlamento, come è accaduto per il parziale smontaggio della riforma Fornero e per le moltissime micro-norme di spesa che si sono affastellate fino a bruciare il tesoretto dei tagli già realizzati. Carlo Cattarelli ha messo sul tavolo il problema dei problemi: se i tagli, già assai meno di quelli che servirebbero per rendere più efficiente la macchina pubblica e ridurre il perimetro malato dell’economia di Stato, vengono vanificata con nuova politica di spesa, si bruciano le uniche risorse utilizzabili per raggiungere il principale obiettivo di politica economica: ridurre le tasse sul lavoro (sia per l’impresa sia per i lavoratori).
È questa la vera politica per l’occupazione: il ridisegno del carico fiscale sugli onesti che oggi rappresenta un record mondiale e azzera la possibilità di investire nel futuro, di agire sulla domanda interna, di creare quel meccanismo virtuoso tra redditi, spesa, investimenti, occupazione. È questa l’unica “catena del valore sociale” che fa girare correttamente l’economia e crea il lavoro. Quello vero.