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Tra cataclismi e scontri sociali

Tra cataclismi e scontri sociali

Stefano Biasioli – Segretario Generale Confedir

“Piove, governo ladro”.
Da 2 mesi a questa parte, non piove ma diluvia. Esondano fiumi e fiumiciattoli; la terra smotta e distrugge case e persone. Bombe d’acqua su bombe d’acqua. Acquazzoni mai visti, per durata ed intensità. Lo sappiamo. Da decenni a questa parte, governi su governi, amministrazioni regionali e locali hanno fatto strage del territorio: in montagna, in collina, in pianura. Non solo non hanno programmato ed attuato la doverosa manutenzione dei corsi d’acqua (fiumi, torrenti, rii, lagune, laghi) ma hanno consentito di costruire in zone a rischio di alluvione. Hanno permesso la costruzione di case sul greto dei torrenti (Genova e dintorni) e sopra risorgive (Caldogno-Vi; Ospedale di San Bonifacio-Vr). Poche citazioni, per tutte. Il discorso è identico per l’intero Paese: Nord, Centro e Sud.
Pur di costruire, pur di muovere soldi (bianchi e neri) le amministrazioni pubbliche hanno concesso di tutto, fino a pochi anni fa. Ma ora è tardi. Il cambiamento del clima e le piogge “equatoriali” di questi mesi hanno fatto il resto. Il Po era stranamente alto in Agosto; immaginatevi ora, con i suoi affluenti di destra e di sinistra strapieni. Dora Riparia, Dora Baltea, Ticino, Adda, Oglio, Mincio……A memoria, ce li facevano imparare. Ora le cronache televisive ce li mostrano “arrabbiati, tumultuosi, pieni di materiale vario…..che arriva da Nord”. Conosciamo la litania: “Non ci sono soldi per pulire i corsi dei fiumi…”. Abbiamo sprecato tanto, nei tempi del consociativismo catto-comunista, del craxismo, del berlusconismo, del prodismo. Abbiamo sprecato e violentato la natura.
Ora ne vediamo le conseguenze. Il mio povero nonno Angelo (famoso ispettore forestale veronese, quello che ha rimboscato l’alta Val d’Illasi) ripeteva a me bambino (tenendomi sulle ginocchia):”Stefanino, ricordati che la natura va rispettata. Se non lo fai, si vendica…per rimettere in ordine le cose…”. Non ci si difende dalle esondazioni con i soli muraglioni, ma soprattutto pulendo i corsi d’acqua. Non si evita l’acqua alta con il faraonico Mose (80 maxi-paratie meccaniche) ma pulendo, ciclicamente i canali di Venezia. E cosi’ via. Una sola cosa avrebbe dovuto fare il governo Renzi, invece di impigliarsi sull’articolo 18. Avrebbe dovuto finanziare un “Piano Fanfani” (i piu’ vecchi se lo ricordano!) non per l’INA-casa ma per la sistemazione del dissesto idrogeologico in un paese, il nostro, che dovrebbe vivere di turismo e di cultura. Non l’ha fatto, Matteo. E la natura gli si ritorce contro, con una continuità mai vista prima. E siamo solo in autunno. Cosa succederà, se nevica in modo altrettanto pesante ? “Matteo, il boy-scout, porta sfiga”. Dopo la cacciata di Mazzarri, questo motto si sta diffondendo.
Ritorna il sessantotto.
Le cronache di questi giorni sono piene di notizie su cortei e scontri. Allo sciopero sociale organizzato dalla CGIL e dai Cobas si sono sovrapposti, in tutta Italia (in almeno 50 città) scontri con la polizia, da parte di esponenti della cosiddetta frangia antagonista: no-global, centri sociali, studenti. “Scontri sociali” li hanno definiti. Decine di feriti, soprattutto tra le forze dell’ordine. Non spetta a Noi fare la cronaca dettagliata dei fatti e dei fattacci. Ci sia permessa una riflessione veneta, da estendere pero’ al paese. 44 anni fa, a Padova, tutto incomincio’ dalle parti della Facoltà di Lettere e di Scienze politiche. Dal regno di Toni Negri e dintorni. Il 14 novembre 2014 l’episodio più grave è avvenuto a due passi dalla Facoltà di Lettere. Il passato ritorna. La novità, caso mai, è racchiusa da un particolare: gli scontri sono avvenuti perché gli autonomi volevano occupare la sede del PD.
Ovvie le dichiarazioni ufficiali. “Solidarietà alle forze dell’ordine….Non ci faremo intimidire…” (Massimo Berrin, Segretario Provinciale PD)…”Nella confusione fratricida della sinistra, ci rimettono la polizia e la città…”(Maurizio Sala, assessore di Bitonci)….”Hanno vinto loro, i professionisti del disordine” (Gessica Stellato, M5S). E’ già nato un leader: Zeno Rocca, 23 anni, veronese, attivista del centro sociale Pedro, iscritto a Legge. Un cambio generazionale, forse. Quello che si è visto a Padova, Milano, Roma, Napoli, Pisa, Palermo è forse qualcosa di nuovo. Qualcosa che rimanda, per alcuni aspetti, al sessantotto. In strada c’erano le sigle degli studenti, medi ed universitari; c’erano gli antagonisti (centri sociali ed anti TAV ), c’era l’Adl Cobas e Cobas scuola: il sindacato forte nei centri della logistica e delle spedizioni, nelle cooperative sociali e nei servizi. Quelli che il pubblico ha regalato al privato. In altre parole: c’erano gli antagonisti; c’erano i precari; c’era il precariato spinto. I nomi degli antagonisti? Pedro, Bios, Collettivo di Scienze Politiche, Gramigna, Rivolta, Sale Docks, Bocciodromo, Arcadia, Django, Casa dei Beni comuni. Uno o piu’ di uno, per ogni provincia veneta.
“Una giornata di sciopero sociale”, ha detto uno che se ne intende: Beppe Caccia, protagonista nei movimenti sociali di 20-30 anni fa. “L’assenza di prospettive e di speranza ha riunito i disperati nelle piazze”. “Padova,città aperta”, ha detto uno di loro. Padova come laboratorio per riunire le varie forme di lotta e di rivendicazione sociale.  Ecco, ci siamo. La prolungata crisi economica, il precariato spinto, la disoccupazione hanno – alla fine- portato alla coagulazione di forze eterogenee. Che non si accontenteranno delle sceneggiate televisive del premier fiorentino ma chiederanno, chiedono già da ora, risposte certe, diritti, lavoro, reddito. “Botte: governo ladro!”. Chi non ha lavoro ha perso la pazienza. Non siamo convinti che Renzi capisca. Non siamo convinti che questo Governo, questa politica, questi sindacati siano in grado di dare una seria prospettiva al Paese.
Ponte di fuga

Ponte di fuga

Il Foglio

Convocare uno sciopero generale nel bel mezzo di un ponte festivo può essere una furbata, come molti hanno pensato della “pensata” di Susanna Camusso, ma se si guarda un po” più a fondo sembra invece una sorta di fuga, di rinuncia preventiva a un rapporto reale con l’insieme dei lavoratori. Nelle fabbriche e negli uffici ognuno considererà la sua convenienza di approfittare delle feste, indipendentemente dalla proclamazione della Cgil, che si troverà come al solito a dialogare solo con una frangia minoritaria ed estremista convogliata nei cortei di protesta da formazioni politiche antagonistiche.

È difficile capire quale logica possa aver spinto la più numerosa organizzazione sindacale italiana a infilarsi in questo vicolo cieco. Susanna Camusso, che aveva inaugurato il suo mandato con l’intenzione di recuperare gli spazi negoziali, cioè tipicamente sindacali, dai quali la Cgil si era allontanata seguendo di fatto la linea protestataria della Fiom, ha poi finito per concludere la sua esperienza in una sorta di gara a chi le spara più grosse con Maurizio Landini. Se il tema sul quale si intende raccogliere la protesta sociale, la pretesa abolizione dell’articolo 18, suscitasse davvero un interesse di massa, sarebbe un boomerang rinunciare a propagandare le proprie ragioni in uno sciopero vero, promosso con iniziative nei luoghi di lavoro, in grado di coinvolgere e motivare un’area assai più ampia di quella delle “avanguardie” politicizzate. Questo alla Cgil, che organizza lotte da un secolo, lo sanno tutti benissimo.

L’avere scelto la strada apparentemente più facile e in realta più rinunciataria giustifica il sospetto che l’iniziativa di sciopero non sia pensata come strumento di pressione per ottenere risultati. Se questo fosse il vero obiettivo si sarebbe cercata davvero una qualche intesa con le altre confederazioni e una data che non consentisse alibi a eventuali insuccessi, o il sospetto che le fabbriche, se si svuo- teranno, si sarebbero svuotate a prescindere. Invece si insiste sullo sciopero, anche sapendo che sara un fallimento come tutti quelli precedenti indetti dalla sola Cgil perché in questo modo si da sfogo all’orgoglio ferito di una sindacalista in declino, e questo è piuttosto penoso.

Tutelati a ogni costo

Tutelati a ogni costo

Raffaele Marmo – La Nazione

La Pubblica amministrazione italiana è, per essere ancora ottimisti, semi-fallita, ma il sindacato, tutto o quasi, fa finta di non saperlo. E come negli anni Settanta, prima della svolta di Luciano Lama, considera ancora il salario e quelle che un tempo si chiamavano condizioni di lavoro una «variabile indipendente». In questi terribili anni di recessione migliaia di imprese hanno chiuso o sono state costrette a contrarsi, centinaia di migliaia di lavoratori privati hanno perso il lavoro. In giro per l’Europa non solo nella Grecia della troika, ma anche in Spagna, Inghilterra e Irlanda, i dipendenti pubblici in esubero sono stati licenziati o hanno visto decurtate drasticamente le retribuzioni. Questo è il contesto, non un altro.

Ebbene, in questo contesto i dipendenti pubblici italiani sono stati al riparo da tutto, protetti e garantiti magicamente dentro una bolla o, meglio, comodamente accovacciati all’interno dell’ultima ridotta di socialismo sovietico. Nessun licenziamento (ma neanche la vaga minaccia), niente cassa integrazione, nessuna mobilità, che è un concetto astratto mai attuato, buono solo per inutili polemiche. Di tagli di stipendio, manco a parlarne. A meno di non voler considerare taglio il blocco degli aumenti retributivi dovuto a congelamento della contrattazione: un’operazione minimale a impatto pressoché nullo in presenza di un’inflazione prossima allo zero e addirittura in deflazione.

Ma non basta. Perché alla protezione totale dei dipendenti ha fatto da pendant un incremento esponenziale dell’inefficienza complessiva della Pa. Tanto che si può ben rilevare come la Pubblica amministrazione sia stata e rimanga uno dei principali fattori di accelerazione del declino o, per converso, di freno alla crescita. Basti pensare che dappertutto il tempo e le procedure sono considerati costi, necessari a volte, ma comunque costi. E, dunque, da comprimere all’indispensabile. Solo negli uffici pubblici italiani tempo e procedure si sono dilatati a dismisura in questi anni. E allora appare quanto mai urgente per il sindacato tornare, a proposito del pubblico impiego, alla lezione di Lama del ’78 sul salario «variabile indipendente»: «Ebbene dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra».

Con i sindacati un gioco a perdere

Con i sindacati un gioco a perdere

Luca Ricolfi – La Stampa

La nebbia che per settimane ha circondato la Legge di stabilità si sta finalmente diradando. Dopo le slide, i tweet, gli slogan, le promesse in tv di Renzi e dei suoi ministri, un po’ di chiarezza la stanno facendo gli altri. Dove per «altri» intendo soggetti leggermente più inclini a dire la verità, come l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione europea. E la verità che emerge, non detta a chiare lettere ma neppure nascosta, è decisamente deprimente: la manovra del governo non è né buona né cattiva, è semplicemente debole, molto debole. Nulla, nella Legge di stabilità, autorizza a pensare che, grazie ad essa, le cose possano andare in modo sostanzialmente diverso e migliore di come sarebbero andate senza.

Dicendo questo, naturalmente, non mi riferisco agli interessi particolari, che sono invece ben tutelati o colpiti come è sempre successo: i lavoratori dipendenti avranno la conferma del bonus, gli statali l’ennesimo blocco degli scatti stipendiali; le imprese pagheranno un po’ meno Irap e contributi, i risparmiatori pagheranno più tasse; i cittadini avranno peggiori servizi (per la riduzione dei fondi a Regioni, Province, Comuni), ma le mamme avranno il bonus bebè.

Tutto questo è normale, ogni governo si procaccia il consenso come può e come vuole, e la manovra di fine anno (che ora si chiama Legge di stabilità) serve innanzitutto a questo. Quello che non è normale, ed è anzi molto deludente, è che così poco si riesca a intravedere sul piano dell’interesse generale. La manovra è debole non perché favorisce alcuni e danneggia altri, ma perché il futuro che le tabelle della Legge di stabilità ci consegnano pare proprio essere la continuazione del nostro triste presente.

Per avere la prova di quel che dico c’è un mezzo semplicissimo: controllare che cosa si prevede sul versante fondamentale per il futuro dell’Italia, che è quello dell’occupazione. Ebbene, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione fra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione aumenti dello 0,1%, e nel 2016 dello 0,5%, mentre l’Istat, che è un po’ più ottimista del governo, prevede un aumento dello 0,2% nel 2015 e dello 0,7% nel 2016.

Sono in entrambi i casi cifre irrisorie, che non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un futuro di stagnazione. Un futuro che, in realtà, potrebbe risultare anche più cupo se si considera che già fra 14 mesi potrebbero scattare gli aumenti dell’Iva e di altre tasse (messi in conto dalle «clausole di salvaguardia» della Legge di Stabilità), e che tutte le previsioni del governo sono state formulate prima che l’Europa ci obbligasse, in barba alle battute polemiche di Renzi, a ripiegare su una manovra meno espansiva.

In questa situazione non stupisce che gli unici a compiacersi delle scelte del governo siano gli industriali (il presidente Squinzi ha detto che «la manovra toglie il freno al Paese»), e che i sindacati siano in difficoltà. Gli industriali apprezzano il fatto che, con la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i neoassunti, sia arrivato anche il loro turno: una boccata d’ossigeno per i conti delle imprese, dopo quella che il bonus da 80 euro ha dato ai conti delle famiglie. Così come apprezzano che con il decreto Poletti, e presumibilmente con il Jobs Act, la disciplina dei licenziamenti stia evolvendo in modo più favorevole alle imprese.

I sindacati, invece, soffrono come non mai perché Renzi, con il bonus da 80 euro e la polemica anti-casta, li ha messi in trappola. Vorrebbero marciare contro il governo (e lo faranno, presumo), ma sanno anche che una parte considerevole dei lavoratori dipendenti (la maggioranza?) non li seguirebbe, perché sta con Renzi. E ci sta per due elementari motivi, uno materiale e l’altro estetico: il bonus da 80 euro, che fanno sempre comodo, e il piacere di vedere un premier-ragazzo che fa il bullo con i vecchi tromboni della politica, siano essi parlamentari, sindaci, governatori o sindacalisti.

Di qui lo stallo. Renzi, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, e delle gloriose conquiste di quarant’anni di lotte, se ne fa un baffo. Da parte loro i sindacati sembrano pensare solo a quello: sacrosanti diritti e gloriose conquiste. Non paiono rendersi conto che quel che non va bene nella politica di questo governo non è che cancella il mondo incantato dello Statuto dei lavoratori, ma che non ne offre in cambio un altro che funzioni. Il dramma della Legge di stabilità è che essa certifica proprio questo: anche fra qualche anno, nonostante migliaia di atti di legge e la riforma del mercato del lavoro, l’Italia avrà 3 milioni di disoccupati, e più o meno lo stesso numero di occupati di oggi.

Da questo punto di vista Renzi e i sindacati non sono nemici, ma parti in commedia dello stesso gioco infernale. Un gioco in cui sembra che tutto, nel bene e nel male, dipenda dall’articolo 18, mentre le tabelle della Legge di stabilità mostrano che non è così. Le vecchie regole del mercato del lavoro possono avere depresso l’occupazione, ma le fosche previsioni delle tabelle ministeriali svelano che le nuove regole del Jobs Act non basteranno a far «cambiare verso» all’Italia.

Il guaio è che né il governo, né il sindacato, hanno il coraggio di prendere atto che il problema dell’occupazione è un problema di costi, prima ancora che di regole. Il governo teme di non avere i soldi per abbassare veramente e stabilmente il costo del lavoro, e infatti prevede una decontribuzione limitata alle assunzioni del 2015, con un budget decisamente insufficiente (1,9 miliardi nel 2015). Il sindacato teme, e in questo ha perfettamente ragione, che la decontribuzione si limiti ad alleggerire i conti aziendali, senza creare occupazione addizionale. Entrambi appaiono sordi e ciechi di fronte al vero problema: che non è regolare i diritti di chi un lavoro già ce l’ha, ma di occuparsi dei milioni di italiani che un posto di lavoro non ce l’hanno.

I colpi sotto la cintura del sindacato

I colpi sotto la cintura del sindacato

Gaetano Pedullà – La Notizia

Ripetere cento volte una menzogna non la farà diventare verità. Ma per Camusso, Landini e compagni non ci sono dubbi: «Il Presidente del Consiglio dovrebbe provare ad abbassare i manganelli dell’ordine pubblico» ha detto la segretaria Cgil, come se la decisione di manganellare i lavoratori delle acciaierie di Terni fosse partita dal Governo. Ora a Renzi si possono fare molte critiche, ma travestito da picchiatore folle non è facile immaginarlo nemmeno a carnevale. E allora bisogna rafforzare la menzogna. Il leader delle tute blu ammonisce: «Non si ripeta più». E i metalmeccanici della Fiom proclamano 8 ore di sciopero generale. Le manganellate nello scontro della politica volano anche sotto la cintura. Il giochino però è chiaro: c’è una parte di questo Paese che le riforme non le vuole. Dunque bisogna togliere al premier l’abito del rottamatore per fargli indossare quello dello squadrista, del garante dei poteri forti, del nemico dei lavoratori. Siamo con le pezze al sedere, ma invece di tirare tutti insieme la carretta, in questo povero Paese c’è un sindacato che non sa fare altro se non frenare e denigrare. Dove ci hanno portato questi signori è sotto gli occhi di tutti.

Le tessere sindacali sono gonfiate

Le tessere sindacali sono gonfiate

Cesare Maffi – Italia Oggi

La polemica sui tesserati pretesamente falsi della Cgil ha riportato l’attenzione sui numeri milionari, ma altresì un po’ ballerini, degli iscritti ai sindacati. L’ultimo intervento al riguardo risale al febbraio 2012, quando una confederazione autonoma, la Confsal, denunciò la forte discrepanza esistente fra pensionati sindacalizzati certificati dall’Inps e pensionati dichiarati come iscritti dalle centrali sindacali. ItaliaOggi ne diede notizia (23 febbraio 2012): «Sindacati, oltre 3 milioni di tessere gonfiate». Quasi un milione e mezzo di differenza era riscontrato fra dati ufficiali e dati sindacali, con un’accentuata discordanza per l’Ugl. Ovviamente le altre confederazioni elevarono fiere proteste, in particolare appunto l’Ugl. A proposito di quest’ultima confederazione, sarà opportuno ricordare un curioso precedente.

Negli anni sessanta il Corriere della Sera, in un’inchiesta dedicata alle confederazioni sindacali, sparò una cifra: un milione di lavoratori era organizzato dalla Cisnal (la progenitrice dell’Ugl). Ovviamente i dirigenti della Cisnal furono ben lieti del numero attestato da una fonte autorevole, ma si trovarono in imbarazzo negli anni successivi. Infatti non poterono né serbare intatto quel livello né, ancor meno, denunciare una cifra minore. Furono quindi costretti a far lievitare i propri iscritti (quelli denunciati pubblicamente, non quelli veri), fino a raggiungere, sotto Renata Polverini, cifre plurimilionarie, che il segretario della Uil con un amichevole rabbuffo alla collega definì fantasiose.

Se nel settore pubblico vi sono dati di riferimento più solidi, come le deleghe sindacali o i voti nelle elezioni interne (questi ultimi non riguardano i soli tesserati), nel settore privato non può esservi alcuna certezza. Ecco quindi le differenze, di quando in quando ribadite, fra cifre denunciate per un fine e cifre segnalate per un altro. Un fatto è certo: la forza numerica dei sindacati dei lavoratori sta negli ex lavoratori, vale a dire nei pensionati.

L’inghippo sta nelle deleghe rilasciate dai pensionati nel momento in cui lasciano il lavoro: permettono l’automatica riscossione mensile sui ratei di pensione, attuata dall’Inps. Un esperto come pochi altri di faccende sindacali, quale Giuliano Cazzola, ha già indicato la strada per affamare le centrali sindacali: vietare all’Inps la riscossione permanente delle deleghe sindacali (ItaliaOggi, 17 ottobre). Obbligare a deleghe rilasciate anno per anno vorrebbe dire, fuor di dubbio, fornire il destro a centinaia di migliaia di pensionati di revocare, di fatto, l’autorizzazione a riscuotere i contributi sindacali.

Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Tre milioni di fantasmi nei sindacati

Nicola Imberti – Il Tempo

Quando si parla dei numeri del sindacato, bene che vada, si finisce in tribunale. Oppure, come capitato ieri con l’accusa lanciata dall’eurodeputata Pd Pina Picierno nel salotto televisivo di Agorà, si scatena la solita e annosa polemica che ruota attorno ad una semplice domanda: quanti sono veramente i lavoratori iscritti? I numeri, come ha spiegato la Cgil, non sono segreti. Basta visitare i siti delle tre principali confederazioni per sapere che, nel 2013, il sindacato guidato da Susanna Camusso contava 5.686.201 tesserati (26.432 in meno del 2012), la Cisl 4.372.280 (-70.470), la Uil 2.206.181 (+9.739). Ma a questo punto si insinua il dubbio: sono tutti veri?

Rispondere non è semplice. Ci provò due anni fa la Confsal, Confederazione generale dei sindacati autonomi dei lavoratori, che, dati alla mano, lanciò un’accusa non molto distante da quella di Picierno. L’analisi prendeva come base di riferimento gli iscritti 2010 delle cinque confederazioni principali: Cgil, Cisl, Ugl, Uil e Confsal. In totale 16.671.308 lavoratori. Le prime anomalie riguardavano i pensionati. Secondo l’Inps (numeri certificati al 1° gennaio 2012) quelli tesserati dalle cinque sigle sindacali ammontavano a 4.907.363. Aggiungendo quelli Inpdap (427.517) e i 347.195 di altri istituti si arrivava a un totale di 5.682.075. Peccato che Cgil & Co. avessero dichiarato 6.957.126 pensionati iscritti. Esattamente 1.275.051 in più dei dati ufficiali.

Non andava meglio con gli altri lavoratori. Anche se qui, purtroppo, bisognava affidarsi a stime e dati più o meno ufficiali. Come quello che indicava nel 33,8% il tasso medio di sindacalizzazione in Italia. Confsal fissa in 19.650.000 gli impiegati nel settore privato. Applicando il tasso di riferimento elaborava che 6.641.700 di questi erano iscritti al sindacato. Ma anche qui le confederazioni ne avevano dichiarati quasi due milioni in più, esattamente 8.623.585. Una semplice somma ed ecco il risultato choc: esisteva uno scarto di 3.240.051 lavoratori tra quelli dichiarati e quelli che figuravano nelle statistiche ufficiali e certificate. Oltre 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno continua a parlare.

Certo, qualcuno può obiettare che lo studio della Confsal si riferisce a due anni fa. Ma la verità è che ad oggi quella denuncia è rimasta sostanzialmente inascoltata. Erano numeri che avrebbero dovuto aprire una riflessione. Soprattutto perché, in alcuni casi, la discrepanza tra i pensionati «dichiarati» e quelli «certificati» registrava percentuali significative come il +91,08% dell’Ugl (che attaccò duramente lo studio), ma anche un +8,34% della stessa Confsal.

Invece nulla è cambiato. Basta dire che poco meno di un mese fa si è conclusa, con l’assoluzione di tutti gli imputati, una vicenda che sembra confermare le oscure manovre attorno alle tessere sindacali. Una vicenda iniziata nel 2009 quando i carabinieri di Piacenza, dopo un esposto dell’allora segretario Cgil Gianni Coppelli, avevano scoperto che 129 persone erano iscritte a loro insaputa allo Spi-Cgil, il sindacato dei pensionati, subendo ogni mese un prelievo di 6-7 euro (tra di loro anche la madre del giudice per le indagini preliminari). Nel mirino dei magistrati erano finite 5 persone, ma alla fine il pm ne ha chiesto l’assoluzione perché «non è stato possibile stabilire con chiarezza chi abbia iscritto i pensionati». E Piacenza non è l’unico caso di tesseramenti anomali. Lo scorso marzo la Cgil di Grosseto è stata costretta a diramare una nota in cui spiegava di non avere nulla a che fare con dei «tentativi di truffa» in cui qualcuno, non si sa bene chi, cercava di vendere tessere false ad anziani.

Insomma, anche se è difficile capire quanto sia realmente esteso, il problema esiste. E molto spesso, come nel caso di Piacenza, è la stessa Cgil a denunciare che qualcosa non va. Altre volte, invece, se qualcuno come Picierno si azzarda a pronunciare la parola «tessere false» esplode la polemica. E intanto, sullo sfondo, restano 3 milioni di «fantasmi» di cui nessuno vuole parlare.

La nuova sfida dei lavoratori

La nuova sfida dei lavoratori

Maurizio Sacconi – Il Tempo

Poco tempo fa un grande leader del sindacato nord americano ha assegnato alle organizzazioni che rappresentano gli interessi dei lavoratori la elementare ma efficace missione di «fare ceto medio». Ed ha aggiunto che il maggiore benessere può essere conquistato dai lavoratori non soltanto ottenendo una migliore distribuzione della ricchezza una volta prodotta ma concorrendo responsabilmente alla sua stessa produzione. «La soddisfazione del cliente – ha ancora affermato – è affare anche nostro e non solo di chi possiede o dirige l’impresa». È una bella lezione per il sindacato italiano che in alcune sue componenti continua ad avere l’obiettivo «di cambiare il mondo» nella convinzione che il mondo stesso cammini sulla base di un fertile conflitto tra classi sociali contrapposte.

È evidente invece che nella competizione globalizzata i lavoratori sono chiamati certamente a condividere il rischio d’impresa per i suoi profili negativi e devono avere per questo l’ambizione di voler partecipare di quello stesso rischio anche per la buona sorte. Il salario, definita per legge una sua dimensione minima, può e deve essere sempre più negoziato quindi nella dimensione dell’azienda ancorandolo alla produttività, ai risultati, agli utili. E la stessa azienda può configurarsi sempre più come una comunità di persone che si riconoscono e si accettano in relazione ad un destino comune, sostenuto anche da istituti integrativi di protezione sociale dei lavoratori e delle loro famiglie.

In questa dimensione il sindacato non ha più titolo a poteri di veto su norme di legge o su politiche pubbliche. Esso si esprime liberamente e liberamente viene ascoltato insieme a tutti gli altri corpi intermedi che rappresentano interessi. La riforma del lavoro sarà l’occasione per dimostrare che governo e Parlamento ascoltano tutti ma responsabilmente decidono nella loro autonomia istituzionale per un mercato del lavoro inclusivo, nel quale l’occupabilità di ciascuno è la conseguenza del diritto di accedere alle conoscenze e alle competenze e non di un freddo articolo di legge.

La prima e decisiva riforma di Renzi

La prima e decisiva riforma di Renzi

Il Foglio

Non si sa ancora cosa accadrà in Parlamento sulla legge di stabilità ma una cosa è certa: l’incontro fra sindacati e rappresentanti del governo ha sancito la fine della concertazione come politica economica dello stato. I ministri delegati ad ascoltare i sindacati hanno risposto a monosillabi sulle loro richieste di “concessioni”. Il succo era: i sindacati facciano le passerelle in piazza e indichino le loro correzioni specifiche, poi noi vedremo se tenerne conto ma non contrattiamo il loro consenso. Renzi ha chiarito il concetto dicendo che il governo non chiede “permesso” perché “le leggi non si scrivono con i sindacati ma in Parlamento”. E ha aggiunto: “Forse in Italia è arrivato il momento che ciascuno torni a fare il suo mestiere”. La frase più significativa è quella finale: “Le trattative le organizzazioni sindacali devono invece farle, giustamente, con le imprese”. Il premier invita i sindacati a dialogare con le aziende e non solo con la Confindustria che tiene al suo monopolio dei contratti di lavoro e si cura delle grandi imprese. L’esecutivo vuole la disintermediazione, rompere il filo tra politica e parti sociali, per approdare a un mercato del lavoro che privilegi i contratti aziendali. La Confindustria fatica ad ammettere che la concertazione è finita anche per lei tant’è che plaude alla deduzione dell’Irap per i contratti a tempo indeterminato, graditi alle grandi società, ma poi glissa sugli incentivi per i contratti di produttività, rivolti alle piccole. Se lo dicesse, apparirebbe chiaro pure ai mercati che il governo Renzi ha avviato la madre di tutte le riforme: la fine della concertazione che garantiva impropri poteri sia sindacali sia confindustriali.

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Renzi rimette i sindacati al loro posto, finalmente

Massimo Tosti – Italia Oggi

Qualche giorno fa si era diffusa l’opinione che Matteo Renzi parlasse unicamente alla destra del paese: l’intervista compiacente di Barbara D’Urso al premier e l’annuncio (nella sede domenicale di Mediaset) del bonus alle neo mamme avevano confortato questa tesi. Ma Renzi ha di nuovo sorpreso gli opinionisti e gli elettori (di destra e di sinistra), scegliendo il salotto di Lilli Gruber per rimettere a posto i rapporti istituzionali. «I sindacati trattano con gli imprenditori per migliorare la condizione dei lavoratori», ha spiegato. «Il governo è disposto ad ascoltare le proposte dei sindacati tese a migliorare gli indirizzi legislativi dell’esecutivo, ma non tratta con loro». Le leggi, ha precisato, si discutono in parlamento e non con le rappresentanze di categoria. Ha spiegato quella che è una verità assoluta, travolta (purtroppo) 40 o 50 anni fa dalla debolezza dei governanti di allora che accettarono di discutere con i Luciano Lama e i Pierre Carniti (gli antenati delle Camusso, delle Furlan e degli Angeletti) ogni iniziativa della politica (che di fatto abdicava alle proprie prerogative, consentendo ai sindacati di occupare uno spazio enorme che non era di loro pertinenza).

È chiaro che, in questo modo, Renzi ha bacchettato anche i «reduci» del Pd, nostalgici della Cgil «cinghia di trasmissione» del Pci, accorsi a piazza San Giovanni per applaudire la Camusso: loro condividono il giudizio del segretario della Cgil che ha definito «surreale» l’atteggiamento dei ministri, negli incontri dell’altro ieri che si sono dichiarati non autorizzati a discutere con la controparte (arbitraria) il merito della legge di riforma del mercato del lavoro. Lo scenario surreale era quello precedente: quando i sindacati potevano porre veti su ogni decisione della politica. Quella introdotta l’altra sera da Renzi (davanti alla Gruber) è una controriforma istituzionale decisiva, in quanto ripristina i corretti rapporti che devono intercorrere fra i rappresentanti dei lavoratori e lo stato sovrano. Contro il quale si può ricorrere allo sciopero generale quando non si apprezza una legge, ma non si può pretendere di ostacolarne l’approvazione in corso d’opera.