luca ricolfi

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Disoccupazione mai così alta nella storia d’Italia

Luca Ricolfi – La Stampa

È incredibile, la capacità dei governanti di manipolare i fatti pur di non dirci come vanno le cose. Negli ultimi giorni l’Istat ha fornito i dati sulle forze di lavoro nel terzo trimestre, e ha anticipato i dati provvisori di ottobre. Dati drammatici, ad avere il coraggio di guardarli in faccia. E invece no, immediatamente dopo la diffusione delle cifre Istat si è scatenata la corsa a travisarli. È così che abbiamo appreso che i dati trimestrali dell’Istat ci presentano «una sostanziale e progressiva crescita degli occupati nell’ultimo anno», quantificata in 122 mila occupati in più. E che anche l’incremento della disoccupazione, pari a 166 mila disoccupati in più, non ci deve preoccupare perché «va messo in relazione alla crescita del numero di persone che cercano lavoro». Come dire: se aumenta il tasso di disoccupazione è perché la gente è meno scoraggiata e «più persone tornano a cercare lavoro». Sui trucchi usati per manipolare i fatti non vale neppure la pena soffermarsi, tanto sono ingenui e vecchi (alcuni li insegniamo all’università, sotto il titolo «come si fa una cattiva ricerca»). Sui fatti, invece, è il caso di riflettere un po’.

Occupati in termini reali
Primo fatto: l’occupazione in termini reali sta diminuendo. Che cos’è l’occupazione in termini reali? È la quantità di occupati al netto della cassa integrazione. Se, per evitare le distorsioni della stagionalità, confrontiamo l’ultimo dato disponibile (ottobre 2014) con quello di 12 mesi prima (ottobre 2013), la situazione è questa: gli occupati nominali (comprensivi dei cassintegrati) sono rimasti praticamente invariati (l’Istat fornisce una diminuzione di 1000 unità), le ore di cassa integrazione sono aumentate in una misura che corrisponde a circa 140 mila posti di lavoro bruciati. Dunque negli ultimi 12 mesi l’occupazione reale è diminuita. Apparentemente la diminuzione è di circa 140 mila unità, ma si tratta di una valutazione ancora eccessivamente ottimistica: gli ultimi dati Istat, relativi al terzo trimestre 2014, mostrano che, sul totale degli occupati, si stanno riducendo sia la quota di lavoratori a tempo pieno sia la quota di lavoratori italiani. Il che, tradotto in termini concreti, significa che aumentano sia il peso dei posti di lavoro part-time «involontari» (donne che lavorano poche ore, ma non per scelta) sia il peso dei posti di lavoro di bassa qualità, tipicamente destinati agli immigrati.

I senza lavoro
Secondo fatto: la disoccupazione sta aumentando. I disoccupati erano 3 milioni e 124 mila nell’ottobre del 2013, sono saliti a 3 milioni e 410 mila nell’ottobre del 2014. L’aumento è di ben 286 mila unità, di cui 130 mila nei 4 mesi del governo Letta, e 156 mila negli 8 mesi del governo Renzi. La spiegazione secondo cui l’aumento sarebbe dovuto a una maggiore fiducia, che farebbe diminuire il numero di lavoratori scoraggiati, riprende una vecchia teoria degli Anni 60 ma è incompatibile con i meccanismi attuali del mercato del lavoro italiano, che mostrano con molta nitidezza precisamente quel che suggerisce il senso comune: gli aumenti di disoccupazione dipendono dal peggioramento, e non dal miglioramento, delle condizioni del mercato del lavoro. Sulla disoccupazione, tuttavia, ci sarebbe qualcosa da aggiungere. In questi giorni sentiamo ripetere, dai giornali e dalle tv, che il tasso di disoccupazione non solo è ulteriormente aumentato rispetto a 12 mesi fa (1 punto in più), non solo è molto alto in assoluto (13,2%), non solo è fra i più alti dell’Eurozona, ma sarebbe anche il più alto degli ultimi 37 anni, ossia dal 1977.

I dati del 1977
Ebbene, anche questa, già di per sé una notizia drammatica, detta così è ancora troppo ottimistica. Se dici che siamo al massimo storico dal 1977, o che «siamo tornati al 1977», qualcuno potrebbe supporre che nel 1977 il tasso di disoccupazione italiano fosse più alto di oggi, o perlomeno fosse altrettanto alto. Non è così. Nel 1977 il tasso di disoccupazione era molto minore rispetto ad oggi (7,2% contro 13,2%). La ragione per cui si continua a parlare del 1977 come una sorta di spartiacque è che la serie storica dell’Istat con cui attualmente lavoriamo parte dal 1977. Ma questo non significa che sugli anni prima del 1977 non si sappia niente. Prima del 1977 c’era la vecchia serie 1959-1976. E prima ancora c’erano i dati del collocamento, della Cassa nazionale per le assicurazioni sociali, dei censimenti demografici, a partire da quello del 1861, anno dell’unità d’Italia. Tutte fonti meno sofisticate di quelle di oggi, ma sufficienti a darci un’idea degli ordini di grandezza. Mi sono preso la briga di controllare queste fonti, nonché i notevoli lavori che sono stati pubblicati sui livelli di disoccupazione dal 1861 a oggi e la conclusione è tragica.

Unità d’Italia e dopoguerra
Mai, nella storia d’Italia, il tasso di disoccupazione è stato ai livelli di oggi. Altroché 1977. La disoccupazione era più bassa di oggi anche nel periodo 1959-1976, per cui abbiamo una serie storica Istat. Era più bassa anche negli anni della ricostruzione, dal 1946 al 1958. Ed era più bassa durante il fascismo, persino negli anni dopo la crisi del 1929. Quanto al periodo che va dall’unità d’Italia all’epoca giolittiana, è difficile fare paragoni con l’oggi, se non altro perché è proprio allora che prende lentamente forma il concetto moderno di disoccupazione, ma basta un’occhiata ai censimenti e agli studi che li hanno analizzati (splendidi quelli di Manfredi Alberti, borsista Istat) per rendersi conto che, comunque si definisca il fenomeno, siamo sempre abbondantemente al di sotto dei livelli attuali.

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Finiamola con l’alibi dell’Europa

Luca Ricolfi – La Stampa

Uno degli episodi che più mi aveva colpito, nella campagna elettorale per le elezioni del 2013, era stata una trasmissione di «Porta a Porta» nella quale Renato Brunetta e Stefano Fassina, ossia due esponenti di parti politiche opposte (Forza Italia e Pd), si erano trovati perfettamente d’accordo su un punto: l’allentamento dei vincoli europei. Il che, tradotto in soldoni, significava e significa: lasciateci fare più deficit, se no l’economia non riparte. Ora constato, tutti i santi giorni, che la stessa idea, ovvero che il patto di stabilità sia «stupido», è condivisa quasi universalmente: lo dice Renzi, lo ripetono i politici di governo e opposizione, lo pensano i sindacati, lo scrivono i giornali. E la teoria che sta alle spalle di questo giudizio è sempre quella: se l’economia europea non si è ancora ripresa è per la debolezza della domanda interna, e il rigore sui conti pubblici, nella misura in cui deprime la domanda, non fa che aggravare la malattia. Il che, tradotto in termini politici, significa: se l’economia non riparte la colpa è della Merkel e dei burocrati europei, che con la loro ottusa ostinazione sul rispetto delle regole bloccano la ripresa.

Questa visione del problema italiano (ed europeo) è indubbiamente suggestiva, se non altro perché alcuni pezzi del ragionamento che la sorregge stanno perfettamente in piedi. Difficile negare i sacrifici degli ultimi 7 anni. Difficile pensare che ci possa essere ripresa se non ripartono consumi e investimenti. Difficile non vedere la lentezza, e spesso l’ottusità, della macchina europea (a proposito: si è votato a maggio, e ancora non abbiamo un governo europeo nel pieno dei suoi poteri). Difficile non cogliere il feticismo di certe regole, come quella che si affida a un algoritmo matematico-statistico controverso (quello del calcolo dell’output gap) per stabilire quanti miliardi di deficit può fare un Paese. E tuttavia…

Tuttavia, detto e riconosciuto tutto questo, mi sembra che un simile modo di mettere le cose non faccia completamente i conti né con la logica, né con la realtà. Non fa i conti con la logica, perché il fatto che gli ultimi anni siano stati (peraltro non sempre e non ovunque) anni di rigore non implica che lasciando correre i conti pubblici le cose sarebbero andate meglio. Forse sarebbero andate ancora peggio, perché alcuni Stati sarebbero falliti e le loro economie non avrebbero più avuto accesso al credito. Ma non fa neppure i conti con la realtà, perché l’idea che l’Europa, o la zona euro, siano in stagnazione o addirittura in recessione è una mezza verità. Se prendiamo i tassi di crescita del Pil per abitante nel 2014-2015 (in parte noti, in parte frutto di stime), quel che colpisce non è il basso tasso di crescita europeo ma, semmai, la grandissima eterogeneità dei tassi di crescita dei vari Paesi. Soffermiamoci sulla zona euro, la grande imputata. E’ vero, c’è un Paese in recessione (Cipro), e ce ne sono quattro, fra cui Italia e Francia, che sono in stagnazione (crescita prossima a zero). Ma tutti gli altri, e sono ben 14 su 19, crescono a un tasso medio del 2% (con punte del 4%), un ritmo che non è da economia in crisi, e meno che mai da economia in recessione. E fra i Paesi che crescono di più, ossia fra il 2 e il 4%, ci sono tutti i cosiddetti PIGS tranne noi: Portogallo, Irlanda, Grecia, Spagna.

Se questo dicono i dati, i termini del problema si spostano un pochino. Forse anziché arrabbiarci perché Bruxelles non ci lascia esagerare con il deficit pubblico, faremmo meglio a chiederci come fanno tanti Paesi dell’eurozona a crescere nonostante l’Europa, nonostante l’euro, nonostante l’ottusità dei burocrati. Non voglio azzardare la risposta, che presumibilmente è diversa da Paese a Paese, ma vorrei che almeno si riflettesse: dare la colpa all’Europa è troppo comodo, e sa tanto di alibi. Che l’Europa sia un disastro mi pare una tesi plausibile, ma che al disastro europeo si debba e si possa aggiungere il disastro di governi nazionali incapaci di «cambiare verso» nel loro Paese mi pare un lusso che non ci si può più permettere.

Quanto all’Europa, sono convinto anch’io che abbia un ruolo negativo. E tuttavia oserei, anche qui, avanzare un dubbio. Siamo sicuri che il massimo difetto dell’Europa sia la rigidità nella sorveglianza sui conti pubblici degli Stati nazionali? Io ne suggerirei almeno un altro, secondo me altrettanto se non più dannoso: l’ingerenza selettiva, per non dire masochistica, nelle politiche nazionali. Più precisamente: la tendenza ad essere rigida là dove un atteggiamento più flessibile farebbe meno danni, e ad essere flessibile là dove una maggiore rigidità sarebbe benefica.

Faccio due esempi, giusto per dare un’idea di quel che ho in mente. Prima della crisi l’economia irlandese cresceva più di qualsiasi altra economia avanzata (salvo quella dell’Estonia). La bassa tassazione sulle imprese è stata un fattore fondamentale della crescita irlandese, così come l’ostinazione del governo irlandese nel mantenere bassa tale tassazione anche durante la crisi è stato un fattore cruciale per l’uscita dell’Irlanda dalla crisi (la crescita irlandese è ora fra il 3 e il 4%). Ebbene, le autorità europee, anziché invitare gli altri Paesi a studiare il caso irlandese, hanno spesso esercitato pressioni sull’Irlanda per convincerla ad alzare l’aliquota del 12,5%, in passato per il timore di un mancato ripianamento dei conti pubblici, più recentemente per timore della concorrenza fiscale di un Paese capace di attirare gli investimenti stranieri. Qui una minore ingerenza sarebbe probabilmente benefica.

Ma c’è anche il caso opposto, in cui si rinuncia a un’ingerenza che farebbe bene al Paese che la subisce. Diverse direttive europee, più o meno recenti, impongono agli Stati nazionali cose ragionevolissime: ad esempio di pagare le imprese tempestivamente, di fare leggi comprensibili (senza indecifrabili rimandi a parole, commi ed articoli di altre leggi), di non tenere i detenuti in condizioni disumane, a partire dall’inaccettabile affollamento delle celle. Ebbene l’Italia ha violato sistematicamente tutte queste regole, e continua a farlo serenamente anche ora. Ma qui l’Europa balbetta, e al massimo ci commina qualche multa. Come mai?

Con i sindacati un gioco a perdere

Con i sindacati un gioco a perdere

Luca Ricolfi – La Stampa

La nebbia che per settimane ha circondato la Legge di stabilità si sta finalmente diradando. Dopo le slide, i tweet, gli slogan, le promesse in tv di Renzi e dei suoi ministri, un po’ di chiarezza la stanno facendo gli altri. Dove per «altri» intendo soggetti leggermente più inclini a dire la verità, come l’Istat, la Banca d’Italia, la Commissione europea. E la verità che emerge, non detta a chiare lettere ma neppure nascosta, è decisamente deprimente: la manovra del governo non è né buona né cattiva, è semplicemente debole, molto debole. Nulla, nella Legge di stabilità, autorizza a pensare che, grazie ad essa, le cose possano andare in modo sostanzialmente diverso e migliore di come sarebbero andate senza.

Dicendo questo, naturalmente, non mi riferisco agli interessi particolari, che sono invece ben tutelati o colpiti come è sempre successo: i lavoratori dipendenti avranno la conferma del bonus, gli statali l’ennesimo blocco degli scatti stipendiali; le imprese pagheranno un po’ meno Irap e contributi, i risparmiatori pagheranno più tasse; i cittadini avranno peggiori servizi (per la riduzione dei fondi a Regioni, Province, Comuni), ma le mamme avranno il bonus bebè.

Tutto questo è normale, ogni governo si procaccia il consenso come può e come vuole, e la manovra di fine anno (che ora si chiama Legge di stabilità) serve innanzitutto a questo. Quello che non è normale, ed è anzi molto deludente, è che così poco si riesca a intravedere sul piano dell’interesse generale. La manovra è debole non perché favorisce alcuni e danneggia altri, ma perché il futuro che le tabelle della Legge di stabilità ci consegnano pare proprio essere la continuazione del nostro triste presente.

Per avere la prova di quel che dico c’è un mezzo semplicissimo: controllare che cosa si prevede sul versante fondamentale per il futuro dell’Italia, che è quello dell’occupazione. Ebbene, con 3 milioni di disoccupati e un tasso di occupazione fra i più bassi del mondo sviluppato, il governo prevede che nel 2015 l’occupazione aumenti dello 0,1%, e nel 2016 dello 0,5%, mentre l’Istat, che è un po’ più ottimista del governo, prevede un aumento dello 0,2% nel 2015 e dello 0,7% nel 2016.

Sono in entrambi i casi cifre irrisorie, che non incidono sul tasso di disoccupazione, e prospettano per l’Italia un futuro di stagnazione. Un futuro che, in realtà, potrebbe risultare anche più cupo se si considera che già fra 14 mesi potrebbero scattare gli aumenti dell’Iva e di altre tasse (messi in conto dalle «clausole di salvaguardia» della Legge di Stabilità), e che tutte le previsioni del governo sono state formulate prima che l’Europa ci obbligasse, in barba alle battute polemiche di Renzi, a ripiegare su una manovra meno espansiva.

In questa situazione non stupisce che gli unici a compiacersi delle scelte del governo siano gli industriali (il presidente Squinzi ha detto che «la manovra toglie il freno al Paese»), e che i sindacati siano in difficoltà. Gli industriali apprezzano il fatto che, con la riduzione dell’Irap e l’eliminazione dei contributi per i neoassunti, sia arrivato anche il loro turno: una boccata d’ossigeno per i conti delle imprese, dopo quella che il bonus da 80 euro ha dato ai conti delle famiglie. Così come apprezzano che con il decreto Poletti, e presumibilmente con il Jobs Act, la disciplina dei licenziamenti stia evolvendo in modo più favorevole alle imprese.

I sindacati, invece, soffrono come non mai perché Renzi, con il bonus da 80 euro e la polemica anti-casta, li ha messi in trappola. Vorrebbero marciare contro il governo (e lo faranno, presumo), ma sanno anche che una parte considerevole dei lavoratori dipendenti (la maggioranza?) non li seguirebbe, perché sta con Renzi. E ci sta per due elementari motivi, uno materiale e l’altro estetico: il bonus da 80 euro, che fanno sempre comodo, e il piacere di vedere un premier-ragazzo che fa il bullo con i vecchi tromboni della politica, siano essi parlamentari, sindaci, governatori o sindacalisti.

Di qui lo stallo. Renzi, dei sacrosanti diritti dei lavoratori, e delle gloriose conquiste di quarant’anni di lotte, se ne fa un baffo. Da parte loro i sindacati sembrano pensare solo a quello: sacrosanti diritti e gloriose conquiste. Non paiono rendersi conto che quel che non va bene nella politica di questo governo non è che cancella il mondo incantato dello Statuto dei lavoratori, ma che non ne offre in cambio un altro che funzioni. Il dramma della Legge di stabilità è che essa certifica proprio questo: anche fra qualche anno, nonostante migliaia di atti di legge e la riforma del mercato del lavoro, l’Italia avrà 3 milioni di disoccupati, e più o meno lo stesso numero di occupati di oggi.

Da questo punto di vista Renzi e i sindacati non sono nemici, ma parti in commedia dello stesso gioco infernale. Un gioco in cui sembra che tutto, nel bene e nel male, dipenda dall’articolo 18, mentre le tabelle della Legge di stabilità mostrano che non è così. Le vecchie regole del mercato del lavoro possono avere depresso l’occupazione, ma le fosche previsioni delle tabelle ministeriali svelano che le nuove regole del Jobs Act non basteranno a far «cambiare verso» all’Italia.

Il guaio è che né il governo, né il sindacato, hanno il coraggio di prendere atto che il problema dell’occupazione è un problema di costi, prima ancora che di regole. Il governo teme di non avere i soldi per abbassare veramente e stabilmente il costo del lavoro, e infatti prevede una decontribuzione limitata alle assunzioni del 2015, con un budget decisamente insufficiente (1,9 miliardi nel 2015). Il sindacato teme, e in questo ha perfettamente ragione, che la decontribuzione si limiti ad alleggerire i conti aziendali, senza creare occupazione addizionale. Entrambi appaiono sordi e ciechi di fronte al vero problema: che non è regolare i diritti di chi un lavoro già ce l’ha, ma di occuparsi dei milioni di italiani che un posto di lavoro non ce l’hanno.

Tre mine sotto la manovra

Tre mine sotto la manovra

Luca Ricolfi – Panorama

Dopo settimane di indiscrezioni, tabelle, contro-tabelle, slide e tweet, la manovra (o Legge di stabilità) ha finalmente una forma ben definita. anche se suscettibile di ulteriori modificazioni per iniziativa del Parlamento. Che cosa se ne può dire? Devo confessare che sono alquanto perplesso. Intanto perché c’è uno scarto enorme fra le slide per la stampa e le tabelle per l’Europa. Nella sua fase propagandistica Matteo Renzi aveva annunciato 20 miliardi di tagli dei cosiddetti sprechi (più del piano di Carlo Cottarelli) e 18 miliardi di tasse in meno.

La realtà è decisamente diversa: le minori tasse sono pari a circa 11 miliardi (non a 18), le minori spese sono pari a 15 miliardi (non 20) quasi completamente «mangiati» da nuove spese (11 miliardi), per cui alla fine la riduzione della spesa pubblica è di soli 4 miliardi. E poiché le minori spese (4) non bastano a coprire le minori entrate (11), la differenza viene coperta aumentando il deficit di 6-7 miliardi (dopo le correzioni richieste da Bruxelles). Come dire che il grosso della riduzione delle tasse viene finanziato in deficit, il che non è precisamente quel che ci si aspetta quando si parla di contenere l’interposizioue pubblica e il ruolo esorbitante dello Stato. Ma c’e anche una seconda ragione di perplessità ed è che, aldilà del gioco delle tre carte sulle cifre, la manovra è davvero difiicile da valutare. Nella manovra, infatti, sono contenute almeno tre incognite, o forse sarebbe meglio dire tre ordigni a scoppio ritardato, di cui è impossibile valutare ora l’impatto. A seconda di come si comporteranno questi tre ordigni la manovra potrà risultare la svolta positiva che tutti ci auguriamo, oppure 1’ennesima beffa al danno degli italiani.

Vediamo dunque i tre ordigni. Il primo ordigno è l’aumento del deficit. Se i mercati stanno zitti e buoni, nessun problema. O meglio: solo un piccolo problema, qualche miliardo di debiti in più sulle spalle delle generazioni future. Ma se i mercati si risvegliano, perché c’è una nuova tempesta finanziaria in Europa o anche semplicemente perché si accorgono che le riforme promesse stentano a decollare, allora possono essere guai seri per l’Italia. L’andamento positivo dello spread in questi mesi, infatti, è un dato del tutto ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto quelli degli altri Pigs (Portogallo, Irlanda. Grecia, Spagna). In concreto vuol dire: in caso di crisi siamo più esposti di prima alla speculazione.

Il secondo ordigno è la spending review, un’operazione da 15 miliardi che il governo non sta usando per ridurre il perimetro della Pubblica amministrazione ma per finanziare qualcosa come 11 miliardi di nuove spese (senza contare i 9,5 miliardi del bonus da 80 euro, una voce che l’Europa conteggia fra le spese, e che il governo include invece, secondo me abbastanza giustamente, fra le minori tasse). Ebbene, l`esperienza del passato fa pensare che. in assenza di piani dettagliati di riorganizzazione dei servizi, 15 miliardi di spesa pubblica in un solo anno non si possano tagliare senza tagliare anche i servizi. Quindi lo scenario più verosimile è che regioni, province, comuni. Sindacati impediranno una completa effettuazione dei tagli, il deficit pubblico aumenterà, e scatteranno le «clausole di salvaguardia» annidate nella Legge di stabilità. Di che cosa si tratta? Si tratta di aumenti automatici dell’Iva (e di altre tasse) che andranno a coprire il buco nei conti pubblici generato dai mancati risparmi di spesa. La Legge di stabilità già li prevede in dettaglio: 12,8 miliardi di maggiori tasse nel 2016, 19,2 miliardi l’anno successivo, 21,3 miliardi nel 2018, cui si aggiungono dal 1° gennaio 2018 aumenti della benzina e del gasolio da carburante. E come se non bastasse, al contribuente tocca anche sentirsi le rassicurazioni del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan via Twitter: «l’impegno politico è per il non aumento dell’Iva». Un vero insulto all’intelligenza degli elettori, cui viene chiesto di fidarsi delle promesse di un ministro di cui nessuno può sapere se al momento buono sarà ancora in carica, e che comunque non avrà alcuna difficoltà a tirare fuori la solita penosa tiritera cui i politici ricorrono in questi casi: la situazione è cambiata, allora non potevamo sapere che la crisi sarebbe durata ancora a lungo, nel frattempo sono intervenuti eventi eccezionali, e via giustificando. L’andamento positivo dello spread è un dato ingannevole: i rendimenti dei nostri titoli di Stato si sono avvicinati a quelli della Germania, è vero, ma molto meno di quanto hanno fatto gli altri Pigs.

C’è anche un terzo ordigno, tuttavia. Qui prudenza è d’obbligo, perché mancano ancora troppe informazioni, se non altro perché nessuno può sapere che itinerario seguirà il «Jobs act». Però il dubbio mi sembra non possa essere taciuto: l’impegno ad azzerare i contributi a carico del datore del lavoro per tutte le imprese che assumono a tempo indeterminato nel corso del 2015 rischia di non produrre un numero apprezzabile di «veri» nuovi posti di lavoro, ossia posti che altrimenti, senza la decontribuzione, non sarebbero stati creati. Lo scenario più probabile, a mio parere, è quello di un assalto alla decontribuzione da parte di imprese che cercheranno semplicemente di usufruire del beneficio, senza creare nuova occupazione. La decontribuzione, infatti, non è concentrata sulle imprese che incrementano l’occupazione, e rischia quindi di rivelarsi come una semplice misura di abbattimento dei costi aziendali, senz’altro meritoria ma poco adatta a creare posti di lavoro davvero addizionali. Il rischio, in poche parole, è che il plafond previsto dal govemo (1,9 miliardi) non basti a soddisfare tutte le richieste (perché tutte le imprese vogliono godere dello sconto), e nello stesso tempo i posti di lavoro genuinamente incrementati finiscano per essere assai pochi.

Lavoro, le proposte che mancano

Lavoro, le proposte che mancano

Luca Ricolfi – La Stampa

«Care e cari, è il momento delle scelte, chiare, dedicate a creare lavoro». Così Susanna Camusso inizia la lettera con cui invita gli iscritti alla Cgil a partecipare in massa alla manifestazione di sabato prossimo a Roma. La segretaria del primo sindacato italiano ha perfettamente ragione: è il lavoro la priorità assoluta del Paese. E lo è per la semplice ragione che in nessuna parte del mondo avanzato (tranne forse in Grecia) la frattura fra chi ha un lavoro e chi non ce l’ha è così ampia come da noi. Chi lavora, lavora tantissimo, spesso in nero o con il doppio e triplo lavoro, chi è fuori del mercato del lavoro, giovani e donne innanzitutto, ha poche possibilità di entrarci, e pochissime di farlo con un contratto di lavoro «vero», ossia regolare, full time, a tempo indeterminato. Ma c’è anche un dramma nel dramma. Il dramma è che né il governo né il sindacato ci stanno offrendo un piano credibile per creare lavoro.

I due pilastri della ricetta della Cgil sono purtroppo i soliti: aumentare le tasse sui «ricchi», estendere le garanzie dello Statuto dei lavoratori alle piccole imprese. Un’idea, quest’ultima, da cui nel 2002, ai tempi del referendum sull’articolo 18, si era dissociato persino Cofferati. Quanto al governo, spiace dirlo, ma la sua strategia per creare posti di lavoro è scritta sulla sabbia. Il piatto forte è la cosiddetta decontribuzione (non far pagare i contributi sui nuovi assunti), un provvedimento che in questi giorni viene venduto sul mercato dei media ora come capace di creare 800 mila posti di lavoro in 3 anni (il ministro Padoan da Lucia Annunziata su Rai3), ora come capace di «incentivare» 850 mila assunzioni in un anno (il consulente Gutgeld sul Corriere della Sera). Ma si tratta di cifre campate per aria, e ora cerco di spiegare perché.

Prima osservazione: il budget per la decontribuzione stanziato per il 2015, se nelle prossime ore non verrà ancora cambiato qualcosa, è pari a 1,9 miliardi. Il costo dei contributi per un lavoratore a tempo indeterminato a tempo pieno è di circa 10 mila euro l’anno. Questo significa che, con il budget stanziato (1,9 miliardi) il governo è in grado di azzerare i contributi di 190 mila lavoratori, non certo di 850 mila. E infatti, per poter sostenere che potrebbero essere 850 mila, ossia più del quadruplo del reale, Gutgeld è costretto ad arrampicarsi acrobaticamente sugli specchi: molte assunzioni sono a part time, un lavoratore part time costa solo 4.500 euro l’anno di contributi, e comunque non tutte le assunzioni 2015 partono il 1° gennaio, quindi ci saranno anche aziende che richiederanno lo sgravio per pochi mesi. In questo modo, passin passetto, i 10 mila euro di contributi per lavoratore scendono a 2.200, e un budget di 1,9 miliardi riesce, miracolosamente, a «incentivare 850 mila assunzioni». Sembra il miracolo della moltiplicazione dei pani e dei pesci: visto che i soldi per 850 mila assunzioni incentivate non ci sono proprio, si ricorre al trucco di conteggiare tutto, compresi i rapporti di lavoro part-time e le assunzioni di pochi mesi.

Seconda osservazione: il fatto che un’assunzione sia senza contributi, non garantisce minimamente che a quella assunzione corrisponda un posto di lavoro in più, ossia un posto che, senza quel contributo, non sarebbe mai stato creato. Se gli incentivi sono dati a pioggia, è verosimile che buona parte di essi vadano a coprire assunzioni che vi sarebbero state comunque, ad esempio per rimpiazzare chi va in pensione o cambia azienda; gli incentivi, in altre parole, rischiano di servire solo ad alleggerire i conti delle imprese.

Naturalmente dare una mano alle imprese è più che giusto, dopo anni di asfissia fiscale. Non solo, ma non v’è dubbio che, a fronte di 190 mila assunzioni incentivate, alcune (20 mila? 30 mila?) possano corrispondere a posti di lavoro in più, che senza gli incentivi non sarebbero stati creati. Ma il punto è che questa non è la strada più efficiente per massimizzare la creazione di nuovi posti di lavoro, specie con un budget limitato. Se la priorità è creare posti di lavoro nuovi, che senza gli incentivi non sarebbero mai nati, la via maestra è riservare gli incentivi alle imprese che aumentano l’occupazione, di cui sappiamo che hanno un’elevatissima reattività agli incentivi. La mia stima più prudente è che, con un contratto del genere (Job Italia), in un solo anno si creerebbero almeno 300 mila posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati, e si imprimerebbe al Pil una spinta pari ad almeno l’1% (il che, tra l’altro, permetterebbe di coprire i costi della mancata contribuzione).

Lo scenario che si prospetta, invece, pare di tutt’altro tipo. I sindacati, nonostante la generosa apertura di Susanna Camusso al Job-Italia nell’intervista rilasciata l’altro giorno a Francesco Manacorda sulla «Stampa», sembrano intenzionati a dare battaglia su questioni tutto sommato minori, tipo gli annunciati ritocchi alla disciplina dei licenziamenti (articolo 18 e dintorni). Il governo, per parte sua, non sembra rendersi conto che le risorse stanziate per alleggerire i contributi, troppo poche e troppo disperse, non sono in grado, neppure lontanamente, di lenire la piaga della mancanza di lavoro. Così, il dramma nel dramma si perpetua. Tutti parlano di occupazione, ma i tempi della politica sono lentissimi, e il copione, a quanto pare, non è molto diverso da quelli di sempre.

Ambizioni

Ambizioni

Enrico Cisnetto – Il Foglio

Da 20 a 36 miliardi in poche ore: di questi tempi, meglio una legge di stabilità ambiziosa che una stitica, ma purtroppo la dimensione non fa automaticamente la qualità della manovra. Contano i dettagli. E quelli non li conosciamo – come da troppo tempo a questa parte capita, sarebbe ora di smettere di usare le slide al posto dei testi di legge – per poter dare un giudizio serio. E non è solo una questione di coperture – dai tagli di spesa per 15 miliardi al fondamento dei 3,8 miliardi previsti come rivenienti dalla lotta all’evasione – che naturalmente più i numeri sono grandi più diventano complicate. No, il tema è (sarebbe, se avessimo i documenti ufficiali) capire l’efficacia di alcune voci della manovra per misurarne gli effetti sull’unica cosa che conta davvero in questo momento, e cioè la ripresa dell’economia. Pur andando nella giusta direzione, sono sufficienti gli sgravi Irap e le decontribuzioni per le nuove assunzioni per spingere gli investimenti privati? La conferma degli 80 euro e l’eventualità (ancora tutta da capire) del Tfr in busta paga sono provvedimenti che possono far ripartire i consumi interni? Ma, soprattutto, la domanda è: visto che dei 36 miliardi 11 sono già esplicitamente a carico del deficit – e speriamo che a consuntivo la cifra si fermi lì – stiamo spendendo bene i soldi? La risposta di merito verrà più avanti, come ho detto, ma francamente è lecito dubitare che il tutto sia sufficiente. Luca Ricolfi l’ha efficacemente chiamato “keynesismo debole”: poco per riuscire a scuotere un’economia che apprestandosi a chiudere anche il 2014 in recessione (il quinto anno, dal 2008) ha perso 10 punti di pil e bruciato un quarto della sua capacità produttiva manifatturiera; troppo per essere più che sufficiente a scatenare la reazione sia della conservazione interna (da battere), sia di Bruxelles (e pazienza), sia dei mercati (pericolosa).

E già, perché un po’ tutti gli osservatori hanno sottolineato il reciproco “vaffa” con le regioni e immaginato lo scontro con la Commissione europea, la Merkel e la Buba. Renzi, si sa, ha nella tattica di “un nemico al giorno toglie i problemi di torno”, uno dei suoi cavalli di battaglia. Ma il vero pericolo viene da un nemico, impalpabile e nello stesso tempo concretissimo, che non conviene mai sfidare: i mercati finanziari. Sia chiaro, le Borse non sono crollate negli ultimi giorni per colpa del governo di Roma, né gli spread sono schizzati (ieri il differenziale Italia-Germania ha toccato i 200 punti, per poi ripiegare un po’) dopo aver visto la manovra di Renzi. Ma una cosa è sicura: quel clima positivo verso l’Italia che si era manifestato qualche mese fa – e sulla cui durata mi ero permesso, solitario, di dubitare – è completamente cambiato. E non sarà questa manovra a far cambiare opinione a chi sta nuovamente valutando se scommettere sulla (non) tenuta dei debiti sovrani dei paesi europei più deboli, dalla Grecia all’Italia, e dell’eurosistema nel suo insieme. E non perché sarà giudicata sbagliata o eccessiva, come l’hanno già ribattezzata i conservatori italici, ma perché scarsa. E’ inutile sfidare l’Europa e i suoi vincoli di bilancio per fare un po’ di deficit in più se poi quella maggiore esposizione non produce pil perché è insufficiente e mal utilizzata, cioè non induce nuovi investimenti, che sono l’unica leva che può risollevare la crescita. Tanto più se i mercati hanno nuovamente dissotterrato l’ascia di guerra.

Quindi? Suggerirei di proporre all’Europa e di far sapere al mondo finanziario internazionale le seguenti due cose. Primo: che l’Italia ha intenzione di sforare sul deficit – anche molto di più degli 11 miliardi previsti dalla manovra – non perché non voglia pagare il prezzo politico di tagli e riforme impopolari, ma perché ha un piano – tra riduzione massiccia dell’imposizione fiscale sulle imprese e investimenti diretti in conto capitale – per rilanciare l’economia a sostegno del quale servono ingenti risorse. Secondo: che compenserà queste minori entrate e maggiori uscite con un massiccio intervento di riduzione una tantum del debito pubblico (e quindi anche degli oneri finanziari, circa 80 miliardi nel 2014, sul debito stesso). Come? Sia con alcune riforme capaci di ridurre in modo strutturale il perimetro della spesa pubblica, prima tra le quali la semplificazione del decentramento amministrativo e la riconduzione della sanità allo stato centrale, sia con un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico.

Una manovra di portata epocale – questa sì – che avrebbe il duplice effetto di ridare la credibilità perduta al paese e alle sue istituzioni in sede europea, e di calmierare i mercati togliendo loro dalle mani gli strumenti della speculazione finanziaria contro i nostri titoli del debito e contro l’euro. E che, last but not least, consentirebbe meglio di ogni altra cosa di tenere lontana la Troika, il cui spettro è tornato in queste ore ad aleggiare su Palazzo Chigi.

Il doppio azzardo del premier

Il doppio azzardo del premier

Luca Ricolfi – La Stampa

Sono stato fin troppo facile profeta, tre giorni fa, quando ho provato a insinuare il dubbio che i mercati finanziari non l’avrebbero bevuta. Che i mercati, cioè, non avrebbero apprezzato affatto una manovra che, anziché tentare di risanare i conti pubblici, li sfascia ulteriormente, pianificando un aumento del deficit di ben 11 miliardi di euro. E così è stato, purtroppo: fra ieri e l’altro ieri lo spread dell’Italia rispetto alla Germania è tornato a salire. Si potrebbe pensare che questo peggioramento non sia dovuto a un deterioramento del giudizio dei mercati sui conti pubblici dell’Italia, ma al cattivo momento dell’economia europea e alle preoccupazioni sullo stato patrimoniale delle banche greche, ma purtroppo questa interpretazione, vagamente autoconsolatoria, si scontra con la pietosa realtà dei dati.

I dati: lo spread dell’Italia non è aumentato solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Francia, al Belgio alla Spagna, all’Irlanda, ed è migliorato solo rispetto all’inguaiatissima Grecia e al Portogallo. Si potrebbe pensare (e sperare) che nel giro di qualche giorno questa situazione di pericolo per i nostri conti pubblici rientri, e che i mercati si auto-tranquillizzino, o vengano tranquillizzati dal solito «aiutino» di Mario Draghi, o da una improvvisa conversione keynesiana di Angela Merkel. Il punto, però, è che anche nel più ottimistico degli scenari possibili, con l’Europa che ci lascia fare deficit e i mercati che continuano a prestarci denaro a basso costo, la manovra da 36 miliardi resta ad alto rischio. Ed è un vero peccato, perché la filosofia della manovra è più che giusta.

L’idea di fondo è di modificare la struttura dei conti pubblici facendo diminuire l’interposizione della Pubblica amministrazione (meno tasse e meno spese) e di farlo più dal lato delle entrate che da quello delle uscite, in modo da far respirare l’economia: se i numeri della manovra venissero rispettati, a fine 2015 avremmo sì più deficit pubblico, ma gli italiani si troverebbero ad aver pagato meno tasse. E altrettanto condivisibile è l’idea che, per far ripartire l’occupazione, si debbano ridurre i contributi sociali a carico del lavoro dipendente. Dov’è dunque il problema?

Il problema si annida in due passaggi assai delicati della manovra. Il primo riguarda la spending review: 15 miliardi di tagli delle spese improduttive, di cui circa 3 sulla sanità, sono facili da annunciare ma molto difficili da attuare, e questo per un mix di cattive e di buone ragioni: la resistenza della casta burocratica, ma anche la mancanza di piani di riduzione degli sprechi così analitici e così ben fatti da consentire riduzioni di spesa senza riduzione dei servizi. Lo scenario più probabile è un negoziato di Renzi e Padoan con gli Enti locali (e con i ministri!) per ridimensionare i tagli, seguito da un aumento della tasse locali. La reazione irritata del governatore del Piemonte, il renziano Chiamparino, all’annuncio dei tagli prelude precisamente a uno scenario del genere.

Ancora più delicato è il secondo passaggio, quello in cui si annuncia l’azzeramento dei contributi per le imprese che assumono. Qui molta enfasi è stata posta sul fatto che un’impresa risparmierà circa 9 mila euro per ogni assunzione a tempo indeterminato, ma si sta dimenticando che se i miliardi a disposizione sono solo 1.9, le assunzioni a contributi zero potranno essere appena 200 mila, ossia molte di meno delle assunzioni a tempo indeterminato totali (oltre 1 milione). Ma non si tratta solo di questo, ovvero della ridotta ampiezza della «platea» dei beneficiari. Il problema è che in una situazione in cui c’è molta capacità produttiva inutilizzata, gli sgravi contributivi si limitano ad alleggerire i conti delle imprese (più profitti, o meno perdite), ma difficilmente generano nuova occupazione perché per soddisfare i pochi ordinativi che le imprese ricevono quasi sempre basta e avanza la forza lavoro già occupata. Se anche nel 2015, nonostante lo stimolo del deficit, la domanda aggregata sarà debole, e il Pil resterà quindi stagnante (come il Governo stesso ammette), non vi sono motivi per pensare che l’occupazione totale possa crescere in modo apprezzabile: perché si abbia un aumento degli occupati, il Pil nel 2015 dovrebbe crescere almeno del 2%, eventualità che tutti gli osservatori escludono.

Ecco perché non sono molto ottimista. La decontribuzione resta un’ottima idea, ma se le risorse ad essa destinate sono così esigue, sarebbe di gran lunga preferibile concentrarle sulle imprese dinamiche. Il che, in concreto, può significare due cose: o riservare gli sgravi alle imprese che esportano, con conseguenti benefici sulla competitività (un’idea di recente lanciata da Oscar Farinetti); oppure riservarli non già ai neoassunti in generale (compresi i lavoratori che ne sostituiscono altri, andati in pensione o licenziati), ma ai lavoratori assunti su nuovi posti di lavoro, ossia ai casi in cui l’impresa incrementa l’occupazione rispetto all’anno precedente (un’idea suggerita dalla Fondazione Hume, con il contratto denominato job-Italia). Il vantaggio sarebbe che, in entrambi i casi, si avrebbe un effetto non trascurabile sul Pil, con benefici nei tre ambiti chiave: competitività, occupazione, entrate dello Stato.

Il vero peso delle misure in arrivo

Il vero peso delle misure in arrivo

Luca Ricolfi – La Stampa

Nel giro di pochi giorni la cosiddetta «manovra» per il 2015 è passata da 20 a 30 miliardi di euro. Secondo Renzi «si tratta della più grande operazione di taglio di tasse tentata in Italia e di una spending review mai vista». Ma in che cosa consiste la manovra? Se dovessi spiegarla ai miei studenti la metterei così. Cari ragazzi, quando un governo fa una manovra ci sono sempre un lato propagandistico e un lato effettivo. Sono importanti entrambi, ma vanno tenuti ben distinti. Il lato propagandistico è rilevante perché serve a comunicare le priorità del governo. Con la manovra annunciata ieri, Renzi ci dice tre cose tutte e tre sacrosante e condivisibili. Primo: che vuole ridurre drasticamente gli sprechi della Pubblica amministrazione, con una spending review di 13,3 miliardi. Secondo: che vuole ridurre drasticamente le tasse, con sgravi pari a 18 miliardi di euro (di cui 10 per il rinnovo del bonus da 80 euro). Terzo: che vuole azzerare i contributi per i nuovi assunti a tempo indeterminato.

Fin qui tutto bene, il messaggio è chiaro, anche se in conflitto con quanto annunciato in precedenti occasioni e documenti ufficiali (nell’ultima intervista sulla spending review, ad esempio, i miliardi risparmiati non erano 13,3 ma 20, dopo essere stati 17 fino al giorno prima). Adesso però guardiamo il lato effettivo, ossia la sostanza della manovra. Che cosa contiene effettivamente la manovra da 30 miliardi di cui si sta parlando in questi giorni? Per capirlo dobbiamo dimenticare completamente la parte propagandistica e rispondere a tre domande: di quanto diminuiscono le spese totali della Pubblica amministrazione? Di quanto diminuiscono le entrate? È realistica la promessa di azzerare i contributi sociali ai nuovi assunti a tempo determinato?

Ed ecco le risposte, o meglio quel che si riesce a capire in attesa di un documento ufficiale. Le spese della Pubblica amministrazione non si riducono affatto di 13,3 miliardi ma solo di 4,1 miliardi, perché accanto ai 13,3 miliardi di tagli programmati ve ne sono 9,2 di nuove spese, come il finanziamento degli ammortizzatori sociali, gli obblighi contratti dal governo Letta, o le cosiddette spese inderogabili. Le tasse pagate dagli italiani non si riducono affatto di 18,3 miliardi, perché gli sgravi promessi sono bilanciati da 5,2 miliardi di nuove entrate, e quindi la riduzione effettiva della pressione fiscale scende a 13,1 miliardi di euro (che comunque non è poco). Va da sé che la differenza fra minori tasse (13 miliardi di sgravi) e minori spese (4 miliardi di riduzione della spesa pubblica) verrà coperta in deficit, ovvero messa in conto alle generazioni future. Quanto alle assunzioni a zero contributi bastano alcuni semplici calcoli per scoprire che potranno riguardare al massimo 1 caso su 10, ossia 100-150 mila persone su oltre 1 milione e mezzo di assunzioni a tempo indeterminato.

Fin qui i conti nudi e crudi. Ma, al di là delle cifre, che giudizio si può dare della manovra? Difficile fare valutazioni senza un testo ufficiale. Per quel che riesco a capire, l’idea del governo è che aumentando il deficit di circa 10 miliardi e ritoccando la struttura del bilancio pubblico si possa dare una spinta significativa alla domanda interna. E’ una linea di keynesismo debole (facciamo deficit, ma non troppo) che mi auguro possa funzionare, ma che si espone ad almeno un paio di obiezioni.

La prima è che aumentare il deficit di «soli» 10 miliardi, e ridurre la pressione fiscale di soli 13 miliardi, potrebbe non bastare a far ripartire i consumi ma potrebbe essere più che sufficiente a far ripartire lo spread, con conseguente ulteriore aggravio dei conti pubblici. Non so perché così pochi osservatori lo facciano notare, ma è da circa un mese che la tendenza dello spread dei titoli di Stato italiani è all’aumento, ossia al peggioramento. Ed è da sei mesi che i mercati hanno ricominciato a differenziare i rendimenti richiesti ai vari Paesi dell’euro, un comportamento che nel 2011 ha preceduto e annunciato la bufera finanziaria che portò alla caduta di Berlusconi e all’insediamento di Monti. In questo senso la mossa di Renzi di aumentare il deficit anziché ridurlo potrebbe rivelarsi un azzardo.

La seconda obiezione è che il meccanismo previsto per stimolare le assunzioni, ossia la cancellazione dei contributi sociali per gli assunti a tempo determinato, ha tre difetti abbastanza gravi: riguarda pochissimi lavoratori (perché con 1 miliardo non si può fare molto), non si finanzia da sé (perché non aumenta in modo apprezzabile il Pil), ha effetti occupazionali trascurabili (perché non è vincolato al requisito di aumentare gli occupati).

È proprio per evitare simili inconvenienti che, nei giorni scorsi, su questo giornale abbiamo provato ad aprire una discussione su una proposta alternativa, quella di un contratto a decontribuzione totale ma riservato alle imprese che incrementano l’occupazione (il job-Italia). Un contratto che, secondo le stime della fondazione David Hume, creerebbe almeno 300 mila nuovi posti di lavoro all’anno, e non costerebbe nulla allo Stato. Non so se la nostra proposta sia la più efficace possibile, ma resto convinto che creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, sia una priorità assoluta per il nostro Paese, perché è la mancanza di lavoro l’elemento che più differenzia noi (e la Grecia) da tutte le altre economie avanzate. E’ questo, a mio parere, il terreno più importante su cui la manovra andrebbe giudicata: perché è questo il terreno su cui si gioca il futuro dell’Italia.

Lavorare costa

Lavorare costa

Ernesto Felli e Giovanni Tria – Il Foglio

Luca Ricolfi ha esposto con un articolo sulla Stampa (8 ottobre) una proposta per determinare un immediato aumento dell’occupazione senza costi per il bilancio dello stato. La proposta si basa sull’idea, fino a questo punto non nuova, che una riduzione sensibile del costo del lavoro, via detassazione fiscale o contributiva, avrebbe un impatto rilevante sulla propensione ad assumere. La parte nuova della proposta sta nel fatto che essa si basa su una ricerca quantitativa sulla reazione positiva delle imprese a un eventuale ribasso del costo del lavoro di nuovi assunti e sulle implicazioni di questa reazione sulla possibilità di finanziare, senza costi per il bilancio dello stato, la detassazione necessaria a provocare le nuove assunzioni.

La proposta, denominata job-Italia, si basa sul fatto che, in base alla ricerca menzionata., un’azienda disposta ad assumere per ipotesi 10 lavoratori addizionali a legislazione vigente ne assumerebbe il doppio qualora la busta paga, cioè la retribuzione netta percepita dal lavoratore, fosse non il 50 per cento del costo aziendale ma l’80 per cento. Secondo la proposta, questo 20 per cento aggiuntivo, rispetto al salario netto in busta paga, sarebbe destinato a pagare l’Irpef del lavoratore e parte dei contributi sociali. Lo stato dovrebbe coprire la parte restante dei contributi sociali affinché il lavoratore non abbia una minore copertura contributiva. I calcoli di Ricolfi sono che l’occupazione aggiuntiva produrrebbe un gettito addizionale di entrate che coprirebbe ampiamente il costo derivante dal minore gettito contributivo. Questo tipo di contratto si dovrebbe applicare, secondo la proposta, solo ai nuovi assunti che risultino addizionali rispetto al numero già occupato nell’impresa, per un periodo massimo di quattro anni e per salari netti tra i 10 e i 20 mila euro. Richiamiamo questo studio,sia perché interessante in sé, sia perché indica un metodo di lavoro. Ovviamente, se uno vuole, si possono avanzare tante possibili obiezioni, come quasi su ogni proposta. Se la reazione positiva delle imprese non fosse cosi ampia un costo vi sarebbe perché la detassazione contributiva opererebbe su assunzioni che si sarebbero in ogni caso verificate.

Forse è da approfondire cosa accadrebbe dopo i quattro anni. Ma è anche vero che qualcosa si deve fare. anche tenendo conto dei vincoli in cui si opera. La vera questione e uscire dai calcoli statici ragionieristici. Nel caso in questione si potrebbe determinare un deficit temporaneo o forse no, ma l’analisi si deve basare su una dinamica attesa. D’altra parte le previsioni ordinarie di bilancio e di crescita cui siamo abituati si rivelano ex post talmente divergenti dagli eventi che non ci sembra che non si possa affrontare il rischio insito in ogni previsione. Se fondata, quando si tratta di varare qualche provvedimento sensato. Ma vi è un aspetto della sua proposta che lo stesso Ricolfi non sottolinea abbastanza e che è importante per rispondere alla domanda sul cosa succede dopo i quattro anni, problema insito in ogni provvedimento temporaneo.

Aprire un’impresa o ampliarla è rischioso, ancora di più lo è con aspettative negative sull’economia. La proposta di Ricolfi è interessante, secondo noi, proprio perché entra nella categoria di provvedimenti tesi a ridurre il rischio e non a sostenere con aiuti l’impresa, Ciò giustifica il provvedimento limitato ai nuovi assunti per distinguerlo da quelli tesi a ridurre in generale il costo del lavoro. In fondo, più aumenta il numero di assunzioni più aumenta progressivamente il rischio per l’impresa che la decisione non si riveli fruttuosa in termini di risultati attesi. Quindi la tendenza è di attestarsi sul livello più basso possibile di occupazione. In questa categoria di provvedimenti, d’altra parte, entra anche l’abolizione dell’articolo 18, la cui ratio è, appunto, ridurre il rischio d’impresa, non ridurre il costo del lavoro o minacciare i diritti sul lavoro.

Il limite della proposta di Ricolfi
È intorno al concetto dinamico di rischio che si deve operare. Negli anni Ottanta, quando ci fu il grande dibattito negli Stati Uniti sul “productivity slowdown”, fu avanzata la proposta di ridurre le tasse sui profitti delle imprese che avessero aumentato la produttività. L’idea era che non si dovesse aiutare l’impresa decotta o in difficoltà a sopravvivere ma spingere le imprese a innovare e ad avere successo. Ma poiché solo ex post si può vedere chi è riuscito ad aumentare la produttività, la soluzione proposta era quella di non abbassare ex ante il rischio d’impresa ma di aumentare ex post il premio al rischio. La proposta di Ricolfi sul lavoro addizionale anche se agisce ex ante rappresenta già il premio a un’azione compiuta, quella di assumere nuovi lavoratori, ma perché non studiare un premio al rischio con una detassazione successiva, sui profitti, collegata al successo dell’impresa, cioè con il passaggio dal contratto job-Italia al contratto ordinario reso possibile, evidentemente, dall’aumento di produttività ottenuto nel frattempo?

Con il Job-Italia 300mila posti di lavoro in più

Con il Job-Italia 300mila posti di lavoro in più

Luca Ricolfi – La Stampa

Ma Renzi li legge i documenti ufficiali del suo governo? A me vien da pensare di no, o che li consideri solo noiose scartoffie buone per tranquillizzare i burocrati europei. Altrimenti non farebbe le dichiarazioni che continua a fare da mesi, in totale contrasto con quello che il suo ministro dell’economia scrive nella «Nota di aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2014».

Renzi dichiara che nel 2015 i tagli alla spesa pubblica non saranno «solo» di 17 bensì di 20 miliardi; nelle scartoffie, invece, la spesa pubblica diminuisce di appena 4 miliardi. Renzi annuncia una rivoluzione nel mercato del lavoro, per dare una speranza ai disoccupati e agli esclusi, ma nella «Nota di aggiornamento» si prevede che l’anno prossimo l’occupazione aumenterà di appena 20 mila unità, a fronte di più di 3 milioni di disoccupati. Renzi ci promette che fra 1000 giorni l’Italia sarà completamente cambiata grazie all’impatto delle sue riforme, ma nella «Nota di aggiornamento» del suo ministro dell’Economia si prevede che nel 2018, a fine legislatura, sempre che la congiuntura internazionale vada bene e che le famigerate riforme vengano fatte, il tasso di disoccupazione sarà dell’11.2%, anziché del 12.6% come oggi: in parole povere 2-300 mila disoccupati in meno (su 3 milioni), a fronte di 1 milione e mezzo di posti di lavoro persi durante la crisi. Se fossi un imprenditore sarei preoccupato, ma se fossi un sindacalista sarei imbufalito. Come si fa ad accettare che in un’intera legislatura il numero di disoccupati resti sostanzialmente invariato? È per questo, perché sa di non essere in grado di creare nuovi posti di lavoro, che il governo pone tanta enfasi sugli ammortizzatori sociali?

Nuovi posti a costo zero?
Ed eccoci al dunque. Se la politica deve mestamente ammettere che «non ci sono le risorse», e quindi l’azione di governo di posti di lavoro aggiuntivi ne potrà creare pochissimi, forse è giunto il momento di cambiare la domanda. Anziché chiederci come trovare le risorse per creare nuovi posti di lavoro, dovremmo forse porci un interrogativo più radicale: si possono creare nuovi posti di lavoro, tanti nuovi posti di lavoro, a costo zero per le casse dello Stato? Ai primi di marzo, quando come quotidiano «La Stampa» e come «Fondazione David Hume» lanciammo l’idea del maxi-job, la riposta era: forse. Oggi è diventata: quasi certamente sì. L’idea del maxi-job era in sostanza questa: anziché distribuire a pioggia un’elemosina di cui nessuna impresa si accorgerebbe, perché non permettere alle imprese che già intendono creare nuova occupazione di crearne ancora di più? Più precisamente: permettere alle imprese che aumentano l’occupazione (e magari anche alle nuove imprese) di usare, limitatamente ai posti di lavoro addizionali e per un massimo di 4 anni, uno speciale contratto full time nel quale il lavoratore riceve in busta paga l’80% del costo aziendale (anziché il 50% come oggi), mentre il restante 20% affluisce allo Stato, sotto forma di Irpef e di contributi sociali. Si potrebbe pensare che un contratto del genere ridurrebbe il gettito della Pubblica Amministrazione, a causa dei minori contributi sociali. E in effetti così sarebbe se, pur in presenza del nuovo contratto, le imprese non creassero alcun posto di lavoro addizionale; se, in altre parole, lo sgravio contributivo si limitasse a rendere più economici posti di lavoro che sarebbero stati creati comunque. Se però si ammettesse che, con un costo del lavoro quasi dimezzato, alcune imprese creerebbero più posti di lavoro di quelli programmati, la questione degli effetti sul gettito diventerebbe assai più aperta. Bisogna considerare, infatti, che un posto di lavoro in più genera nuovo valore aggiunto, e una parte di tale valore aggiunto genera a sua volta gettito non solo sotto forma di contribuiti Inps e Inail, ma anche sotto forma di altre tasse, come Iva, Irpef, Irap, Ires, eccetera (e si noti che il gettito complessivo delle altre tasse è quasi il triplo di quello dei contributi sociali).

Il nodo del gettito
In breve, quel che la Pubblica Amministrazione deve chiedersi non è: quanto gettito perdo se i nuovi contratti di lavoro pagano meno contributi sociali? Ma semmai: le nuove tasse che riscuoto grazie a posti di lavoro che altrimenti non sarebbero mai nati bastano a compensare il gettito che perdo per i minori contributi sociali? Ebbene, quando un anno fa formulammo la proposta del maxi-job non eravamo in grado di rispondere a questa domanda, perché non avevamo la minima idea di quanti posti di lavoro in più si sarebbero potuti creare con il nuovo tipo di contratto. Non sapevamo, in altre parole, qual era la «reattività» delle imprese. O, se preferite, qual era il moltiplicatore occupazionale del nuovo contratto. Però una cosa eravamo in grado di dirla: esiste una soglia di reattività sotto la quale il gettito diminuisce e sopra la quale il gettito aumenta. Tale soglia è circa 1.4 e significa questo: se i nuovi posti di lavoro passano da 100 a 140 il nuovo contratto non costa nulla, perché il gettito della Pubblica amministrazione resta invariato; se passano da 100 a meno di 140 (ad esempio a 120), il nuovo contratto costa, perché fa diminuire il gettito; se passano da 100 a più di 140 (ad esempio a 180) il nuovo contratto non solo non costa, ma fa aumentare il gettito.

La ricerca
Ecco perché gli ultimi sei mesi li abbiamo passati a cercare di scoprire quale potrebbe essere la reattività delle imprese. In primavera, con l’aiuto della società Kkien e dell’Unione industriale, abbiamo condotto un’inchiesta su 50 imprese chiedendo direttamente quanti posti di lavoro in più avrebbero creato con il nuovo contratto. Il risultato è stato sorprendente: nelle imprese che pianificano di aumentare l’occupazione i nuovi posti di lavoro sarebbero balzati, in media, da 100 a 264: un moltiplicatore pari a 2.64. Avremmo voluto rendere pubblico questo risultato, ma ci sembrava eccessivamente ottimistico e basato su troppo pochi casi. Si è quindi deciso di aspettare. A giugno è intervenuto un elemento nuovo: l’Unione delle Camere di Commercio del Piemonte ci ha offerto di inserire il questionario sul maxi-job nella loro indagine di metà anno sulle imprese manifatturiere piemontesi, in modo da disporre di un numero molto maggiore di risposte (oltre 1000). Con nostra grande sorpresa il moltiplicatore è ancora salito un po’, portandosi a 2.64. È a questo punto che è nata l’idea di un nuovo contratto di lavoro, il job-Italia, che va molto oltre l’impianto del maxi-job. Altrettanto conveniente per le imprese, il job-Italia è molto più generoso con i lavoratori. In estrema sintesi funziona così:
1) la busta paga è compresa fra 10 e 20 mila euro annui;
2) il costo aziendale aggiuntivo rispetto alla busta paga è del 25%, anziché del 100% come oggi;
3) il job-Italia è riservato alle imprese che aumentano l’occupazione, e dura da 1 a 4 anni;
4) la differenza fra costo aziendale e busta paga viene usata per pagare l’Irpef dovuta dal lavoratore;
5) quel che avanza dopo il pagamento dell’Irpef viene conferito interamente agli enti previdenziali (Inps e Inail);
6) lo Stato aggiunge l’intera contribuzione mancante, assicurando al lavoratore una piena tutela (malattia, infortunio, disoccupazione, pensione, liquidazione).

Un sogno?

Le stime
In termini statistici, direi proprio di no. Se anche il moltiplicatore fosse solo 2 (anziché 2.64), se anche il nuovo valore aggiunto per addetto (quello dei posti «in più») fosse un po’ minore di quello medio, il job-Italia farebbe comunque incassare allo Stato molti più soldi di prima. Una stima prudente suggerisce che, senza job-Italia, le imprese che intendono aumentare l’occupazione creerebbero circa 300 mila nuovi posti di lavoro tradizionali, mentre sepotessero usufruirne creerebbero da 600 a 800 mila job-Italia, soprattutto nelle piccole imprese. Risultato: il gettito contributivo si riduce di 3 miliardi, ma quello delle altre imposte aumenta di almeno 6, il che basta a pagare i contributi di tutti i maxi-job attivati, e verosimilmente lascia ancora qualcosa nelle tasche dello Stato.

Chi frena?
Ma allora perché non si fa? Una possibile risposta è che ci sia qualche fallacia nel mio ragionamento, o nelle stime della reattività delle imprese, o nella valutazione della lungimiranza della Ragioneria dello Stato, ancora molto legata a una visione statica dei conti pubblici: non posso certo escludere queste eventualità, la mia è solo una «modesta proposta», per dirla con Swift. L’altra risposta possibile è che la politica ha le sue regole, e che per gli equilibri del Palazzo (o per quelli dell’Europa?) sia più sicuro battere strade più convenzionali. Il problema, però, è che sulla via dei piccoli aggiustamenti siamo da anni, e i risultati sono terrificanti.