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Scacco ai burocrati

Scacco ai burocrati

Bruno Villois – La Nazione

Capita a tutti di dover avere bisogno di un elettricista, idraulico, meccanico e decine di altre figure indispensabili alla vita quotidiana di tutti noi. Ebbene, questi professionisti vi racconteranno che il loro impenetrabile e insuperabile nemico è la burocrazia. In media gli artigiani e i commercianti, dedicano un quinto della giornata a risolvere le infinite pastoie burocratiche, e altrettanto ne perdono per la parte contabile e fiscale. Su una media di 50 ore settimanali, 15-20 volano via per far fronte alla burocrazia, finora inossidabile e inattaccabile da ogni governo. Oltre al 30-40% del tempo per gli adempimenti, ci sono oneri finanziari, bolli, raccomandate, consulenti amministrativi e contabili. Eppure sono decenni che ogni politico, nazionale o locale, mette al primo posto il problema burocrazia per poi dimenticarsene in corso di mandato. Risolvere il problema con le ‘lenzuolate’ di liberalizzazioni o pseudo tali, non fa null’altro che aumentare il peso della burocrazia fissando, in nome e per conto delle liberalizzazioni, nuove astruse e complicate regole che nessuno è in grado di interpretare e che invece impongono più scartoffie e oneri consulenziali.

Il Governo pensa ad eliminare o a ridurre pesantemente il ruolo delle Camere di Commercio e dei corpi intermedi, che sono gli unici supporter dei piccoli imprenditori. Il loro indebolimento produrrà importanti problemi alle partite Iva, che vedranno ridursi i servizi, e rafforzerà la burocrazia. Chi rischia e lavora in proprio e dispone di risorse finanziarie limitate, da anni guadagna sempre meno e rischia sempre di più: togliergli i corpi intermedi significa abbandonarlo a se stesso. Renzi e il suo governo si dichiarano paladini della modernizzazione: se è vero, invece di abbattere i corpi intermedi, annientino la burocrazia. L ‘informatica e Internet sono un caposaldo per riuscirci; la riduzione del numero degli adempimenti e delle scadenze, da concentrarsi in un massimo di 2 o 3, è un secondo, punto fermo; l’abolizione dei doppioni, Stato, Regioni, Comuni, enti vari, che impongono, moltiplicandoli, gli stessi adempimenti, è il terzo perno. Così si modernizza il paese e si evita di far disperdere tempo e risorse a e piccole imprese.

C’è qualcosa di nuovo

C’è qualcosa di nuovo

Giuliano Cazzola – La Nazione

«C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole». Dalle statistiche ufficiali, di solito molto severe, arrivano primi segnali positivi per quanto riguarda il lavoro. A dicembre è diminuito il tasso di disoccupazione e sono aumentati gli occupati (di quasi centomila su novembre) e nello stesso tempo sono molti di più gli italiani che cercano lavoro (perché sperano di trovarlo), Per parlare di svolta occorrerebbero dati più stabili. L’aspetto incoraggiante viene, però, dal versante dell’economia.

Secondo l’autorevole Centro studi di Confindustria, il 2015 si annuncia come l’anno dello spartiacque, perché dovrebbe terminare la lunga crisi dando corso a incrementi del Pil e dell’occupazione che si riveleranno migliori delle previsioni correnti, «persino di quelle più recenti». Determinare la svolta a lungo attesa sono essenzialmente fattori esterni (la ripresa del commercio mondiale, il crollo del prezzo del petrolio, il cambio dell’euro). Si guarda. poi, con fiducia alle conseguenze dei nuovi criteri di flessibilità dei bilanci e delle misure della Bce sul Quantitative Easing (ma si sottovaluta l’effetto-contagio della Grecia), tra i fattori positivi c’è anche, per l’Italia il drastico ridimensionamento dei tassi di interesse sui titoli di nuova emissione. Bisognerà pur ammettere, allora, che le politiche condotte fino a oggi all’interno della Ue, sono state le sole che (se ne saremo capaci) consentiranno all’Italia di afferrare il ciclo della ripresa. Un posto di riguardo va riservato alle politiche del lavoro (lo ha riconosciuto anche il governatore Ignazio Visco), a partire dalla riforma del contratto a termine, mediante l’eliminazione della causale nell’ambito dei 36 mesi consentiti e con la possibilità di avvalersi di ben 5 proroghe.

Del Jobs Act Poletti 2.0 sono in corso le procedure per i decreti attuativi. Forte è l’interesse che le nuove norme stanno suscitando nelle imprese e negli investitori esteri. Se il testo dello schema non subirà delle modifiche sostanziali è doveroso riconoscere che vi saranno dei cambiamenti consistenti per quanto riguarda sia il licenziamento economico che quello disciplinare. Al contratto di nuovo conio (con tutele più sostenibili in tema di recesso) si accompagna un regime di robusti incentivi che, in pratica, consentirà alle imprese di accollare allo Stato la retribuzione di un intero anno (sui tre previsti), per gli assunti nel 2015.

Produzione in fuga

Produzione in fuga

Bruno Villois – La Nazione

In fatto di record, il governo Renzi è secondo a pochi. Quello della disoccupazione femminile gli appartiene, con le oltre 140 mila nuove senza lavoro, e più in generale solo il governo Monti ha saputo fare peggio, con i suoi oltre 500mila disoccupati, contro i 200mila di Renzi e i 160mila di Letta. I numeri parlano da soli ma l’aggravarsi della disoccupazione è dovuto ad alcuni fattori che, purtroppo, rischiano di peggiorare, anche se ci fosse una ripresa. Tra questi spicca lo spostamento di molti siti produttivi dall’Italia verso Paesi che offrono molte facilitazioni agli insediamenti e con burocrazia e pressione fiscale nettamente migliori delle nostre.

Il sistema produttivo italiano di grandi e a volte medie dimensioni, per migliorare le performance ha puntato ad espandersi nel mondo, sia per conquistare nuovi mercati, sia per ottenere migliori condizioni generali. Soltanto chi ha come scenario il mondo può crescere e ottenere soddisfazione dagli investimenti, è quindi naturale che il calo dei siti produttivi persista e con esso diminuisca l’occupazione. Ci sono però comparti, come le costruzioni o l’agroalimentare di alta qualità, il design e l’arredo o ancora l’automotive di alta gamma e la componentistica di alta precisione, per i quali produrre in Italia è o indispensabile, come l’edilizia, o rafforzante, per la qualità della materia prima o la manodopera altamente specializzata che solo da noi esistono. Purtroppo il Governo non sta puntando su una politica industriale mirata a sostenere il sistema industriale e soprattutto i comparti produttivi che possono fare la differenza, sia in termini di occupazione qualificata, che di redditività e quindi di pagamento di tasse e contributi.

Il settore chimico-farmaceutico è forse quello che ha saputo, meglio di ogni altro, tenere alto il valore dell’italianità, pur espandendosi molto all’estero e nonostante sia stato sovente vessato da norme sfavorevoli, ha mantenuto saldamente entro confine siti produttivi e ricerca. Menarini, Chiesi, Italfarmaco e Recordati sono modelli vincenti sotto ogni aspetto, che per essere clonati in altri settori necessitano di ben altro tipo di politica industriale governativa. È fondamentale puntare sulle imprese e stimolarle a rimanere entro confine, ulteriori delocalizzazioni aggraverebbero pesantemente la disoccupazione.

La montagna e il topolino

La montagna e il topolino

Giuliano Cazzola – La Nazione

All’avvicinarsi della ‘prova del fuoco’ dei decreti delegati (gli schemi saranno predisposti nel Cdm della vigilia di Natale) emerge con chiarezza la caratteristica del Jobs Act Poletti 2.0, almeno per quanto riguarda la questione del contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti con annessa la disciplina del licenziamento individuale. Per diversi motivi, durante il travagliato percorso della legge delega, si è assistito a un duro scontro politico che non trovava riscontro nelle norme che venivano profilandosi nella ‘navetta’ tra le due Camere. Il governo e la maggioranza dichiaravano intenti innovatori non riscontrabili nei principi e criteri direttivi; le opposizioni (a partire da quelle interne al Pd e dalla Cgil) denunciavano gravi abusi di cui non venivano ravvisate tracce nei testi. Alla fine, si è arrivati alla seguente mediazione: «… escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l’anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché prevedendo termini certi per l’impugnazione del licenziamento».

Se è pacifico che, nel caso di nuovi assunti con il contratto a tutele crescenti, il licenziamento economico ingiustificato sarà sanzionato soltanto con un indennizzo (si sta discutendo sulla misura e se, oltre a un tetto massimo, debba essere prevista una soglia minima) è altrettanto chiaro che, per «specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato» il giudice potrà ordinare la reintegra. Corre voce che il governo si stia orientando a sanzionare così i casi in cui venga accertata l’insussistenza del fatto che ha determinato il recesso. Più o meno quanto già previsto nella legge Fornero. La montagna si appresta a partorire il topolino, come denunciano settori della maggioranza? Forse sarebbe stato meglio vigilare sulle mediazioni che il Pd conduceva al proprio interno, piuttosto che sperare di ignorarne la portata al momento dei decreti. Sarebbe almeno importante riconoscere al datore soccombente l’alternativa di optare per un’indennità risarcitoria, anziché attenersi all’ordine di reintegra.

L’impresa al centro

L’impresa al centro

Bruno Villois – La Nazione

Il Centro Studi di Confindustria azzarda una previsione di Pil lievemente positivo per il 2015, con un +0,5%. Stessa ipotesi di ripresa, però, era stata fatta per l’anno in corso e per il precedente. L’analisi parla anche di consumi che risalgono, dono sei anni di crisi, recuperando un mezzo punto percentuale. A breve uscirà anche la previsione di Confcommercio e si vedrà se va anch’essa verso un orizzonte economico con mini squarci di sereno. Di certo qualche segnale di miglioramento è già arrivato quest’anno dalle vendita delle auto con un + 5%, dal calo della cassa integrazione, positivo però solo dal trimestre in corso, e infine dalla ripresa delle trattazioni immobiliari, anche per i livelli medi. Quindi la previsione di Confindustria, che ha nei suoi capisaldi anche gli ordini dell’industria e la fiducia degli imprenditori, potrebbe avere piu fondamenta degli anni precedenti. Con una ripresa di 0,5% succederà ben poco dal punto di vista reale e la disoccupazione continuerà a crescere, sfondando i record attuali. La disoccupazione rappresenta il primo effetto della crisi del nostro sistema imprenditoriale, schiacciato dalla crisi globale e da una debolezza dovuta ad imprese troppo piccole, fortemente indebitate e con serie difficoltà ad investire in modernizzazione e quindi innovazione, ricerca, formazione permanente.

Correggere e migliorare il sistema imprenditoriale nostrano sarà opera complessa. Il governo dovrebbe mettere al centro della sua agenda l’impresa e come sostenerne, attraverso una politica industriale ancor oggi inesistente, il rafforzamento, facilitando fusioni, incorporazioni, quotazioni in Borsa. In assenza di un progetto complessivo che contenga la riduzione delle pressione fiscale, il ridimensionamento e lo snellimento della burocrazia, l’accesso al credito, almeno parzialmente, garantito da Cassa Depositi e Prestiti, sarà molto difficile se non impossibile ridare smalto al nostro Pil. Senza un ‘impresa più forte e quindi maggiormente in grado di competere in ogni dove, non si può realizzare una consistente e duratura ripresa, con un’occupazione stabile e una adeguata redditività in modo da ottenere flussi di cassa fondamentali per poter investire e quindi modernizzarsi e crescere.

Tutelati a ogni costo

Tutelati a ogni costo

Raffaele Marmo – La Nazione

La Pubblica amministrazione italiana è, per essere ancora ottimisti, semi-fallita, ma il sindacato, tutto o quasi, fa finta di non saperlo. E come negli anni Settanta, prima della svolta di Luciano Lama, considera ancora il salario e quelle che un tempo si chiamavano condizioni di lavoro una «variabile indipendente». In questi terribili anni di recessione migliaia di imprese hanno chiuso o sono state costrette a contrarsi, centinaia di migliaia di lavoratori privati hanno perso il lavoro. In giro per l’Europa non solo nella Grecia della troika, ma anche in Spagna, Inghilterra e Irlanda, i dipendenti pubblici in esubero sono stati licenziati o hanno visto decurtate drasticamente le retribuzioni. Questo è il contesto, non un altro.

Ebbene, in questo contesto i dipendenti pubblici italiani sono stati al riparo da tutto, protetti e garantiti magicamente dentro una bolla o, meglio, comodamente accovacciati all’interno dell’ultima ridotta di socialismo sovietico. Nessun licenziamento (ma neanche la vaga minaccia), niente cassa integrazione, nessuna mobilità, che è un concetto astratto mai attuato, buono solo per inutili polemiche. Di tagli di stipendio, manco a parlarne. A meno di non voler considerare taglio il blocco degli aumenti retributivi dovuto a congelamento della contrattazione: un’operazione minimale a impatto pressoché nullo in presenza di un’inflazione prossima allo zero e addirittura in deflazione.

Ma non basta. Perché alla protezione totale dei dipendenti ha fatto da pendant un incremento esponenziale dell’inefficienza complessiva della Pa. Tanto che si può ben rilevare come la Pubblica amministrazione sia stata e rimanga uno dei principali fattori di accelerazione del declino o, per converso, di freno alla crescita. Basti pensare che dappertutto il tempo e le procedure sono considerati costi, necessari a volte, ma comunque costi. E, dunque, da comprimere all’indispensabile. Solo negli uffici pubblici italiani tempo e procedure si sono dilatati a dismisura in questi anni. E allora appare quanto mai urgente per il sindacato tornare, a proposito del pubblico impiego, alla lezione di Lama del ’78 sul salario «variabile indipendente»: «Ebbene dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una dall’altra».

Meno società e più asili

Meno società e più asili

Pierfrancesco De Robertis – La Nazione

Il governo chiede di ridurre e riorganizzare la spesa degli enti locali, e per tutta risposta da governatori e Sindaci riceve sempre la solita risposta: se ci date meno soldi taglieremo i servizi. I Sindaci tagliano gli asili, i presidenti di Regione i posti letto. Eppure i Sindaci, come i governatori, più di una cosa da «farsi perdonare» ce l’hanno. Ma nessuno, di fronte all’esigenza di rimodulazione della spesa, offre la propria disponibilità a mettere in gioco qualcosa di ciò che si è conquistato negli anni. Tutti invocano i sacrifici, basta che a farli siano gli altri. Vecchia storia, vecchia Italia.

Nei Comuni non ci sono i Fiorito che hanno spopolato nei consigli regionali, certo, ma i margini di risparmi possibili sono notevoli. Prendiamo per esempio il caso delle società municipalizzate e la proposta di eliminare i piccoli Comuni, quelli sotto i mille o duemila abitanti, per accorparli ai più grandi. Avete sentito qualche Sindaco proporre l’eliminazione di una partecipata invece di un asilo nido? O qualche Sindaco di un piccolo Comune dire che in fondo se si fosse unito a quello vicino, sacrificando quindi la propria poltrona, forse i soldi risparmiati sarebbero stati indirizzati all’assistenza domiciliare per i non autosufficienti? Nel caso segnalatecelo.

I Sindaci negli ultimi tempi hanno goduto di una «stampa» migliore rispetto alle Regioni o alle semi-defunte se pur ancora vivissime province, ma a ben guardare non sono immuni dall’accusa di sprechi. L’ex commissario alla spending review Carlo Cottarelli aveva indicato in 34 miliardi all’anno il risparmio possibile dalla riduzione delle partecipate, dalle attuali 8mila a circa mille, e delle 8mila quasi tutte erano nei Comuni (le Regioni ne hanno in tutto meno di 500). Cottarelli aveva consigliato al governo di inserire nella legge di Stabilità l’obbligo del taglio, ma poi tutto è sparito nel nulla, e i Sindaci si sono ben guardati dal ritirar fuori la cosa: municipalizzate vogliono dire posti nei cda, nomine, potere e sottopotere. Stessa cosa per i piccoli Comuni. Tremonti decise di eliminarli: rivolta generale e marcia indietro. Anche lì i tre-quattromila Comuni di troppo significano tre-quattromila Sindaci, qualche decina ai migliaia di assessori e via dicendo. Guai toccarli. Se poi saltano gli asili chissenefrega.

I quattro filtri

I quattro filtri

Giuseppe Turani – La Nazione

Il premier Renzi è uno che corre veloce, e infatti anche la sua Legge di Stabilità è arrivata in perfetto orario. Adesso, però, la corsa rallenta obbligatoriamente: infatti l’aspettano ben quattro filtri importanti. Il primo è quello della coerenza delle cifre. Si sa che Renzi ha molta voglia di fare e quindi è possibile che da qualche parte si sia stati un po’ larghi. Oggi, però, c’è il testo definitivo e chiunque (opposizione compresa) potrà valutare se c’è coerenza fra quello che si promette di spendere e quello che si spera di incassare. È un esame che sarà fatto da economisti, giornali, opinione pubblica: tutta gente che non ha ruoli istituzionali ma che conta in un paese in cui tutti si sentono commissari tecnici della Nazionale e primi ministri.

Il secondo  filtro sarà probabilmente il più severo. Si tratta infatti dei guardiani dell’Unione europea fra cui spiccano tedeschi e esponenti dei paesi nordici. In pratica dei puritani del bilancio pubblico in ordine. Si può star certi che nei confronti della prima Legge di Stabilità di Renzi saranno attentissimi. E non disposti a fare sconti. È vero che il ministro dell’economia, Pier Carlo Padoan dovrebbe rappresentare un buon scudo. Oltre a essere un uomo di riconosciuta prudenza e ben noto negli ambienti internazionali, tutti sanno che non avrebbe mai firmato una legge tenuta insieme con lo spago e gli elastici. Però questa Legge è, in buona sostanza, un bilancio di previsione: sta insieme se le previsioni che si sono fatte, a proposito ad esempio della crescita economica (e quindi delle entrate fiscali) sono ragionevoli. In questi ultimi anni l’Italia è diventata famosa per mettere nero su bianco previsioni di crescita manicomiali: a un certo punto si era persino detto che quest’anno avremmo avuto una crescita dell’l,1 per cento. Invece andremo indietro dello 0,3 per cento, ma c’è anche chi parla dello 0,4 per cento. Su questo punto, che poi è il cuore della Legge di Stabilità, si può stare certi che il confronto con di Bruxelles non sarà semplice.

Il terzo filtro è rappresentato dal Parlamento. E qui la faccenda si complica. Per due motivi. In primo luogo c’è che i deputati approfittano sempre dell’arrivo della Legge di Stabilità per cercare di infilarvi dentro qualcosa per i loro protetti. Ma c’è un altro aspetto parlamentare da tener presente. Non è un mistero che a molti deputati e senatori questa manovra non piace. Inoltre c’è una certa quota di onorevoli che farebbe qualunque cosa pur di vedere Renzi ruzzolare insieme alla sua Legge di Stabilità. Il confronto parlamentare, quindi, sarà una prova politica fra le più difficili per il premier.

Infine c’è l’ultimo filtro: i sindacati. Renzi ha dato l’impressione, fin qui, di non curarsene molto, a causa della loro relativa impopolarità presso gli elettori. Però, se alla fine ci si trova davvero con un milione di persone in piazza e con la prospettiva di uno sciopero generale, bisognerà inventarsi qualcosa. Non sono più i tempi del governo Rumor, quando bastava l’annuncio di uno sciopero generale per provocare le dimissioni del governo. Però, insomma, non si potrà nemmeno cavarsela con due battute e tre tweet. Oggi nessuno può dire che cosa resterà della Legge di Stabilità dopo il passaggio in questi quattro filtri. Si sa solo che “qualcosa” entro la mezzanotte del 31 dicembre va approvato.

Fra l’uscio e il muro

Fra l’uscio e il muro

Marcello Mancini – La Nazione

I tagli del patto di stabilità hanno messo le Regioni fra l’uscio e il muro. Ora dovranno trovare il verso di far quadrare i conti. I governatori attaccano: «Saremo costretti noi ad alzare le tasse»; «Renzi invita a cena con i soldi degli altri». Detto così può sembrare anche un ragionamento giusto: il premier si fa un altro spot («È la più grande riduzione di tasse mai fatta da un governo della Repubblica») mentre scarica sulle Regioni l’antipatica responsabilità di recuperare da qualche parte i finanziamenti che i rubinetti statali smetteranno di erogare.

L’istantanea e rabbiosa reazione di tutte le Regioni, però, non convince per nulla. Prima di tutto perché non può piangere miseria e minacciare di ritorsioni (più tasse) sui cittadini, una categoria di politici che negli ultimi anni ha prodotto le evoluzioni di Fiorito-Batman, le aragoste a colazione, le mutande verdi di Cota e le prodezze di un esercito di inquisiti che hanno fatto man bassa dei nostri soldi, sottraendoli alle casseforti regionali. Proviamo invece a leggere i tagli di Renzi come una spallata alla Casta, un modo per dire: arrangiatevi voi. Troppo facile rifarsela con i cittadini.

Che le Regioni siano una sacca di sprechi e di burocrazia non è una scoperta recente. Gonfiate negli anni da assunzioni clientelari, consulenze esterne milionarie, missioni e uffici all’estero, appropriazione di funzioni figlie della megalomania di qualche assessore, hanno creato canali di spese inarrestabili. Perciò molti hanno pensato – soluzione assai condivisibile – che invece di abolire le Province sarebbe stato più logico ridimensionare le Regioni. a questo avrebbe comportato una botta per migliaia di posti di lavoro. Allora la strada scelta da Renzi è un modo per costringere i governatori a guardarsi in casa e tirare la cinghia sul serio. Il presidente dei governatori, Sergio Chiamparino, si è avventato su patto di stabilità con una tale violenza, nonostante sia un renziano della prima ora, da far pensare che i cannoni della manovra abbiano centrato il bersaglio.

Costa fatica muoversi dalla pigrizia amministrativa, che ha lasciato correre soldi senza badare troppo a dove finivano (pensate alle spese dei gruppi consiliari che, fuorché in Toscana, sono sotto inchiesta), salvo poi bussare alla porta del salvifico decreto romano. È il momento di studiare soluzioni nuove e far calare la spending review su qualche allegra scampagnata finanziaria, sopravvissuta ai risparmi. In Toscana il non-renziano Enrico Rossi ha già messo le mani avanti – eppure con il freno a mano tirato, rispetto a Chiamparino – e ha ipotizzato un superticket sui servizi nella Sanità. «Paghino i ricchi» è il ritornello trotskista di Rossi, già brandito per difendere i servizi dei treni pendolari divorati dall’Alta velocità colpevole di non costare abbastanza ai privilegiati passeggeri. A parte che bisognerebbe capire fin dove Rossi – in questo nostro disgraziato sistema – estende il concetto di «ricchi», gli consigliamo di ripensare anche ai costi della politica sanitaria, agli sprechi trascorsi (il buco Asl di Massa; il magazzino Estav di Calenzano, pagato 20 milioni e inutilizzato) e alle future strategie: la scelta, per esempio, di dirottare su Massa tutta la cardiochirurgia, non chiarisce quale sarà il ruolo del Meyer di Firenze, sul quale la Regione ha investito ma che sta ignorando in settori delicati come oncoematologia, traumatologia e urologia. Vanno bene tutti i ticket del mondo – tanto pagano i ricchi! – ma almeno i soldi spendeteli bene.

Riforme alla prova

Riforme alla prova

Giuseppe Turani – La Nazione

Giorgio Squinzi, che è un uomo prudente e presidente di Confindustria, di fronte alla manovra (annunciata) di Renzi arriva a esclamare: realizzato il nostro sogno. Esattamente l’opposto di come reagisce la Cgil di Susanna Camusso: manifestazione il 25 e poi, probabilmente, sciopero generale. La manovra, per come è stata spiegata, sembrerebbe perfetta (o quasi). Renzi pare avere convinto anche quelli dell’agenzia di rating Moody’s. Si tratta di 30 miliardi in uscita e in entrata, una manovrona quindi. Ma, soprattutto, non si vedono tasse o altri aumenti di balzelli

I 30 miliardi in entrata vengono recuperati sostanzialmente in due modi: un po’ di debiti in più (11,5 miliardi), nel senso che si alza il disavanzo, e dai tagli di spesa (13,3 miliardi, a carico di regioni, comuni, province e ministeri). In più ci sono altre piccole voci (lotta all’evasione, slotmachine, detrazioni, eccetera). I vari enti locali stanno già urlando, ma poiché sono dei noti spendaccioni qualche taglio va bene. In sostanza, tutto a posto. A patto che queste cifre diventino poi realtà vera. Tagliare 13,3 miliardi di spesa pubblica non è facile come dirlo. Soprattutto se va tutto a carico di ministeri ed enti locali. Il sospetto è che poi, in corso d’opera (come si suole dire) i 13,3 miliardi diventino magari solo cinque è forte. E un po’ spiace che i tagli avvengono ‘ritagliando’ i finanziamenti alla struttura pubblica esistente senza intaccarla: tutti sappiamo che c’è molto da sfoltire, ma qui si riducono solo un po’ i finanziamenti. Comunque, meglio di niente. O di una manovrina da 14 miliardi.

Interessante anche il modo in cui verranno spesi questi soldi. Le due voci più importanti sono: 10 miliardi per i famosi 80 euro e 6,5 miliardi per un’ulteriore riduzione dell’Irap. Poi c’è anche il no-contributi per i primi tre anni, quando un’impresa fa un’assunzione a tempo indeterminato. A sentire gli annunci di Renzi, quindi, non ci sono nuove tasse (anzi c’è una robusta riduzione) e invece ci sono sgravi e aiuti per il lavoro (e infatti lui ha gridato agli industriali: adesso non avete più scuse, assumete). Più che comprensibile, quindi, l’entusiasmo di Squinzi e degli imprenditori: per la prima volta non si parla di nuove tasse e, anzi, gliene vengono tolte un po’. Sull’altro fronte la Cgil della Camusso si dichiara invece totalmente insoddisfatta più che altro perché Renzi non rinuncia a cancellare il famoso articolo 18 e perché, a detta della Cgil, si andrebbe verso un’ulteriore precarizzazione del lavoro.

È questa la scossa di cui aveva bisogno l’economia italiana per rilanciarsi? No. Serviva molto di più. Soprattutto serviva mandare un segnale che la struttura della pubblica amministrazione cambia, che si chiudono un po’ di società locali e che si va a scavare a fondo nella spesa sanitaria delle Regioni, un noto luogo di sprechi e imbrogli. E magari, anche l’annuncio che la complicatissima struttura amministrativa dello Stato italiano veniva un po’ semplificata. Però, se quello che è stato annunciato verrà fatto davvero, siamo già sulla buona strada.