la nazione

Incentiviamo chi investe

Incentiviamo chi investe

Bruno Villois – La Nazione

No patrimonio, no credito bancario, parafrasando una nota pubblicità televisiva. Questa è la sintesi della diminuzione dell’erogazione dei prestiti bancari. Il sistema creditizio è stato obbligato ad accantonare miliardi di euro, per crediti inesigibili, imputabili per oltre i due terzi alle piccole imprese, le quali a causa della crisi e in non pochi casi al mancato pagamento da parte delle PA di forniture e servizi, stanno vivendo la loro peggior stagione.

L’inadeguata patrimonializzazione e l’insufficiente ricorso al capitale di rischio, da parte della stragrande maggioranza delle piccole aziende, è all’origine del costante aumento della contrazione dell’erogazione dei prestiti. Per rianimare i processi espansivi della nostra economia e fondamentale alimentare una dose massiccia di investimenti. Le norme fiscali hanno sempre favorito l’indebitamento bancario consentendo la detrazione degli interessi passivi dalle tasse, nessuna agevolazione, né incentivo, sono stati concessi a favore del conferimento di capitale di rischio, con il risultato di allontanare il versamento di capitale proprio degli imprenditori. La crisi ha fatto emergere la debolezza patrimoniale della maggioranza delle nostre imprese, il ridotto accesso al credito ne è stata la conseguenza naturale.

Per riattivare un flusso importante di prestiti è indispensabile che le imprese si patrimonializzino, così da poter garantire, in misura appropriata, quanto loro concesso dalle banche. Un’importante ondata di nuovi prestiti creerebbe le condizioni per rilanciare gli investimenti in modernizzazione, innovazione, ricerca e formazione, tutte componenti indispensabili per consentire alle imprese di poter competere a livello internazionale. Il governo insiste ad operare su linee strategiche che non tengono conto della reale situazione del sistema imprenditoriale nostrano, perché non pone in atto politiche a sostegno delle imprese. Le banche non possono caricarsi il fardello di ulteriori crediti inesigibili, servono politiche fiscali che favoriscano la patrimonializzazione delle imprese, premiando i soci che conferiscono capitale, come accade in molti altri Paesi, con la detrazione dai loro redditi di quanto versato. Per aiutare la ripresa bisogna rilanciare il sistema imprenditoriale, favorirne la crescita è una condizione essenziale.

Nel tunnel a lungo

Nel tunnel a lungo

Giuseppe Turani – La Nazione

Ci attendono quattro anni di navigazione difficile. Se qualcuno aveva pensato a un certo slancio dell’economia italiana e a un netto miglioramento dei suoi numeri, si sbagliava. Le ultime cifre fornite dagli esperti del Fondo monetario internazionale sono una doccia gelata. Quest’anno l’Italia andrà indietro dello 0,2 per cento (quindi terzo anno di recessione). La disoccupazione arriverà al suo massimo del 12,6 er cento. Il nostro debito pubblico salirà, rispetto al Pil, dal 132,5 del 2013 al 136,7. E questo è probabilmente il dato più preoccupante: in un solo anno il rapporto defici/Pil peggiora di 4,2 punti. E le cose non sono destinate a migliorare tanto in fretta. Nel 2015, infatti, il Fondo monetario prevede che il rapporto defici/Pil scenda solo al 136,4. Per vedere una discesa consistente, con un rapporto al 125,6, bisognerà aspettare il 2019. Nel 2015, infine, la crescita italiana sara dello 0,8 per cento.

Questi numeri hanno anche una loro qualità. E questa consiste nel fatto che è in corso un rallentamento dell’economia mondiale: al punto che è lo stesso Fondo monetario a parlare, per quanto riguarda l’Europa, di un aumento dei rischi di recessione, di deflazione e di stagnazione. E fa paura la previsione che fino a 2019 l’inflazione in Europa rimarrà al di sotto del 2 per cento: in ogni istante, quindi, ci sarà la possibilità di piombare nella deflazione.

La conclusione alla quale si arriva, purtroppo, è che i prossimi quattro anni, che saranno di bassa crescita andranno anche vissuti con il fiato in gola, con lo spettro della possibile deflazione dietro l’angolo Questo scenario cattivo dipende solo in parte da noi: siamo davanti a una frenata dell’economia mondiale contro la quale possiamo fare ben poco, anzi niente. L’unica cosa certa è che dopo sette anni di crisi ne abbiamo davanti altri quattro pericolosi. Per questo sarebbe opportuno accelerare quelle riforme di struttura che tutti ci stanno chiedendo. La Bce di Draghi, che il Fondo monetario elogia, fa quello che può (positiva è giudicata l’idea degli Abs), ma sono i singoli paesi che devono andare avanti con il processo di cambiamento. Se si fa questo, non è impossibile migliorare l’andamento dell’economia.

La riforma monca

La riforma monca

Giuseppe Turani – La Nazione

Incontro di Renzi con i sindacati (un’ora) e poi con la Confindustria per cercare di mandare in porto la contestatissima riforma del lavoro. Su un altro tavolo, riservato, proseguono intanto le trattative con la minoranza del Pd, molto contraria a dare deleghe in bianco al governo e schierata in difesa dell’articolo 18. Sarà la volta buona?

La sensazione è che il governo ai sindacati abbia più cose da chiedere che da dare: la riunione, quindi dal punto di vista della Cgil e degli altri suoi colleghi rischia di essere del tutto inutile, se non dannosa. Ma il governo potrebbe decidersi di fare qualche concessione proprio sull’articolo 18 in cambio del via libera al Tfr in busta paga. Stessa cosa, ma rovesciata con la Confindustria. Difficile immaginare l’esito delle due riunioni. E ancora di più della trattativa riservata con la minoranza Pd. Alla fine, comunque, è possibile, molto possibile, che Renzi riesca a procedere con il suo progetto di riforma del lavoro. E allora la domanda che tutti si pongono è: sarà una svolta? Servirà a creare qualche occupato in più? La risposta immediata che viene in mente è: nemmeno uno. E non è una cosa difficile da capire.

Fino a quando il sistema economico è in crisi, in recessione, come ora, si può anche stabilire che i lavoratori andranno in fabbrica o in ufficio gratis, ma nessuno li assumerà per la semplice ragione che non si saprebbe che cosa fargli fare. Dopo questa riforma, se non ci saranno cambiamenti sostanziali, il datore di lavoro avrà più libertà per disfarsi della manodopera non gradita. E questo è certamente un incentivo. Ma solo in periodi di forte crescita economica e quindi con la necessità di aumentare la produzione. In questo momento, invece, abbiamo un quarto del sistema industriale del Paese che, semplicemente, è come se non esistesse più: luci spente e fabbriche ferme. Qui è evidente che non esiste alcun problema nel rapporto con i dipendenti: sono tutti a casa. in cassa integrazione.

Nel resto del sistema produttivo c’è una situazione molto composita. Ci sono aziende che vanno molto bene (perché esportano molto) e aziende che vanno molto male (perché hanno quasi solo il mercato interno). È difficile immaginare che una riforma (per quanto ben fatta) del mercato del lavoro possa indurre le prime a esportare di più e le seconde a trovare un mercato che non c’è. Se si voleva ottenere le due cose appena dette, la strada maestra è stata indicata da tempo da tutti gli esperti: bisognava abbattere di 30-40 miliardi il peso fiscale che grava sul lavoro (portandolo così al livello di quello tedesco). Per fare questo, però, bisognava mettere in cantiere tagli di spesa pubblica almeno per analogo importo.

Ma la spesa pubblica sembra che sia un totem intoccabile. Tutti sanno che i nostri guai maggiori vengono dalle spese della pubblica amministrazione, ma alla resa dei conti nessuno riesce a toccarla. Ormai siamo al terzo governo di emergenza, tutti hanno promesso che avrebbero aggredito il moloch della spesa pubblica. Ma i risultati finora sono stati assai deludenti. Non potendo discutere di questo, che è il tema centrale della nostra precaria condizione, si discute d’altro, ad esempio del mercato del lavoro. La riforma in corso d’opera un giorno si rivelerà probabilmente utile e interessante, quando questo Paese sarà tornato a crescere. Ma nessuno sa dirci quando sarà quel giorno. Forse nel 2016, o nel 2017.

La via d’uscita

La via d’uscita

Giuseppe Turani – La Nazione

Abbiamo dominato il mondo, inventato il diritto, costruito il Colosseo, fatto strade da Roma all’Irlanda ma ora siamo qui fermi da almeno dieci anni e giriamo intorno al palo della crescita dell’1% per cento l’anno quando va bene. I disoccupati aumentano, le aziende chiudono i battenti, tutti si sentono (e sono) più poveri e nessuno vuole spendere.

Abbiamo 2300 miliardi di debiti, qualcuno sostiene che non torneremo più come nel 2007 e dovremmo creare due milioni di posti di lavoro. Impresa disperata. Se esiste un momento per fare le riforme, è esattamente questo. La politica non ha mai avuto alibi, ma oggi siamo proprio a zero. Solo che uscire dalla trappola non è così semplice: da una parte dobbiamo rispettare i vincoli posti dall’Europa, dall’altra avremmo bisogno di molti soldi per rilanciare l’economia. Esiste una via d’uscita? Forse sì. E ci viene indicata dalla Francia. L’Europa faccia quello che vuole: noi, dicono i francesi. cerchiamo di non soffocare e di ridare un futuro alla nostra gente. La ricetta è applicabile all’Italia? Sì, al punto in cui siamo non resta altro da fare. Quindi possiamo sforare i parametri europei? Sì, possiamo e, anzi, dobbiamo. Con un paio di precisazioni, però.

La prima è che l’eventuale decisione di sforare (che farà innervosire mercati e partner) va accompagnata da una sorta di crono-programma di tagli da fare a scadenze precise, che devono consentirci entro 3-4 anni di rientrare nei parametri. I mercati ce lo lasceranno fare? Penso di sì: un debitore morto è un pessimo debitore. E noi siamo molto vicini all’ultimo respiro.

La seconda è di quelle che forse non piaceranno ai nostri politici. Ogni punto di sforamento sono circa 15 miliardi. Se si dovesse sforare al 5%, ci sarebbero 30 miliardi in più da spendere. Già vedo i politici che fanno salti di gioia. Finalmente si può fare politica industriale, faremo questo e quell’altro, aggiusteremo le scuole, rifaremo gli argini dei fiumi. Bene, niente di tutto questo. La politica italiana, con il suo «fare», ha già dilapidato 2300 miliardi. Se c’e qualcuno che non deve nemmeno provare a toccare i «nuovi» soldi sono proprio i nostri politici. Senza offesa per nessuno: purtroppo i numeri stanno a dire che il «sistema Italia» ha la tendenza a buttare via i soldi. E allora? I denari in più (che, ricordiamolo, sarebbero altri debiti) vanno tutti dedicati alla diminuzione della pressione fiscale: sul lavoro, sulle imprese, sulle famiglie. Vanno dedicati, cioè, a costruire un paese dove abbia ancora un senso lavorare e guadagnare. E, naturalmente, i tagli promessi vanno fatti, esattamente nelle scadenze stabilite, non deve essere ammesso nemmeno un rinvio.

La crescita che non c’è

La crescita che non c’è

Giuseppe Turani – La Nazione

I senza lavoro sono tantissimi: più del 12 per cento in totale e più del 43 per cento fra i giovani. E già questa è una situazione drammatica. Ma bisogna aggiungere due altre considerazioni. In realtà i senza lavoro sono molti di più perché molti sono così scoraggiati che non lo cercano nemmeno più e provano ad arrangiarsi in qualche modo. La seconda considerazione viene dal Cnel che prima di chiudere i battenti ha avuto uno slancio di sincerità: è possibile che non si torni mai più ai livelli di occupazione che avevamo prima della crisi con meno del 7 per cento di disoccupati. Questa cupa previsione, purtroppo, non è campata per aria. In questo paese la crescita non c’è e non ci sarà ancora per lungo tempo, se non cambia davvero qualcosa (ma che cosa?).

Allo stato attuale dell’arte (si diceva una volta) la situazione è questa: da qui al 2017 si crescerà in media dello 0,4 per cento l’anno, dal 2018 al 2022 la crescita sara dell’l,2 per cento (previsioni Oxford Economics). Nel 2022, data molto lontana, i senza lavoro in Italia saranno ancora poco meno del 10 per cento. D’altra parte questa previsione non deve stupire. C’è talmente poca crescita che è impossibile immaginare una forte ripresa dell’occupazione. Se la gente gente non consuma e se le aziende non sanno a chi vendere i loro prodotti e i loro servizi, perché mai dovrebbero assumere delle altre persone, oltre a quelle che hanno già? Una volta si sosteneva che per avere un aumento dei posti di lavoro bisognava puntare su una crescita almeno del 3 per cento. Ma qui siamo lontanissimi da questo traguardo. Da qui al 2022 non c’è un solo anno in cui sia previsto di andare non al 3 per cento, ma almeno all’1,5, cioè la metà: siamo sempre poco al di sopra dell’1 per cento o poco al di sotto.

La conclusione alla quale si arriva (che poi è la stessa del Cnel) è che in Italia la disoccupazione è ormai diventata un fatto strutturale, cioè stabile, come il Colosseo e la buona cucina. Siamo un paese bloccato. Anche facendo tutte le cose giuste e per benino, più in là di tanto non andiamo. Servirebbe una vera rivoluzione: via tre quarti della burocrazia e briglie molto lunghe sul collo delle imprese purché si diano da fare. Una rivoluzione, insomma. Invece siamo qui impantanati nella discussione attorno a un’anticaglia come l’articolo 18, come se fosse il confine fra il bene e il male. Il male, invece, è molto più vasto: è in un paese bloccato per sua stessa scelta.

Bandiere senza idee

Bandiere senza idee

Giuseppe Turani – La Nazione

Siamo alle solite. Il sindacato si avvicina a una scadenza importante (la riforma del lavoro) e subito accadono due cose. La prima è che si dividono; la seconda è che, con un riflesso quasi pavloviano, l’ala più combattiva ( la Cgil) annuncia che sarà sciopero contro i cambiamenti. Due fatti che non testimoniamo una maturità del nostro sindacalismo. Persino in una situazione difficile come questa che stiamo vivendo, le tre famiglie sindacali italiane non riescono a trovare un terreno comune di intervento sensato. Viene il sospetto che si tratti quasi di una lotta fra clan. Nessuno vuole andare all’unificazione perché perderebbe il controllo della propria area: oggi ci sono tre segretari generali e tre gruppi dirigenti. Se ci fosse l’unità, avremmo un solo segretario e un solo gruppo dirigente. Meglio continuare così: ognuno ha il proprio pezzettino di gloria e privilegi. E c’è il sospetto che abbiano come prima preoccupazione quella di autoperpetuarsi: esattamente come la politica.

Poi c’è la questione dello sciopero (forse della sola Cgil). Che senso abbia uno sciopero in un momento in cui i senza lavoro sono quasi sei milioni (contando anche i cassaintegrati) non si sa. Probabilmente uno solo: dare una prova di forza, portando in piazza alcune migliaia di persone. A che cosa serve tutto ciò? A niente. Questo è un momento in cui servirebbe uno sforzo comune, servirebbero delle idee, non gente che urla in piazza e sventola bandiere rosse. Ma le idee non ci sono. Il mondo del lavoro non riesce a trovare nemmeno al suo interno una piattaforma condivisa per fare fronte alle difficoltà del momento. Ma la Cgil si vuole presentare al paese come rappresentante del mondo del lavoro, cosa smentita dal fatto che altri sindacati se ne staranno a casa. Insomma, il momento è grave, ma il sindacato non riesce ad avere una presenza significativa. Riesce solo (una parte) a andare in piazza a urlare slogan invecchiati. A questo si deve aggiungere che il sindacato rappresenta nella società italiana un’area grigia: non ci sono bilanci, ci sono molti precari, non si applica il famoso articolo 18, e persino il numero degli iscritti varia a seconda delle occasioni. La politica non attraversa un buon momento, ma il sindacato dà quasi l’impressione di essere alla fine della sua storia e del suo ruolo.

La svolta del leader

La svolta del leader

Pier Francesco De Robertis – La Nazione

Renzi stavolta è stato meglio di Renzi. Concreto, deciso, quando serviva tattico e conciliante. Decisamente poco renziano. Quasi che, giunto al primo snodo veramente decisivo della sua esperienza a Palazzo Chigi, il presidente del Consiglio si sia rassegnato all’inellutabilità del salto da molti reclamato: passare dalle parole ai fatti. Stavolta o mai più. La battaglia che ingaggia con la «ditta» Pd è quindi durissima, a tratti anche bella da entrambe le parti, e Renzi la combatte, e per il momento la vince, per distacco. Lo fa a modo suo, buttando la un profluvio di parole a volte apparentemente inutili per alzare la polvere come i tori che restando immobili si preparano alla carica, ma al momento giusto mostra il ramoscello d’ulivo, sia con la ditta sia con i sindacati, confermando la sua duttilità tattica già esibita nel corso di altre trattative importanti.

Ma più che la tattica, a dargli ragione è la forza che finalmente trova nell’andare oltre le slide e gli slogan, forse anche contro qualche sondaggio, evenienza per lui davvero insolita. La forza di chi sa di essere al ‘angolo e non avere altra via di fuga che il contrattacco. Un passaggio di maturazione politico-esistenziale decisivo, l’unica strada per passare da politico-bruco a statista-farfalla, raccogliendo la sfida lanciata, prima che dai sindacati o dalla ditta, dal suo amico Dario Nardella, quando un mese fa gli aveva saggiamente consigliato di intraprendere l’inevitabile strada della necessaria impopolarità pur di realizzare le riforme e ambire, per il momento solo ambire, a scolpire il proprio nome nella pietra della storia repubblicana.

Prendendosi sulle spalle il rischio di una riforma organica su uno degli argomenti finora tabù per molti governi anche di destra (quanti rimpianti avrà adesso Berlusconi!) il premier evidenzia il desiderio di passare all’età adulta della politica. La decisione con la quale riuscirà a reggere la barra del partito e del governo anche nel difficile passaggio parlamentare sarà la miglior cartina di tornasole per valutare il senso stesso della sua capacità riformatrice. Una direzione che per adesso Renzi pare aver imboccato e che il positivo risultato della direzione (80 per cento per lui) potrebbe confortarlo per le altre sfide che attendono il governo. Anche se lui per primo sa che i gruppi parlamentari del Pd sono una bestia brutta e inaffidabile, di cui è bene non fidarsi. Il pessimo spettacolo delle settimane scorse sulla mancata elezione dei giudici costituzionali sono solo l’ultimo esempio.

La riforma necessaria

La riforma necessaria

Giuseppe Turani – La Nazione

Se il lavoro manca, e ne manca tantissimo, la colpa non è di Renzi e nemmeno di quelli che l’hanno preceduto negli anni scorsi (Monti e Letta). La mancanza di lavoro ha due padri precisi. Il primo è la Grande Crisi che dal 2008 ha colpito l’economia internazionale e che ha portato l’Italia a perdere, come reddito pro-capite, un terzo di quello che aveva nel 2007. Di fronte a una botta così grande, è evidente che i famosi 80 euro rappresentano soltanto un risarcimento parziale. D’altra parte per ridare agli italiani quel terzo di reddito che hanno perso nella crisi ci vuole altro che qualche decreto governativo. Ci vorranno almeno dieci anni di buona crescita, ammesso che si riesca a farli. Ma poi c’è un secondo padre dei tantissimi disoccupati. È un padre collettivo. Si tratta di tutti quelli che facevano parte della classe dirigente negli ultimi trent’anni: sono loro che hanno consentito lo scempio del bilancio pubblico e la trasformazione dello Stato in una sorta di opera pia di prebende, stipendi, pensioni, rendite, enti inutili e tutto il resto. Fino a portarci oltre i due mila miliardi di euro di debiti. Si dirà: ma allora il colpevole è certamente Berlusconi. Calma. Berlusconi ha le sue colpe, ma anche tutti gli altri non possono andare in giro a testa alta.

Io non ho mai visto la signora Camusso o il compagno D’Alema sfilare in piazza contro l’eccesso di spesa pubblica. Anzi, sono lì che ne chiedono altra anche adesso (con quanto buonsenso lascio immaginare). Ma è proprio questa montagna di debiti che ha impedito all’Italia di mettere in campo misure di sostegno e di rilancio dell’economia. Siamo qui, bloccati in mezzo al guado, assistiamo impotenti al crescere della disoccupazione, perché non abbiamo un soldo: siamo ricchi solo di debiti. Oggi abbiamo tanti disoccupati, per essere sbrigativi, perché la generazione precedente è stata un fallimento totale: ha scambiato, a destra come a sinistra, consenso politico con spesa pubblica, e lo ha fatto per vent’anni, o trenta, di fila. Avrebbero ammazzato un elefante, non solo un Paese gentile come l’Italia. Adesso siamo a una prima resa dei conti. Renzi vuole cambiare il diritto del lavoro e contro di lui è schierata tutta la generazione che ha fallito. Il nostro diritto del lavoro ha mezzo secolo e, attraverso stratificazioni successive, è diventato un tale caos che l’unica cosa da fare è quella di abolirlo totalmente e scrivere un testo nuovo.

La Cgil e i suoi amici dentro il Pd hanno deciso di fare barricate sull’articolo 18. Segno che non hanno molto da dire sulla riforma del lavoro. Si aggrappano all’articolo 18 perché pensano che sia un tema popolare e di sicuro effetto: impedire ai padroni di licenziare. Ma vari sondaggi hanno già spiegato che a due terzi degli italiani dell’articolo 18 non importa nulla. È una garanzia in più per quelli che comunque un lavoro (e a tempo indeterminato) lo hanno. Ma qui il problema è di chi un lavoro non lo ha mai visto. Ancora una volta, cioè, una certa sinistra difende il proprio orticello e lascia gli altri (i piu sfortunati) sotto la pioggia e la neve.

Ma perché l’articolo 18 non può restare? Intanto perché è appunto la barricata di quelli che sbagliano. Inoltre una cosa è chiara: il nuovo modello di mercato del lavoro deve avere alla sua base la massima flessibilità in entrata e in uscita dalle aziende, prevedendo le giuste ricompense e la giusta assistenza per chi perde il lavoro (e il reddito). Ma diciamo basta ad anni di aule giudiziarie per chi vuole liberarsi di un dipendente incapace o lavativo.

L’Italia di Fellini

L’Italia di Fellini

Giovanni Morandi – La Nazione

Mi si perdoni l’autocitazione ma per un caso ho ritrovato in un cassetto la brutta copia del compito che feci all’esame dell’Ordine per diventare giornalista professionista, un foglio protocollo timbrato 5 aprile 1978. L’autocitazione mi serve per dimostrare come in Italia si parli da decenni degli stessi problemi, senza uscirne. Scriveva il giovane candidato: “La frattura tra le due società si allarga e la distanza accentua l’incomprensione. Il conflitto è diventato contrasto tra ruoli non solo tra idee. La società dei padri e quella dei figli si sono trasformate e adesso si chiamano in due modi diversi, la società dei garantiti e quella degli abbandonati”. Accadeva allora ed è uguale oggi e oggi i campioni del conservatorismo che tiene in piedi la baracca da demolire sono soprattutto la vecchia guardia del Pd e la Cgil, strenui difensori dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, quello che all’epoca fu una conquista sociale ma che poi con il tempo è diventato un freno che blocca la ripresa e assicura i privilegi ai garantiti che hanno già un lavoro senza preoccuparsi degli abbandonati che invece un lavoro non ce l’hanno, in primis i giovani.

Ma guardiamo il calendario per vedere di quale epoca stiamo parlando. Della preistoria, perché lo Statuto dei lavoratori, ovvero l’articolo 18 della legge numero 300 porta la data del 20 maggio 1970, ovvero 44 anni fa. Mezzo secolo. Pannella era un vigoroso rompiscatole che proprio in quell’anno fece passare la legge sul divorzio, legge che seppellì un’Italia codina e ipocrita, incombevano le trame di piazza Fontana, le cui bombe erano esplose sei mesi prima, vennero istituite le regioni, senza che nessuno potesse immaginare che sarebbero diventate allegre assemblee dalle spese pazze e il Presidente della Repubblica era il socialdemocratico Giuseppe Saragat. Che cosa è rimasto di quell’Italia? Per un verso quasi nulla, per l’altro quasi tutto a cominciare dal blocco sociale dei garantiti che si trincerano dietro le cosiddette conquiste dei lavoratori e quelli che il lavoro non ce l’hanno si arrangino, anche se sono i figli degli occupati o dei pensionati. Così siamo arrivati a questo punto e chi si è azzardato a cambiare l’ha pagata cara, bastonato dai raduni alla Cofferati, che vorrebbe ancora sbarrare la strada, o eliminato dalle Brigate Rosse, che hanno ucciso i giuslavoristi. Uccisi per la sola colpa di voler rinnovare un paese dove gli intoccabili hanno sempre trovato protettori non sempre presentabili.

I prossimi giorni saranno decisivi per capire se Renzi ce la farà a dare un calcio all’articolo 18 o se invece dovrà fare valigie da Palazzo Chigi. Vedremo se vincerà lui o quelli che invece pensano si debba cambiare governo una volta l’anno, naturalmente pescando nel solito salottino milanese. Questa è l ‘Italia che Federico Fellini descrisse in modo magistrale nella “Prova d’orchestra”, film del 1979 che parla di un maestro costretto a piegarsi a musicisti somari e prepotenti. Fellini fece questo film molti decenni prima che la stessa amara esperienza capitasse al più celebre direttore d ‘orchestra italiano, Riccardo Muti, costretto a fuggire dall’Opera di Roma per non subire più le angherie di musicisti intoccabili e dei loro sindacati sfascisti che dentro quel teatro fanno da padroni. Una vergogna nazionale, anzi una vergogna esemplare.

L’ombra di Draghi

L’ombra di Draghi

Andrea Cangini – La Nazione

Mai come oggi Matteo Renzi deve dimostrare al mondo di non essere un Benito Cereno. Niente a che vedere, dunque, col celebre comandante del mercantile spagnolo immaginato dallo scrittore Herman Melville: formalmente nel pieno dei poteri, di fatto ostaggio di una ciurma ammutinata. Il terreno scelto per la prova di forza è, come è noto, la riforma del lavoro. Terreno scelto non dal presidente del Consiglio italiano, che volentieri avrebbe rimandato il fischio di inizio di una partita chiaramente delicata per il Pd, ma dal governatore della Banca centrale europea Mario Draghi. Paradossalmente, l’ombra di Draghi aiuta Renzi.

Aleggia infatti da settimane lo spettro del commissariamento dell’Italia. L’idea cioè, che pur se incarnata dal giovane e dinamico Matteo, la politica italiana sia la stessa di sempre e la capacita di passare dalle parole ai fatti, riformando quel che va riformato, pari a zero. Cominciano a pensarlo sia i poteri più o meno «forti» nazionali sia i partner europei sia gli advisor dei grandi fondi di investimento globali. C’è chi vorrebbe che Draghi diventasse capo dello Stato. E chi auspica – alcuni come il fondatore di ‘Repubblica’ Eugenio Scalfari, dicendolo; altri, come i direttore del ‘Corriere della Sera’ Ferruccio de Bortoli, dicendo il contrario – l’intervento della Troika. Quel che Renzi non riesce a fare lo farebbero i ‘commissari ‘ della Bce, del Fmi e della Commissione europea.

Lavorare affinché Renzi fallisca significa aprire la strada a questa prospettiva. È questa la responsabilità che intendono assumersi i Civati, i Bersani e le Camusso? Diflicile crederlo. Facile invece immaginare che, nel Pd, molti degli attuali dissenzienti temano anche il secondo scenario possibile in caso di fallimento renziano: le elezioni anticipate. E la loro ovvia non ricandidatura. Se a questo si aggiunge il fatto che – sgombrato il campo da totem, feticci e pregiudizi – un ‘intesa sul merito della riforma del lavoro è davvero a portata di mano, c’è da credere che Renzi finirà per spuntarla. Ma perché il mondo si convinca che il premier italiano non è un Benito Cereno, bisognerà che alla direzione de Pd convocata per lunedì Matteo Renzi prenda di petto i suoi avversari interni sbattendogli in faccia le proprie responsabilità e intimandogli di adeguarsi alle decisioni della maggioranza. Non c’è dubbio che lo farà, unendo così all’utile il dilettevole.