francesco manacorda

Troppe “bad bank” in casa

Troppe “bad bank” in casa

Francesco Manacorda – La Stampa

La «bad bank» con i soldi pubblici? In attesa che si concretizzi, una buona fetta del sistema bancario pare impegnata – suo malgrado – a farsela in casa, accumulando perdite record su crediti concessi nel passato e che adesso non si riescono più a esigere dai clienti. Solo ieri Mps ha annunciato perdite nell’esercizio per 5,3 miliardi dopo rettifiche sui crediti per quasi 8 miliardi, mentre il Banco popolare perde 2 miliardi a fronte di 3,5 miliardi di rettifiche sui crediti, e il piccolo Credito Valtellinese accumula comunque oltre 300 milioni di perdite. Nello stesso giorno, mentre nuovi atti giudiziari raggiungono i vertici di Ubi Banca, la Banca d’Italia commissaria Banca Etruria per problemi patrimoniali legati guardacaso a «consistenti rettifiche sui crediti».

Un panorama drammatico che da una parte deve spingere a considerare se sono stati fatti errori in fase di negoziazione con la Bce sui criteri con cui valutare la qualità del credito – le maxisvalutazioni di questi giorni sono figlie anche delle nuove regole di Francoforte – e dall’altra porta a chiedersi se dopo questa ennesima operazione-pulizia i bilanci bancari siano adesso davvero in ordine. Insomma, è finita la lunghissima fase in cui il crollo dell’economia reale ha colpito i bilanci bancari e adesso si può sperare che il settore creditizio possa finalmente servire da volano per una ripresa dell’economia? La questione è essenziale, perché il Quantitative easing, l’iniezione di liquidità che la Banca centrale europea farà da marzo per spingere l’economia, deve passare proprio dal sistema creditizio per arrivare al suo obiettivo e curare l’Eurozona dal male della deflazione. Le banche maggiori dimostrano di essere abbastanza in salute e quindi pronte anche ad assumere questo ruolo, ma quando si scende un po’ più in basso nel sistema creditizio i problemi non mancano.

Il governo ha messo mano in modo assai deciso alla riforma delle banche popolari, anche per sciogliere un groviglio di interessi che il più delle volte manteneva al potere per decenni una casta di banchieri di provincia – e non solo – al tempo stesso padroni assoluti della banca e fedeli servitori dei loro creditori di riferimento, spesso presenti in veste di azionisti. È stata una scelta giusta, ma non è la sola scelta che andrebbe fatta. Il Pd guidato dal segretario Matteo Renzi, azionista di maggioranza del governo guidato dal premier Matteo Renzi, non può ignorare degenerazioni come quella del Mps, legata storicamente – come e più di tante Popolari – alla politica locale, ovviamente targata Pd. Chi si è preso la briga di fare qualche calcolo ha visto ieri che in tre anni sono stati oltre 10 miliardi i crediti di Mps finiti sostanzialmente in fumo. L’ennesima prova che il binomio banca&politica, che sia declinato in chiave iperlocale o meno, è garanzia quasi sicura di scadente qualità del credito.

Blitz contro un mondo pietrificato

Blitz contro un mondo pietrificato

Francesco Manacorda – La Stampa

Difficile condividere la sicurezza di Matteo Renzi sul fatto che il decreto varato ieri dal governo per trasformare le dieci maggiori banche popolari in società per azioni cambi segno a una situazione in cui «abbiamo troppi banchieri e troppo poco credito». Non esistono studi che dimostrano che con meno banche e banchieri le imprese vedano aumentare il credito concesso, né ci sono evidenze sul fatto che le banche popolari facciano crediti in misura inferiore di quanto accada alle banche che sono Spa.

Più facile comprendere le ragioni che hanno spinto Renzi a un vero e proprio blitz per decreto sulle popolari e immaginare quali saranno le conseguenze di questa mossa. Le ragione principale, per usare le parole del ministro dell’Economia Piercarlo Padoan, è quella di «dare una scossa» al sistema davvero pietrificato delle popolari, che basandosi sul voto capitario – una testa un voto, indipendentemente da quante azioni si abbiano in tasca – ha finora consentito alla maggior parte di esse di mettersi al riparo da qualsiasi rischio di scalata da parte di altre banche e in molti casi ha assicurato la permanenza al vertice degli stessi uomini per periodi che si misurano non in anni ma in decenni. E la conseguenza facilmente prevedibile di questa scossa è un aumento delle concentrazioni bancarie.

Era comunque opportuno muoversi per sanare un’anomalia più e più volte segnalata anche dal Governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco: la maggior parte delle dieci maggiori popolari che rientrano nel decreto sono assimilabili ormai, per dimensione e modalità operative, ai grandi gruppi bancari. Corretto, dunque, uniformarle a questi sotto alcuni profili: una governance che permetta a chi ha la maggioranza del capitale di incidere e non ostacoli né contendibilità né ricambio ai vertici, una maggiore trasparenza nei rapporti con le autorità di vigilanza, financo – sostengono alcuni – la possibilità di accedere al mercato del credito con condizioni migliori. L’urgenza della manovra è dettata anche dall’entrata in vigore dell’Unione bancaria e dalla necessità di avere condizioni il più possibile uniformi tra i vari istituti.

Si reciderà in questo modo il rapporto delle popolari con il territorio, come protestano insolitamente concordi esponenti di destra, di sinistra e dei Cinque stelle? Non necessariamente. Anche in questo caso non è dimostrata la relazione tra la governance di una banca e il suo rapporto con la realtà in cui opera. E il fatto stesso che una vasta porzione di banche più piccole, in particolare quelle di credito cooperativo, non venga toccata dal provvedimento, dimostra che secondo il governo il cambio di registro non è necessario per tutti.

La conseguenza prevedibile della mossa di ieri, magari anche prima che si siano esauriti i 18 mesi di tempo dati alle popolari per cambiare il loro statuto, è dunque che le nuove società per azioni – non più frenate dal voto capitario che sottopone qualsiasi decisione al voto della maggioranza non delle azioni, ma degli azionisti – saranno protagoniste di fusioni e acquisizioni. Magari tra di loro; magari unendosi a qualche Spa già esistente; magari salvando qualcuna delle Spa bancarie in difficoltà. Se infatti i critici delle popolari citano casi scandalosi come quello della Popolare di Lodi o di Banca Etruria, dal mondo del credito cooperativo si può rispondere ricordando casi come Mps, Carige e Banca Marche, in cui l’essere società per azioni non ha evitato di finire in un mare di guai. Come a dire che non basta solo il modello Spa per eliminare i rischi di una cattiva attività bancaria.

Se la giustizia frena l’economia

Se la giustizia frena l’economia

Francesco Manacorda – La Stampa

Peso della corruzione a parte, chissà se il 2015 sarà finalmente l’anno buono per schiodare l’Italia da quella umiliante posizione – 147 a su 198 Paesi – che l’indagine «Doing Business» della Banca Mondiale ci assegna quando si parla di esecuzione forzosa di un contratto per via giudiziaria. Centoquarantasettesimi nell’ultima rilevazione e centoquarantasettesimi anche nella precedente, con un progresso certificato dello 0,00 per cento e 1185 giorni per chiudere un procedimento contro una media di 540 giorni per i Paesi più ricchi dell’Ocse. È vero, l’indagine fatta sotto le insegne della Banca Mondiale non è il Vangelo; talvolta anzi viene contestata. Ma è innegabile che il mix di tempi della giustizia lunghi e scarsa certezza del diritto è una miscela esplosiva per qualsiasi operatore economico. E innegabile è anche che chi dall’estero guarda all’Italia come terra di possibili investimenti ha più ragioni per essere preoccupato che rassicurato dalla nostra giungla normativa e regolamentare.

Ora il governo si sta muovendo proprio perché la giustizia non sia più uno dei tanti fardelli che ostacolano la crescita. E sebbene i ritardi rispetto ai pirotecnici annunci fatti da Matteo Renzi all’inizio del suo mandato siano evidenti, qualcosa è stato fatto. Lo ha spiegato anche ieri, intervenendo alla Camera, il ministro della Giustizia Andrea Orlando parlando ad esempio dell’introduzione del processo civile telematico da metà 2014 e delle formule di risoluzione delle controversie alternative al giudizio. Altri aspetti della riforma del diritto rimangono però da concretizzare, come ha ricordato anche di recente Donatella Stasio sul «Sole 24 Ore», spiegando che salvo il decreto legge sugli arretrati della giustizia civile, passato con la fiducia, gli altri sei provvedimenti annunciati dal governo il 29 agosto scorso non sono ancora arrivati in Parlamento.

Accelerare è opportuno, così come correggere altre storture che riguardano la certezza del diritto. A questo riguardo la norma che arriverà con l’«investment compact» che il governo vara oggi e che prevede invarianza delle regole fiscali e amministrative per quei soggetti che investiranno almeno 500 milioni in Italia, si presta a una duplice lettura. Dal punto di vista sostanziale è benvenuta: via libera a tutte le misure che possano attirare capitali e via libera ai grandi investimenti che creano occupazione e ricchezza. Ma da un punto di vista formale non si capisce perché la certezza del diritto, con l’impossibilità di vedersi applicare norme con effetto retroattivo diventi una sorta di privilegio graziosamente accordato dal governo a una categoria di grandi investitori e non sia invece un dato di fatto acquisito per qualsiasi operatore economico, piccolo o grande che sia. E sulle difficoltà di dare ai cittadini un diritto certo va segnalato il balletto sull’evasione fiscale e relative soglie di non punibilità in cui il governo è rovinosamente inciampato.

Nel percorso delle riforme, quella della giustizia potrà essere il passo più importante anche per quel che riguarda l’economia. C’è da ragionare anche su come finanziare un cambiamento che costa. Se andranno nella direzione di snellire e semplificare davvero il sistema, quelli per cambiare il sistema giudiziario saranno soldi ben spesi.

Ora sotto esame le banche

Ora sotto esame le banche

Francesco Manacorda – La Stampa

Domenica a mezzogiorno, mentre le famiglie italiane saranno occupate a preparare il pranzo a casa, o magari in gita o dirette allo stadio, ci saranno molte persone – analisti di Borsa e uomini delle banche – che sedute alle loro scrivanie aspetteranno con ansia una serie di numeri. A quell’ora, infatti la Banca centrale europea renderà pubblici i risultati degli esami e degli esercizi condotti sui 131 principali gruppi creditizi del Continente. È un passo necessario per lanciare l’Unione bancaria europea, che comprende anche la vigilanza di una sola autorità – e non più delle singole autorità nazionali – su tutti i maggiori istituti di credito. Mentre a Bruxelles ci si confronta, anche in modo vivace, sui conti pubblici italiani, altri conti – quelli delle banche – si apprestano così a un esame europeo.

Per il mondo del credito la prova è doppia: ogni banca sarà sottoposta ad Aqr, o Asset Quality Review, e Stress test. Se volessimo tradurlo in termini comprensibili l’Aqr, che esamina in sostanza un campione di crediti concessi da ciascun istituto, è un po’ come un esame del sangue; gli Stress test, che simulano invece il comportamento dei conti di una banca in condizioni di difficoltà, somigliano a un elettrocardiogramma sotto sforzo. Proprio come quello che vi fanno sul tapis roulant per vedere come reagite a situazioni estreme. Se per una banca i risultati di Aqr e Stress test non dovessero arrivare a livelli minimi predeterminati, insomma se quella banca fosse giudicata non in grado di avere sufficiente patrimonio per la sua attività, le verrà prescritto un aumento di capitale. In pratica una cura ricostituente per rafforzare il patrimonio.

Ieri sera ogni banca ha ricevuto, in busta chiusa, i suoi risultati. Ma solo domenica tutte sapranno lo stato di salute di tutte le altre. In Italia ci saranno tredici banche esaminate. Gli analisti di mercato prevedono che la Carige non passerà l’esame e hanno dubbi sul fatto che il Monte dei Paschi di Siena ce la possa fare. Uno dei problemi è che l’esame del sangue fatto alle banche, il famoso Aqr, si basa sui dati al 31 dicembre 2013 – un anno brutto in generale e per l’Italia in particolare. È un po’ come se alla Banca centrale avessero fatto il prelievo quel giorno e adesso rendessero pubblici i risultati degli esami. Ma se uno che aveva i trigliceridi alti intanto si è messo a dieta, come si farà a capirlo? Per le banche italiane è un problema, visto che molte di loro in questi primi nove mesi del 2014 hanno effettivamente messo in atto azioni virtuose – ad esempio hanno venduto partecipazioni o hanno varato aumenti di capitale – per rafforzare il loro patrimonio. Così, dopo che da Francoforte arriverà il verdetto della Bce, toccherà alle autorità di vigilanza nazionali – da noi la Banca d’Italia – dettagliare che cosa ogni istituto ha fatto in questo periodo e come le sue analisi del sangue sono effettivamente migliorate.

Avrà senso questo esercizio che le stesse autorità nazionali stanno trovando molto macchinoso? Tornando alla nostra immagine iniziale, avranno significato analisi del sangue i cui risultati ciascuno tenderà poi a modificare o a rettificare a seconda di come si è comportato dopo il prelievo? Da un certo punto di vista sì, il significato c’è. In qualche modo – tutt’altro che preciso, ma comunque indicativo – ogni banca avrà dati trasparenti sullo stato di salute degli altri istituti. Nel migliore dei casi questo potrà portare anche a un aumento di fiducia all’interno del sistema. Anche gli investitori – chi compra direttamente azioni delle banche o chi magari si affida ai fondi comuni – avranno dei parametri per orientarsi meglio.

Ma assieme all’opportunità di una maggiore trasparenza, gli esami della Bce potrebbero offrire anche qualche rischio. Quale? Ad esempio che una visione troppo restrittiva porti a ricapitalizzazioni delle banche che inevitabilmente frenerebbero la concessione di credito. Una cosa è prestare 100 euro se a questo devi far fronte con 8 euro di capitale; un’altra è se di fronte allo stessa cifra prestata bisogna avere 10 euro di capitale. I banchieri italiani lamentano da tempo che il comportamento iper prudenziale dei regolatori – dopo la crisi finanziaria del 2008 molti pensano che per gli istituti sia meglio girare con cintura e bretelle assieme – rischia di penalizzare il credito, specie in un Paese come il nostro dove le imprese sono mediamente piccole e poco capitalizzate. Ovviamente le responsabilità non sono tutte dei regolatori. Ma è il caso di riflettere se non si stia esagerando con i requisiti di patrimonio delle banche in una fase in cui ci sarebbe bisogno di credito. In fondo anche il dogma dell’austerità dei bilanci pubblici come cura a tutti i mali, per anni vangelo della Commissione europea, è stato appena messo in discussione dal nuovo presidente Jean-Claude Juncker.

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Non solo soldi, serve anche la fiducia

Francesco Manacorda – La Stampa

Potrebbero servire davvero altri 100 euro in busta paga promessi ieri dal premier agli italiani – per la precisione solo ad alcuni italiani – a spingere i consumi e l’economia? A differenza degli 80 euro messi a marzo nelle buste paga più basse attraverso un taglio delle aliquote fiscali questi nuovi 100 euro – che deriverebbero dall’anticipo di metà della liquidazione e riguarderebbero solo i dipendenti privati – non sarebbero reddito aggiuntivo, ma semplicemente reddito anticipato: una somma che va subito nella disponibilità dello stesso lavoratore a fronte però di una rinuncia a riscuotere dalla sua azienda quella stessa somma, debitamente rivalutata alla fine del rapporto di lavoro.

Alcune imprese, in questo scenario, potrebbero trovarsi penalizzate rispetto a quanto è accaduto in marzo. Allora, infatti, si decise di tagliare il cuneo fiscale sul lavoro solo a favore dei dipendenti e sulle aziende non ci furono effetti, ne negativi né positivi. Adesso, invece le aziende sotto i 50 dipendenti – quelle che possono tenere il Tfr in cassa e lo usano per soddisfare le loro esigenze di liquidità – vedrebbero svuotarsi all’improvviso la cassaforte. Renzi assicura che si verrà incontro alle loro esigenze facendo sì che il denaro a basso costo che arriva dalla Bce alle banche italiane sia convogliato proprio a queste aziende. Le banche non paiono intenzionate a fare le barricate. Dunque la soluzione è possibile, ma probabilmente non è semplice: le esperienze di credito per decreto del passato – ricordate i prefetti che secondo Giulio Tremonti dovevano vigilare sulle banche? – non sono memorabili. E in più adesso gli istituti devono fare i conti con una serie di esami e regole internazionali che li porteranno a stringere e non ad allargare il credito.

Al di là delle polemiche sull’utilizzo del Tfr, comunque, è chiaro che per il governo – in questa fase economica – il risparmio privato, in alternativa ai consumi, non è più una virtù. Del resto, se è vero che dalla crisi del 2008 a oggi il tasso di risparmio delle famiglie italiane è calato sensibilmente – secondo i dati Bankitalia solo dal 2008 al 2010 è sceso dal 12,1 al 9,7% del reddito lordo – resta il fatto che si tratta di una percentuale elevata se confrontata a quella di altri Paesi occidentali. I depositi bancari, poi, aumentano e da due anni le sottoscrizioni di fondi comuni salgono senza sosta: solo nei primi sei mesi del 2014 gli italiani hanno messo nel risparmio gestito 60 miliardi contro i 65 dell’intero 2013.

Il problema, però, è che la cinghia di trasmissione tra reddito disponibile, propensione ai consumi e propensione al risparmio non funziona sempre allo stesso modo. È ovvio che se il reddito è appena sufficiente sarà speso tutto in consumi e il risparmio diminuirà o scomparirà del tutto. Ma non è altrettanto ovvio che mettendo più soldi in tasca agli italiani – siano essi 80 o addirittura 180 euro – questi si trasferiscano integralmente, o almeno in parte, sui consumi. In una fase d’incertezza come questa è più facile che vengano destinati a un prudente risparmio. Addirittura si potrebbe pensare che in alcuni o in molti casi il Tfr anticipato possa essere reinvestito subito in piani pensionistici individuali, per far fronte a un trattamento futuro che – basato ormai solo sul sistema contributivo – sarà inevitabilmente più basso di quello della generazione precedente. In Italia ci lamentiamo molto dell’insistenza tedesca per un’austerità di bilancio che rischia di soffocare l’economia, ma poi ciascun capofamiglia cerca per quanto possibile di fare di casa sua una piccola Berlino, virtuosa nelle scelte finanziarie, prudente nelle spese e nemica del debito.

Mettiamola così: senza soldi in più i consumi non sono destinati a crescere. Ma solo con soldi in più non è assolutamente detto che crescano. Per far rinnegare agli italiani la virtù privata del risparmio che si trasforma in vizio pubblico serve anche la fiducia. O almeno ci vuole qualche certezza in più all’orizzonte. Su alcuni fronti che alimentano l’incertezza – dalla Siria all’Ucraina – un singolo governo nazionale non può quasi nulla. Su altri capitoli, invece, può essere incisivo: una ragionevole certezza sull’assenza di nuove tasse (anche occulte o in arrivo dagli enti locali), una definizione chiara delle regole sul lavoro e una transizione – se ci sarà – all’anticipo del Tfr senza eccessive complicazioni per dipendenti e aziende, peseranno di sicuro sulle nostre scelte di consumo e di risparmio. Anche se a fine mese non le vedremo segnate sulla busta paga.

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Il colpo (quasi) a vuoto della Bce

Francesco Manacorda – La Stampa

Il bazooka anticrisi di Mario Draghi ha sparato, ma il primo colpo è meno forte di quel che ci si aspettasse: le banche dell’Eurozona hanno chiesto alla Bce 83 miliardi di crediti a tasso agevolato contro una previsione di circa il doppio. E soprattutto il bersaglio al quale il bazooka mira – fuor di metafora i finanziamenti che dovrebbero arrivare specie alle piccole e medie imprese – rischia, almeno in Italia, di non essere colpito. In una situazione in cui l’offerta di credito da parte delle banche si concentra su aziende in salute che hanno già abbondante liquidità, la domanda di finanziamenti arriva invece da chi spesso è fuori dai parametri per ottenerli e i nuovi investimenti latitano, non sarà facile per il nostro sistema cambiare marcia. Anche con l’aiuto del piano Tltro – così si chiama in gergo – di Francoforte.

Se oggi si guarda l’Italia con gli occhi di un banchiere il panorama è questo: un’impresa su quattro è in una situazione debitoria che le banche chiamano «deteriorata» ed è difficile, se non impossibile, farle credito aggiuntivo. Un’altra impresa su quattro è in ottime condizioni: esporta su mercati meno depressi del nostro, incassa e guadagna. È in grado di finanziare da sola il suo sviluppo e spesso rimanda a casa quei banchieri che si affollano davanti alla sua porta per farle credito. Restano altre due imprese, che rappresentano la media del sistema: magari per un periodo vanno bene e poi rallentano, magari ottengono una commessa importante che le aiuta a crescere, magari invece vedono il loro mercato di riferimento prosciugarsi. È con loro che i banchieri devono esercitare al massimo grado la loro arte, distinguendo chi merita credito e chi no, rispettando allo stesso tempo regole severe.

Se si guarda la stessa Italia con gli occhi di un imprenditore si vede un Paese dove è difficile prosperare e ancora più difficile investire. Non solo per i mali che ormai conosciamo a memoria – dall’incertezza del diritto al peso della burocrazia – ma anche perché è un Paese ripiegato su se stesso. Se si pensa di aprire un negozio dove saranno i clienti? Se si vuole costruire un palazzo chi comprerà gli appartamenti? Il 2014 è un altro anno non solo perso in termini di crescita, ma addirittura in retromarcia. Per il 2015 le prospettive di ripresa sono tiepide. L’effetto sui consumi degli 80 euro in busta paga per ora non si vede e le incertezze sul fronte fiscale non incoraggiano certo a spendere. Sarà scorretto dirlo, ma anche il divieto di pagamenti in contanti sopra i mille euro sta probabilmente dando un colpo ai consumi.

In queste condizioni è difficile che agli imprenditori basti avere denaro meno caro per decidere di investire. Ed è impossibile che le banche usino i finanziamenti della Bce – seppur praticamente gratuiti – per concedere crediti a chi non abbia un piano di sviluppo credibile. Federico Ghizzoni, il capo dell’Unicredit che è stata la banca italiana a chiedere la somma più alta di fondi del Tltro, sta girando da settimane a spiegare ai suoi uomini e ai suoi clienti le opportunità di fare e avere credito a basso costo. Ma anche lui ha dovuto rilevare che in Italia «gli investimenti industriali sono pochi». Altri banchieri, più cinici o più rassegnati, sono convinti che se non cambierà il clima la cosa più facile sarà prendere i fondi della Bce e investirli in titoli di Stato. Del resto, nonostante il piano di Francoforte sia mirato al finanziamento delle imprese non ci sono sanzioni per quelle banche che si tirano indietro: semplicemente dovranno restituire due anni prima, cioè entro settembre 2016, i soldi presi dalla Bce.

Per ripartire i soldi facili da soli non sono sufficienti. Serve anche una ripartenza dei consumi interni; serve una fiducia che si costruisce con fatica e si disperde con facilità; servono ovviamente le riforme che agevolino investimenti, anche se gli effetti di queste riforme non possono essere immediati. Draghi l’ha chiarito anche questa estate, annunciando passi aggiuntivi e non convenzionali di politica monetaria, quando ha chiesto ai governi di prendersi le proprie responsabilità sulle riforme. È lui, insomma, il primo a sapere che il bazooka da solo non basta.