tino oldani

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

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La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

La troika non ha aiutato i Paesi in crisi ma ha solo risolto i problemi tedeschi

Tino Oldani – Italia Oggi

I tedeschi sono convinti che la Germania ha già pagato troppo per aiutare i paesi in difficoltà dell’eurozona. Per questo dicono «nein» ad altre iniziative europee che, a loro avviso, si configurano come aiuti per i vicini spendaccioni, primo fra tutti il quantitative easing proposto da Mario Draghi, presidente della Bce. Contrastare ulteriori finanzia- menti ai paesi cicala è diventato addirittura il cavallo di battaglia di un partito tedesco euroscettico (Alternative fur Deutschland), che sta erodendo consensi alla Cdu di Angela Merkel. Per questo, la cancelliera non perde occasione per bacchettare quei paesi, come la Francia e l’Italia, che, a suo avviso, non fanno abbastanza per tenere i conti pubblici in ordine. A darle man forte, oltre al ministro delle finanze, Wolfgang Schauble, uno dei più solerti è il presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, che in passato è stato il suo principale consigliere economico.

In questo senso, la recente intervista di Weidmann a Repubblica contiene alcune perle di ipocrisia politica che non devono passare sotto silenzio. A suo dire, «se titoli sovrani di basso rating (come sono ora quelli dell’Italia, ndr) venissero acquistati dalla Bce, rischi di politica finanziaria verrebbero messi in comune dalla Banca centrale, aggirando governi e parlamenti». Per questo il «nein» di Weidmann al quantitative easing di Draghi si configura anche come una lezioncina di democrazia. Peccato che finora nessuno in Italia, governo e Banca d’Italia compresi, abbia rispedito al mittente una simile accusa. Se in Europa c’è un vero specialista nell’aggirare governi e parlamenti per fare i propri interessi, questo paese è proprio la Germania. Ciò è vero soprattutto nel settore finanziario, dove, pur di salvare le proprie banche, che erano sull’orlo del fallimento a causa delle folli speculazioni sui derivati, il governo della signora Merkel non ha esitato a servirsi della Troika (Bce, Ue, Fmi) e dei suoi metodi anti-democratici. Le devastazioni sociali compiute dalla Troika in Irlanda, Spagna e Grecia, fatte con il pretesto dei conti pubblici fuori posto, ma con l’obiettivo tacito di salvare proprio le grandi banche tedesche e francesi, sono lì a dimostrarlo.

Premessa. A questi tre paesi, a partire dal 2000 (introduzione dell’euro), le banche tedesche hanno elargito per anni ingenti prestiti, impiegati per finanziare alcune grandi iniziative immobiliari, oltre all’importazione massiccia di prodotti tedeschi. In questo modo, con una tecnica chiamata «vendor financing», cioè prestando soldi agli acquirenti delle sue esportazioni, la Germania si è autofinanziata in parte il proprio miracolo economico. Ma nel 2008, allo scoppio della crisi dei subprime, le banche tedesche si sono trovate troppo esposte verso i paesi periferici dell’euro, ai quali avevano concesso crediti per 900 miliardi di euro, somma superiore di 2,5 volte il loro stesso capitale.

Come recuperare prestiti così ingenti, dopo che la crisi aveva investito i debiti sovrani dei paesi periferici dell’euro? Come evitare il fallimento? A conti fatti, la Troika è stata il grande alleato delle banche tedesche: i suoi interventi sono stati infatti decisivi per il loro salvataggio, mentre ben poco è rimasto ai paesi «aiutati». Anzi, questi ultimi sono stati costretti a massacrare i loro cittadini con le tasse e con il taglio drastico della spesa pubblica (che ha colpito sanità, pensioni, stipendi e occupati nel pubblico impiego), pur di restituire centinaia di miliardi alle banche tedesche.

I numeri parlano chiaro. L’Irlanda, a partire dal 2010, ha ricevuto dalla Troika 67,5 miliardi di prestiti (soldi di tutti gli europei e non solo dei tedeschi), a fronte dei quali ha poi trasferito 89,5 miliardi al settore finanziario, dei quali 55,8 miliardi sono finiti alle banche creditrici straniere, tutte tedesche e francesi. In Spagna, nel 2012, le banche locali avevano un’esposizione verso le banche tedesche per 40 miliardi. Sommandoli al debito totale del paese verso le banche tedesche, si arrivava a 100 miliardi. Per fare fronte a questi debiti, la Spagna ha chiesto e ottenuto dalla Troika un prestito di 100 miliardi, in cambio di riforme drastiche. Un’operazione che la rivista International Financing Review ha definito «un salvataggio nascosto delle banche tedesche».

In Grecia, la gran parte dei 240 miliardi del «piano di salvataggio» finanziato dalla Ue e dal Fmi è stato dirottato dalla Troika alle banche creditrici, per lo più tedesche e francesi, per circa 160 miliardi. Così il 77% degli aiuti ricevuti sono andati alle banche straniere, mentre alla Grecia sono rimasti solo 46 miliardi per ridurre il proprio debito pubblico, che tuttora ha un buco di 2,5 miliardi nonostante il governo abbia pagato 34 miliardi di soli interessi sul debito, imponendo sacrifici enormi alla popolazione. In pratica, come hanno rivelato i verbali segreti di una riunione del Fmi pubblicati dal Wall Street Journal, il salvataggio della Grecia «è stato concepito solo per salvare i creditori», cioè le banche tedesche. Il tutto, riducendo governo e parlamento greci a tappetini. Che ora Weidmann venga a dare lezioni di democrazia è davvero il colmo!

È fallita una PMI ogni cinque

È fallita una PMI ogni cinque

Tino Oldani – Italia Oggi

Il solco che separa il bla-bla del governo dalla cruda realtà dei fatti sta diventando preoccupante. Prendiamo le piccole e medie imprese (pmi), che da sempre sono la vera spina dorsale dell’economia italiana. Il primo rapporto Cerved dedicato a questo settore, potendo contare su una messe di dati senza eguali, ha rivelato pochi giorni fa che, dall’inizio della crisi economica (2008) ad oggi, una piccola e media impresa su cinque è uscita dal mercato. In dettaglio: su 144 mila pmi censite, 13 mila sono fallite, più di 5 mila hanno avviato una procedura concorsuale non fallimentare, altre 23 mila sono state liquidate volontariamente.

L’amministratore delegato del Cerved, Gianandrea De Bernardis, ha tenuto a precisare che le pmi considerate, secondo la definizione Ue, sono quelle con un fatturato tra 2 e 50 milioni di euro e tra 10 e 250 dipendenti. In questa forchetta, in Italia ci sono 144 mila società che generano un giro d’affari di 851 miliardi, con un valore aggiunto di 183 miliardi, pari al 12% del pil nazionale. Dunque, una colonna portante dell’economia, che purtroppo si sta sgretolando sempre di più.

Poiché la crisi dura da ben sette anni, cosa hanno fatto finora i vari governi per le pmi? Cercando una risposta su Google, si scopre che il 28 agosto scorso il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha emesso un comunicato grondante ottimismo sul successo dei mini bond, introdotti con il decreto Competitività per aiutare le pmi, con un carico fiscale ridotto. «Lo strumento dei mini bond» recitava il comunicato, «è ormai decollato e diventa sempre più diffuso tra le piccole e medie imprese che intendono accedere al mercato per reperire risorse di finanziamento in alternativa al credito bancario. Negli ultimi due mesi sono ben 26 le pmi che, per la prima volta, si sono affacciate sul mercato dei capitali e hanno emesso mini bond per un valore complessivo di un miliardo. Le emissioni vanno da un minimo di 5 milioni a un massimo di 200 milioni». Concludeva entusiasta Padoan: «Porteremo questa positiva esperienza all’attenzione dei partner europei in occasione dell’Ecofin di Milano».

Purtroppo per Padoan, il presunto «decollo» dei mini bond viene ora smentito dai dati del Cerved, che descrivono una realtà ben diversa. Su 144 mila imprese, sono soltanto 29 quelle che hanno emesso finora obbligazioni finanziarie, per un valore che si è fermato a 226 milioni; la torta complessiva dei mini bond agevolati sul piano fiscale, pari a 4,2 miliardi, è andata per il 95% alle grandi imprese. Di certo, spiega la ricerca Cerved, su questi dati ha influito un certo ritardo culturale delle pmi italiane, che, a differenza di quelle tedesche e francesi, dipendono per il 98% dai finanziamenti bancari. E poiché il credit crunch non ha mollato la presa, e poiché i pagamenti dei clienti e dello Stato hanno accumulato ritardi pazzeschi, ecco spiegati i fallimenti che hanno costretto una pmi su cinque a chiudere i battenti.

È evidente che senza una vera ripresa dei flussi del credito bancario, non vi sarà alcuna ripresa. Lo sa bene anche Matteo Renzi, che sul sito che porta il suo nome (matteorenzi.it) ha postato qualche tempo fa una proposta dettagliata, con un titolo roseo: «250 miliardi di credito garantito per le aziende». Recita il testo: «Oggi molte imprese, anche sane, soffrono, e in alcuni casi chiudono perché il credito non è disponibile. E quando è disponibile, è erogato a condizioni molto onerose. Tante aziende sono inoltre messe in difficoltà dai crediti verso la pubblica amministrazione. In queste condizioni, competere con i tedeschi e gli olandesi è quasi impossibile».

Ecco allora la soluzione di Renzi: «Riteniamo che l’accesso al credito sarà una delle leve principali per consentire alle piccole imprese di sopravvivere e per avviare un nuovo ciclo di crescita. Per questo prevediamo di riallocare sui fondi di garanzia del credito almeno 20 miliardi di fondi europei, in modo da garantire almeno 250 miliardi di crediti a piccole e medie imprese, dando all’imprenditoria sana, in particolare nel Sud, l’ossigeno per ripartire, a tassi competitivi con le imprese tedesche e olandesi».

Dettaglio importante: il post reca la data del 14 novembre 2012, quando Renzi era ancora sindaco di Firenze, ma parlava già come se fosse il presidente del Consiglio. I fondi di garanzia del credito, infatti, erano una sua idea: voleva che ne sorgesse uno in ogni Regione, con fondi del programma europeo Jeremie (Joint european resources for micro to medium enterprises). Peccato che da quando è premier se ne sia completamente scordato, per dare la precedenza a riforme controverse (Jobs act, articolo 18, Senato regionale, legge elettorale), buone per stare ogni giorno sul teatrino mediatico, ma del tutto inutili per favorire la ripresa delle pmi, o quanto meno per ridurre il numero dei loro fallimenti.

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Per il rimborso dei debiti PA, Renzi ha fatto più di Monti e Letta ma difficilmente potrà chiudere la partita entro il 21 settembre

Tino Oldani – Italia Oggi

Manca poco al 21 settembre, giorno di San Matteo, e non è affatto chiaro se per quella data saranno stati pagati tutti i debiti della pubblica amministrazione ai fornitori privati. È stato lo stesso premier Matteo Renzi a fissare questa data come dead line, durante un’intervista con Bruno Vespa a Porta a porta, quando, al conduttore che si mostrava scettico sui tempi dei rimborsi, disse: «Per San Matteo, ultimo giorno d’estate, se ci riusciamo, lei va in pellegrinaggio a piedi da Firenze a Monte Senario». Era il 14 marzo. Da allora è successo un po’ di tutto.

Prima delle europee (25 maggio), Renzi promise rimborsi sempre più rapidi, salvo cambiare la dead line tra un annuncio e l’altro. Il 28 marzo dava per archiviata la vicenda con un tweet: «Debiti Pa? Problema risolto dal 6 giugno con la fatturazione elettronica a 60 giorni». Per nulla convinto, l’allora commissario Ue all’Industria, Antonio Tajani, fece alcuni controlli e il 18 giugno aprì una procedura d’infrazione contro l’Italia per la violazione sistematica dei termini di pagamento fissati da una direttiva Ue del 2012: le fatture vanno saldate entro 30 giorni, con limitate eccezioni fino a 60 giorni, gravate da interessi di mora dell’8%. Per tutta risposta, il sottosegretario alla Presidenza, Graziano Del Rio, accusò Tajani (dirigente di Fi) di «strumentalizzazione politica». Ma restava il fatto che la direttiva europea del 2012 sui tempi di pagamento, recepita dall’Italia nel 2013, era stata fino ad allora ignorata proprio dal governo. Per Renzi, un pessimo esordio del semestre europeo.

A complicare la situazione, poi, sono sopraggiunti la recessione e l’aumento del debito pubblico (arrivato al record di 2.168 miliardi), che ha ulteriormente ristretto i margini di manovra del Tesoro. In più, il patto di stabilità europeo, il famigerato Fiscal compact, obbliga a coperture certe per saldare i debiti in conto capitale dello Stato, perché incidono sul debito pubblico. E trovare risorse fresche per rimborsare migliaia di imprese fornitrici dello Stato è diventato quasi un incubo per il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, costretto a continue acrobazie dialettiche e finanziarie, vuoi per non contraddire i tweet ottimistici del premier, vuoi per racimolare, di volta in volta,modesti stanziamenti, sempre accolti dalla stampa amica come risolutivi, mentre è evidente che la partita non è affatto chiusa, né chiara.

In agosto, un centro studi di Udine, «ImpresaLavoro», ha quantificato in 74,2 miliardi il debito della Pa verso le imprese fornitrici, pari al 4,8% del pil. I tempi di pagamento della Pa, sostiene lo studio, continuano ad aggirarsi sui 170 giorni, contro i 60 del settore privato: un ritardo che avrebbe provocato alle imprese un danno di oltre 6 miliardi l’anno, per un totale di circa 30 miliardi per il periodo 2009-2013. Dati negativi, che il governo considera ormai superati. Sul sito del ministero dell’Economia, un post intitolato «Pagamento debiti della Pa ai creditori», con tanto di cartina a colori, spiega che, alla data del 21 luglio, sono stati pagati ai creditori 26,1 miliardi a fronte di finanziamenti disponibili per 30,1 miliardi, pari al 63% dello stanziamento del 2013. Dunque, un dato positivo ma parziale, se non deludente, visto che, tra il 2013 e il 2014, lo stanziamento effettivo era stato di 56,8 miliardi. All’appello, per chiudere la partita, mancano ancora circa 31 miliardi. Ce la farà Padoan a trovare questi soldi e saldare i debiti entro il 21 settembre?

Il ministro ne è così convinto che il 27 agosto, intervistato dal Corriere della sera, ha affermato: «Il problema dei debiti arretrati della pubblica amministrazione è di fatto risolto, in anticipo rispetto all’onomastico di Renzi. Il meccanismo dello sconto fatture presso le banche è decollato e sta funzionando molto bene. I fornitori, fin da oggi, possono cedere alle banche il loro credito a condizioni vantaggiose». Che è successo? Semplice: a fine luglio il ministero dell’Economia ha firmato con l’Abi (l’associazione delle banche) una convenzione in base alla quale le imprese possono cedere agli intermediare finanziari i loro crediti con lo Stato, purché certificati. Costo dell’operazione: 1,60% per importi superiori a 50 mila euro, un po’ di più (1,90%) per importi fino a 50 mila euro. L’iniziativa, benché implichi un aggravio burocratico (non bastando le fatture, le imprese devono presentare un’istanza di certificazione per autenticare il loro credito), ha avuto un discreto successo. Tanto che in agosto, ha spiegato Padoan al Corsera, «sono state ben 55 mila le imprese che hanno fatto domanda di certificazione, per un importo di 6 miliardi, che si aggiungono ai 26 già pagati. Ci aspettiamo che le certificazioni crescano ancora, come i rimborsi».

Insomma, per Padoan è tutto risolto. «Un regalo al premier», dice il ministro, che ricordando male la battuta di Renzi a Porta a porta, aggiunge: «Gli ho risparmiato un pellegrinaggio a Monte Senario». Ma nei panni di Bruno Vespa, saremmo certi di vincere la scommessa. Basta leggere con attenzione il sito del ministero dell’Economia, dove si precisa che «l’istanza di certificazione va presentata entro il 31 ottobre». Questo significa che i pagamenti arriveranno dopo, forse entro la fine dell’anno, oppure nel 2015. Non solo. Lo stesso Padoan ha ammesso nell’intervista che «i debiti in conto capitale impattano sull’indebitamento netto dello Stato e necessitano di una copertura», che ora evidentemente non c’è (è il Fiscal Compact, bellezza). Si tratta di 2-300 milioni quest’anno, e di 2-3 miliardi nel 2015, da trovare con la prossima legge di stabilità (speriamo non con le tasse). Che dire? Il governo Renzi-Padoan ha fatto certamente più di quelli di Monti e Letta per pagare i debiti della Pa. Anche la frustata europea di Tajani ha avuto il suo peso. Ma la partita non è affatto chiusa.

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Tino Oldani – Italia Oggi

Il premier Matteo Renzi, anche nel nuovo programma dei mille giorni, insiste: il bonus di 80 euro ci sarà anche nel 2015 e deve diventare strutturale, perché, a suo avviso, serve a rilanciare i consumi delle famiglie e, di riflesso, la ripresa dell’economia. Il fatto che finora non vi sia stato un impatto positivo sugli acquisti, non sembra scoraggiarlo. Ma è plausibile che la ripresa possa basarsi su 10 miliardi annui di maggiori consumi? Oppure si tratta di un errore marchiano, basato su teorie economiche fallaci, di cui i consiglieri economici del premier sembrano essere tenaci assertori? E se si tratta di un errore teorico-politico, quale può essere l’alternativa?

La risposta più convincente, a mio avviso, l’ha data Alessandro Pansa, ex amministratore delegato di Finmeccanica con precedenti esperienze di banca (Unicredit, Vitale Borghesi & C, Lazard), in un commento pubblicato di recente sul Corriere della sera. Diversamente da altri critici degli 80 euro, che sostengono sia più utile destinare i 10 miliardi alla riduzione dell’Irap (tesi cara alla Confindustria e al suo giornale, ma anche a Eugenio Scalfari, all’ex ministro Vincenzo Visco e alla fronda interna del Pd vicina a Bersani), Pansa sposta il tiro dagli sgravi fiscali ai nodi irrisolti dell’economia reale, e sostiene che «una crescita duratura, capace di incidere sulla struttura del Paese, delle imprese e del lavoro, non dipende dai consumi, specie in una economia che importa la maggior parte dei beni di valore unitario elevato. Lo sviluppo può essere guidato solamente dagli investimenti delle imprese». Sembra l’uovo di Colombo, e lo è: ma, sul piano politico, significa una bocciatura secca degli 80 euro e delle tesi che fondano la ripresa sugli sgravi fiscali.

Ma come si fa a rilanciare gli investimenti delle imprese in un paese come l’Italia, dove gli imprenditori, come diceva Napoleone Colajanni, sono protagonisti di un «capitalismo senza capitali», e da sempre devono supplicare le banche con il cappello in mano per ottenere un prestito? Negli ultimi tempi, poi, anche le suppliche lasciano il tempo che trovano: la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato ferite profonde, e nonostante i miliardi con i quali la Bce di Mario Draghi ha inondato le banche, il credito rimane assai scarso. Le banche si difendono ricordando che un’impresa su quattro è «deteriorata» (altro brutto neologismo portato dalla crisi, dopo gli esodati), per cui dal 2008 ad oggi le sofferenze bancarie sono salite da 43 a 166 miliardi di euro, portando a 290 miliardi i crediti «deteriorati». Un quadro difficile, sostiene l’Abi, a cui le banche hanno fatto fronte con 50 miliardi di aumenti di capitale, che non hanno alcuna intenzione di perdere con prestiti rischiosi. Eppure, sostiene Pansa, puntare sul credito per investimenti nell’industria rimane l’unica strada valida che il governo dovrebbe perseguire, avendo chiare le difficoltà da superare.

Un paese come l’Italia, per l’ex ad di Finmeccanica, «ha bisogno non di più credito, ma di credito migliore e soprattutto diverso: prestiti concessi per sviluppare tecnologie, innovare prodotti, processi, impianti, macchinari, con condizioni e tassi ritagliati sui piani d’investimento. Ma questo credito per le aziende non c’è». In passato, fino agli anni Ottanta, questo lavoro l’hanno fatto gli istituti di credito speciale (Imi, Mediocredito centrale, Mediobanca, per citare i nomi più noti), dove team di ingegneri specializzati esaminavano i piani di investimento, ne valutavano la solidità e le prospettive, e se convinti della bontà dei progetti elargivano il credito a medio termine. L’Italia industriale è nata così, da una collaborazione costruttiva tra banche e imprese, in assenza della quale non saremmo mai diventati la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania.

E ora? «Questo mestiere le banche italiane, per quanto ci provino, oggi lo fanno poco o nulla» afferma Pansa, per esperienza diretta. Piuttosto che perdere tempo per radiografare un’azienda e i suoi progetti d’investimento, le banche trovano «più redditizio ed eccitante finanziare un leveraged buy out, l’acquisizione di una società finanziata in gran parte ricorrendo al debito». Non solo. Le stesse regole di vigilanza sulla gestione del patrimonio spingono le banche a speculare sui derivati piuttosto che immobilizzare risorse in aziende di medie dimensioni, non quotate e senza rating.

Se lo scenario è questo, che si può fare? Gettare la spugna e arrendersi al declino? Giammai, dice Pansa, che suggerisce al governo una soluzione concreta: «Si vuole fare davvero politica industriale in Italia? Allora si crei una banca di credito a medio-lungo termine. Non è molto difficile: all’inizio bastano pochi miliardi di patrimonio (3 o 4), coinvolgendo come azionisti un grande istituto di credito, una grande compagnia di assicurazioni, e una o più casse di previdenza». Sfruttando anche i miliardi a basso tasso d’interesse della Bce, in poco tempo i fondi disponibili potrebbero arrivare a 100 miliardi, e le imprese che hanno progetti d’investimento validi potrebbero trovare finalmente il credito che oggi non c’è, nonostante l’abbondanza di liquidità, dovuta ai miliardi della Bce a costo quasi zero, che le banche usano per comprare Bot e Btp e avere così rendimenti più facili e sicuri rispetto al credito industriale.

In sintesi, una sfida vera sul piano della governance: non più politici maneggioni, come quelli che dicevano «allora, abbiamo una banca?», ma un premier che si faccia lui stesso promotore di un nuovo, grande istituto di credito a medio-lungo termine, anche mettendo insieme pubblico e privato. Perché senza credito all’industria, la crescita è destinata a restare uno slogan politico vuoto, un’illusione che l’Italia rischia di pagare con un declino senza ritorno e, checché ne dica Beppe Grillo, per nulla felice.

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Dietro al conflitto continuo tra la Bce di Draghi e il Fmi di Lagarde c’è una verità tragica: troika e banche hanno rimpiazzato la democrazia

Tino Oldani Italia Oggi

Ancora pochi giorni fa, Christine Lagarde, direttore generale del Fondo monetario internazionale, e il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, si sono trovati a sostenere tesi contrapposte. La Lagarde, con una invasione di campo ormai abituale, ha esortato la Bce a imitare il «quantitative easing» della Federal reserve Usa, acquistando direttamente titoli di Stato dei Paesi dell’eurozona con problemi di bilancio, convinta che sia un modo più efficace, rispetto ai prestiti Bce a buon mercato, per vincere la deflazione dilagante in Europa. Draghi, che forse si è stancato di polemizzare con la Lagarde per le intromissioni nella propria sfera d’azione, non le ha neppure risposto, preferendo rilanciare una sua tesi recente, per cui «serve una governance europea per le riforme». A prima vista, un classico dialogo tra sordi.

Ma poiché la Lagarde non è l’ultima arrivata, è giusto chiedersi a quale titolo intervenga sulla politica monetaria della Bce, e di riflesso sull’economia europea. La sua invasione di campo è davvero tale, priva di giustificazione? La risposta corretta è: no. La spiegazione è in una parola di origine russa, divenuta di moda in Europoa: troika. Da un paio d’anni, essa indica un triumvirato istituzionale, formato da Fmi, Bce e Ce (Commissione europea), che controlla il rispetto non tanto dei Trattati europei (materia che non potrebbe riguardare il Fmi), bensì quello delle regole introdotte con alcune modifiche dei Trattati, regole ferree, contenute in due distinti accordi intergovernativi: il Fiscal compact e il Mes (Meccanismo europeo di stabilità).

Dei due, il Fiscal compact è il più conosciuto. In sintesi, obbliga i Paesi dell’eurozona a rispettare il parametro del 3% nel rapporto deficit-pil, a non sforare un deficit strutturale dello 0,5% l’anno, e impone ai Paesi con debito eccessivo di abbattere ogni anno di un ventesimo la quota di debito pubblico che supera il 60% del pil. Per l’Italia significa l’obbligo per 20 anni, a partire dal 2015, di manovre annuali di circa 50 miliardi di euro, considerate da tutti insostenibili. Per completezza, il Fiscal compact è stato approvato dal governo di Mario Monti nel 2012, e inserito a razzo nella Costituzione, con l’avallo pressoché unanime del Parlamento, sotto la sferza di uno spread a 570 punti. Una cessione totale di sovranità nazionale, destinata a costare molto cara.

Meno note sono le novità introdotte dal Mes (Meccanismo europeo di stabilità), deciso dal Consiglio dei capi di Stato e di governo nel 2010 per fare fronte alla crisi dell’euro, ed entrato in vigore nel settembre 2012. Mes e Fiscal compact sono complementari e, di fatto, hanno creato una nuova governance europea che scavalca i singoli governi per gestire le crisi finanziarie e salvare gli Stati a rischio di tracollo. Volendo semplificare, il Mes è una riproduzione europea del Fmi, sia pure con una minore potenza di fuoco (ha 700 miliardi di euro di capitale, versati dai paesi euro, di cui 500 prestabili). Ed è proprio al Fmi che il Mes si affianca nell’effettuare i prestiti ai Paesi in difficoltà e nel controllare in modo rigoroso l’applicazione delle regole di austerità per riportare i bilanci statali in pareggio. In questa azione, il Mes e il Fmi operano di concerto con la Commissione europea, formando la famosa Troika. Attenzione però ai dettagli, perché è sempre lì che si nascondono le trappole. Il Mes ha una propria personalità giuridica, i suoi dirigenti e i suoi beni godono di totale immunità, e di fatto, quando concede un prestito a un paese in difficoltà che ne abbia fatto richiesta, si sostituisce insieme ai soci della Troika nella gestione della politica economica del Paese debitore. Lo Stato debitore deve sottostare a tutte le imposizioni contenute nel piano di aggiustamento finanziario della Troika, costi quel che costi. È stato così in Grecia, con effetti sociali disastrosi. Ed è stato così in Spagna, Portogallo e Cipro.

Dunque, se la signora Lagarde si permette di dare consigli alla Bce, o addirittura di criticarla, lo si deve proprio alla sua presenza nella Troika, che nella gestione dei paesi Ue in crisi (e commissariati) conta ormai più degli stessi governi interessati, nonché del Parlamento europeo e dei Parlamenti nazionali. Una cessione totale della sovranità nazionale.

Il bilancio dei primi due anni del Mes non appare affatto esaltante. In Grecia, grazie ai prestiti della Troika, l’unico beneficio è andato alle banche del Nord Europa, che hanno potuto recuperare per intero i loro crediti, mentre al governo di Atene sono rimaste le briciole (circa il 19% degli aiuti).

Anche per questo il Mes, ufficialmente un Fondo salva Stati, viene definito dai critici un Fondo salva banche. Definizione tanto più appropriata se si considera che alle riunioni del Mes in cui si valutano le concessioni dei prestiti ai Paesi richiedenti, sono ammessi come osservatori i maggiori istituti finanziari privati del mondo, come Nomura, Goldman Sachs, Merril Lynch, e così via. Con il risultato che le politiche economiche di austerità rischiano di essere dettate non dagli organismi democratici liberamente eletti dai paesi in crisi, bensì dalle grandi banche mondiali.

Quest’ultimo aspetto mette i brividi. Soprattutto quando un Paese inizia ad entrare nelle ipotesi di commissariamento. «Italia commissariata? Non esiste» ha detto il premier Matteo Renzi in una recente intervista. Ma pochi giorni dopo ha fatto specie che Elmar Brok, uno dei consiglieri più autorevoli di Angela Merkel, abbia detto al Corriere della sera: «Se rispetta le regole e fa le riforme, l’Italia non tema il commissariamento». Sarà pure un eccesso di pessimismo, ma sembra una conferma del fatto che l’ipotesi era nell’aria, e forse lo è. Una brutta aria.