privatizziamo

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Uno stato “minimo” dove trionfano efficienza e modernità

Sandro Iacometti – Libero

Servizi funzionanti, tasse basse, burocrazia inesistente. Siamo a Liberrima, paradiso di modernità ed efficienza, dove trionfa l’ideale dello Stato minimo e si celebrano i diritti fondamentali dell’individuo. Un sogno, ovviamente, a cui Massimo Blasoni ha voluto dedicare l’ultimo capitolo del suo saggio Privatizziamo!, in questi giorni in libreria per i tipi di Rubettino Editore. Imprenditore del Nordest, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione di strutture socio-sanitarie e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Blasoni maneggia con disinvoltura i grandi maestri della tradizione liberale e liberista, da Smith a Nozick, da Hayek a Friedman.

L’autore descrive, numeri alla mano, il declino dell’Italia, l’impoverimento delle famiglie, il tracollo dei conti pubblici. «Così non va», sintetizza, e una via d’uscita «è immaginabile solo rompendo gli schemi» del dibattito culturale e politico. La rottura non è il liberismo selvaggio. Quello che viene proposto è un cambio di prospettiva. Un mondo di regole e leggi (drasticamente ridotte) dove «lo Stato continua a garantire servizi, ma in modo diverso». Dove tutti, siano essi soggetti pubblici o privati, cercano sul mercato prestazioni che vengono fornite da «società in concorrenza che si sfidano su qualità, innovazione e costi».

Ma Privatizziamo! è molto più di un inno alla privatizzazione. È un appello alla rivoluzione liberale in ogni settore. Dal fisco, che ancor prima di essere più leggero dovrebbe essere semplice e trasparente, alla politica, che dovrebbe ridurre le sue competenze e i suoi rappresentanti, al lavoro, che malgrado le recenti novità del Jobs Act continua a proporre modelli di rigidità costosi e poco orientati ai bisogni di lavoratori e aziende.

Blasoni non si fa troppe illusioni sulla capacità della classe dirigente di raccogliere i suoi suggerimenti. Alla sinistra, spiega, «non si può chiedere di giocare un ruolo autenticamente riformatore in senso liberale». Quanto ai moderati, bisogna riconoscere «i troppi errori compiuti, i troppi tradimenti, le numerose timidezze». La soluzione è quella di ripartire da zero. Cominciando da un elettorato più consapevole, che abbia ben chiaro che «il mondo intorno a noi è competitivo, non solidale» e che «lo sviluppo del nostro Paese, con più libertà e meno Stato, così come il lavoro dei nostri figli non saranno frutto di casualità, ma la conseguenza della nostra capacità di decidere per il tempo a venire e creare le occasioni per concorrere. Senza compromessi».

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Antonluca Cuoco – Strade

Proviamo per un attimo a immaginare di vivere in un’altra Italia, dove i cittadini possono decidere cosa fare dei soldi delle proprie pensioni senza essere obbligati a consegnarli agli sprechi dell’Inps, dove i diritti dei lavoratori pubblici e privati sono uguali, tutte le Tv sono private, in competizione e senza canone obbligatorio e dove non esistono partecipazioni pubbliche in società inutili (clamorosi sono i casi di quelle con più consiglieri d’amministrazione che dipendenti).

Nell’Italia dove invece viviamo per davvero, la pressione fiscale riconducibile alle amministrazioni locali è al massimo storico, come evidenziato dai dati della ricerca “La legge di stabilità 2016 e le prospettive della tassazione locale in Italia”, realizzata dal Cer in collaborazione con Confcommercio. 
Negli ultimi venti anni (1995-2015) le tasse locali sono passate da 30 a 103 miliardi di euro (+248%), mentre nello stesso periodo di tempo le tasse centrali sono cresciute del 72% da 228 miliardi a 393 miliardi. Di più: se nel 1998 meno del 9% dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali a fine 2014 tale quota è salita al 15%.

I dati evidenziano inoltre una marcata dicotomia tra nord e sud d’Italia sul fronte della tassazione. Focalizzando l’analisi sul Mezzogiorno, è amaro sottolineare quanto il Sud sia tra i maggiori pagatori a causa delle inefficienze del sistema. C’è uno scarto di 3-4 punti percentuali, una differenza analoga a quella che vediamo tra il nostro paese e la Germania. A Sud ci sono meno servizi e più imposte, e ancora più che nel resto d’Italia è evidente come le aliquote siano del tutto scollegate dai servizi resi in cambio. Immaginiamo un contribuente tipo con un imponibile Irap o un imponibile Irpef di 50 mila euro. A Roma la pressione Irap più Irpef arriva al 38% seguita da Campobasso e Napoli con il 37,4 e il 37,2%. Seguono Catanzaro, Palermo e L’Aquila con 36,8%. Le città più convenienti dal punto di vista fiscale sono Cagliari (34,8%), Bolzano (34%) e Trento (33,5%).

E’ necessario condurre una riflessione approfondita sulla presenza della mano pubblica nell’economia e nella società. Urge intraprendere un drastico processo di privatizzazione dei beni, immobili e mobili, e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Bisogna privatizzare e contemporaneamente, laddove sussiste una situazione di monopolio od oligopolio protetto da barriere all’entrata, liberalizzare. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre spesa e debito pubblico, e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente e meno gravata di imposte, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà.

Di quest’altra Italia necessaria, più snella, aperta e competitiva, parliamo con chi in questo paese vive e fa impresa da oltre 20 anni; è Il presidente del Centro Studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni, che offre ottimi spunti di riflessione nel suo libro “Privatizziamo!

Volendo sintetizzare in un tweet gli argomenti svolti potremmo dire: meno Stato e più privato, così l’Italia riparte?

Sì, senza dubbio. Speso gli italiani restano perplessi di fronte a ipotesi di radicale contrazione degli spazi di intervento dello Stato nelle nostre vite. È comprensibile, perché a lungo si è dato per scontato che alcune funzioni pubbliche dovessero essere garantite, erogate e controllate da esso. E che quasi ogni atto dovessero soggiacere a una autorizzazione pubblica, concessa paternalisticamente o autoritariamente. Allo stesso modo ci si è abituati al fatto che lo Stato dovesse intervenire nei campi più disparati, occupandosi non solo di regolare, ma anche di produrre e vendere beni e servizi finanziati da tariffe o imposte. Ma è possibile ipotizzare in una società organizzata diversamente, con meno Stato e più ampi spazi per le attività private di imprese e famiglie. È un’ipotesi che pone l’accento su aspetti di libertà e, a ben pensarci, anche di giustizia sociale.

Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Come non ripetere gli errori?

Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato migliorare la competitività di quelle imprese, ma piuttosto quello di cedere una parte delle azioni, per fare cassa, ben attenti a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale, visto che il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario. Malgrado tutto ciò, grazie alle privatizzazioni lo Stato ha comunque incassato 127 miliardi di euro, anche se non ne ha approfittato per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Resta moltissimo da fare, ma bisogna partire dal convincimento che lo Stato non deve gestire le imprese. Non ci sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni. Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Privatizzare correttamente non vuol dire creare nuovi monopoli, ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Siamo abituati a pensare che sia ovvio e normale che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo stato. In che modo “Privatizziamo!” dimostra che un diverso modello è possibile e migliora la vita di famiglie e imprese?

Il peso dello Stato frena tutta l’economia. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di spese minori. E oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Se solo fossimo riusciti ad un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. Ma perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire un taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente.

Se avessimo la stessa la pressione fiscale spagnola, noi italiani pagheremmo 145 miliardi di euro in meno; anche questo è spread e penalizza pesantemente tutto il ceto produttivo della penisola: sbaglio o è un miracolo se siamo ancora in piedi?

Le tasse in Italia sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo frena tutto il Paese. Ma per chi si ostina a fare impresa la situazione è ancora più drammatica. Il nostro costo del lavoro è alto: è noto. Ma il problema più rilevante è che una parte eccessiva di quei denari non finisce in tasca ai lavoratori, ma in tasse. Esattamente il 48,2% nel 2014, contro una media Ocse del 36%. Una percentuale molto più alta che in Giappone o Usa, entrambi intorno al 30%, o in Spagna (41%) e Olanda (38%). Quanto alla total tax rate, cioè al carico fiscale complessivo di ogni tributo compreso che grava sui profitti delle imprese, vale la pena di citare qualche dato. In Italia è il 65,4% (fonte Doing Business 2015), in Germania è il 48,8%, nel Regno Unito il 33,7%, in Irlanda il 25,9%. Un peso obiettivamente eccessivo, che disincentiva l’intrapresa in Italia e gli investimenti esteri.

Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: cosa deve accadere perché questo sogno meritocratico diventi realtà?

Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla terzietà di chi l’amministra e la conoscenza aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Per crescere le nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile, di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista. Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito (sempre) o lavorare di più (talvolta). La lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Infine, che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo?

Privatizziamo! non sembra voler essere un pamphlet contro la politica. Non è pensabile una società senza regole e senza democrazia ma i tempi che viviamo ci pongono sfide nuove e complicate: come attrezzarsi e con quali strumenti vincerle?

Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Ma perché il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti per decreto, ma sono il prodotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Non un’Italia senza Stato, insomma, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa.

Leggi l’articolo sul sito di “Strade”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

“Lo Stato riduca al minimo il suo raggio d’azione”

Intervista di Antonio Signorini (Il Giornale) a Massimo Blasoni

blasoniintLo Stato deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione e lasciare al privato quei servizi che il mercato è in grado di rendere più efficienti. Compresa la gestione della pubblica amministrazione. Massimo Blasoni è un imprenditore di prima generazione, ha dato vita al centro studi ImpresaLavoro e ora con il libro “Privatizziamo!” (Rubbettino, 184 pagine, 12 euro) avanza una proposta di riforma radicale.

C’è ancora spazio per idee come la sua?

«Privatizzare è l’unica via per ridurre l’assurdo carico fiscale. Negli anni Settanta la pressione fiscale in Italia era il 22 per cento del Pil, oggi supera il 42,6 per cento e questo è il risultato di un continuo ampliamento del perimetro dello Stato».

A cosa è servito l’aumento della spesa pubblica?

«A creare una burocrazia sempre più invadente che rende difficile il lavoro degli imprenditori. Per fare degli esempi, in Italia per una concessione edilizia bisogna aspettare 227 giorni contro i 96 della Germania ei 105 del Regno Unito. Se fossero privatizzati gli uffici tecnici del Comune e fosse un gruppo di professionisti associati a gestire le concessioni, con remunerazioni legate alla celerità delle risposte, i tempi sarebbero altri. Forse nessun cittadino e imprenditore si sentirebbe rispondere dietro lo sportello, che il funzionario non c’è, che bisogna ripassare dopo le ferie. Secondo me nessuno si scandalizzerebbe nemmeno se fosse esternalizzata l’anagrafe».

Lei propone di privatizzare funzioni della pubblica amministrazione. È un’idea radicale…

«Il libro si chiama Prívitizziamo! Ma non propone solo privatizzazioni di aziende pubbliche. Bisogna essere coscienti che l’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile, siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è il frutto di un ordine necessario».

L’obiezione che i servizi pubblici perché devono restare a disposizione di tutti…

«A questa obiezione rispondo con i dati delle tariffe telefoniche. Dopo la privatizzazione, in 10 anni, solo calate dell’11,5%, mentre quelle dell’acqua, che è ancora pubblica, sono aumentate del 78,6%. Nel pubblico ci sono costi che il privato non deve sostenere. Poca efficienza, intermediazione politica. Oggi un sindaco fa fatica a decidere. Nel Comune privatizzato, fatti salvi i compiti istituzionali e politici, un primo cittadino potrebbe comportarsi come un imprenditore che premia il merito, assume e licenzia. Tutto questo a beneficio del cittadino».

Ci sono servizi che devono essere comunque garantiti?

«Ci sono funzioni che deve svolgere direttamente lo Stato. La difesa interna ed esterna, la magistratura. Poi ci sono servizi che devono essere completamente liberalizzati con conseguente riduzione delle tasse a carico del cittadino. Sono quelli pubblici, ma che riceviamo in proporzione a quanto paghiamo. È il caso delle pensioni. L’Inps ha avuto uno sbilancio di oltre 12 miliardi l’anno scorso. Perché non lasciare ai cittadini il miglior gestore possibile dei propri denari?».

E i servizi garantiti?

«Sono quelli per i quali riteniamo non ci debba essere proporzionalità tra quanto diamo e quanto riceviamo. La sanità ad esempio. Deve restare pubblica e finanziata dai contribuenti. Un modello solidale che non significa gestione pubblica. Chiariamoci, non immagino una sanità all’americana, con cittadini più abbienti privilegiati perché possono permettersi un’assicurazione migliore. Nel libro si propone che lo Stato acquisti sul mercato, quindi in regime di concorrenza, beni e servizi da offrire ai contribuenti. La differenza è che quei servizi sarebbero gestiti molto meglio».

Il centrodestra è ancora sensibile a proposte liberali come la sua?

«Occorre una politica con più competenze, ma meno professionale e questo non può che realizzarlo il centrodestra, riprendendo in mano le tesi di una vera rivoluzione liberale. I segnali che arrivano dal governo Renzi non sono certo di una riduzione del peso dello Stato. Il mondo intorno a noi è ben più competitivo che solidale, dunque per rilanciare il nostro Paese servono misure radicali: i posti di lavoro non si creano per decreto, ma favorendo un’economia che funziona. Con meno Stato e più privato».

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

A volte anche i friulani si incazzano, e uno di loro vuole privatizzare tutto

Tino Oldani – Italia Oggi

La pressione fiscale era intorno al 15% del pil in epoca fascista, è salita al 18% nel dopoguerra, per attestarsi intorno al 20% nel 1972, quando Bruno Visentini varò una storica riforma tributaria, che introdusse la trattenuta alla fonte sui redditi da lavoro. Da allora, la pressione fiscale è cresciuta di continuo, fino ad attestarsi al 43,7% attuale, con le tasse locali che negli ultimi vent’anni sono cresciute del 248% e quelle nazionali del 72%. È da questi dati che prende le mosse un bel libro («Privatizziamo!»; Rubbettino), scritto da un imprenditore di prima generazione del Nord Est, Massimo Blasoni, 45 anni, che, in base all’esperienza personale (è stato anche in politica), giudica ormai inaccettabile la pervasività asfissiante dello Stato in ogni settore, uno Stato cresciuto troppo, che si nutre di troppe tasse, uno Stato inefficiente e in perenne deficit, che va messo a stecchetto al più presto, con una radicale politica di privatizzazioni, lasciando al settore pubblico soltanto l’esercito, la giustizia e la polizia, oltre al compito di fare le leggi.

Blasoni è a capo di un’azienda che costruisce e gestisce residenze sanitarie per anziani, ha 1.600 dipendenti, e fa buoni utili. In passato è stato consigliere comunale a Udine per Forza Italia, ed è stato poi eletto consigliere regionale in Friuli, risultando il più votato. Ma, di quell’esperienza, non conserva un buon ricordo. Anzi, nel libro racconta la delusione che provò quando propose di istituire un Fondo regionale di garanzia, per dare liquidità alle aziende friulane in crisi, e la burocrazia regionale si mise di traverso. Un superburocrate regionale non trovò di meglio che affossare l’iniziativa con un sorrisetto di scherno: «Eh, voi imprenditori. Gli imprenditori evadono, già facciamo molto per le imprese, bisogna sostenere i lavoratori non le imprese, e la burocrazia ha i suoi tempi”. Purtroppo, tempi vergognosamente lenti: “Da un anno e mezzo”, annota Blasoni, “attendo la concessione di una licenza edilizia in Veneto, e con me tutti i lavoratori impegnati nel progetto, mentre le Asl piemontesi impiegano mediamente dieci mesi per i pagamenti».

Uscito dalla politica, Blasoni ha fondato un proprio centro studi (ImpresaLavoro), che negli ultimi due anni ha messo insieme una montagna di dati sui danni dello statalismo. I confronti con gli altri paesi sono impietosi. Se in Italia ci fosse la stessa pressione fiscale che c’è in Germania (39,4%, contro il nostro 43,7%), pagheremmo 54 miliardi di tasse in meno ogni anno. Andrebbe ancora meglio se da noi ci fosse la pressione fiscale della Spagna (34%): 145 miliardi di tasse in meno. Per rilasciare una concessione edilizia, la burocrazia italiana impiega 233 giorni, contro 96 della Germania e 87 della Gran Bretagna. Lo Stato, in media, paga le forniture private con un ritardo di 144 giorni, mentre la media Ue è di meno di un mese, con il risultato che lo Stato non è ancora riuscito a pagare i debiti che aveva con i fornitori privati, cosa che Matteo Renzi ha dato più volte per fatta. «Come ha certificato la Banca d’Italia, mancano ancora 70 miliardi», sostiene Blasoni.

La scarsa efficienza di tutti i servizi pubblici, dalla sanità agli sportelli comunali, si deve al fatto che lo status dei dipendenti pubblici è tuttora diverso da quello dei privati, un punto sul quale né il Jobs act, né la riforma Madia hanno cambiato una virgola. «Lo so per esperienza diretta», dice Blasoni: «Un sindaco non ha neppure il potere di spostare un impiegato da un ufficio a un altro. E un lavoratore privato, quando deve fare la fila a uno sportello pubblico, è il primo a toccare con mano che i tempi di lavoro dell’impiegato pubblico sono molto diversi da quelli che vigono in ogni azienda privata. Ecco perché serve una riforma vera della burocrazia, che renda paritario lo status dei dipendenti pubblici e privati, ma soprattutto privatizzi tutti quei servizi che i privati svolgerebbero con maggiore efficienza rispetto a Comuni e Regioni».

Lo Stato vuole fare tutto, anche l’immobiliarista, ma lo fa male. «Prendiamo l’Inps: possiede 22.500 immobili, del valore di 3,2 miliardi, ma ci rimette più di 100 milioni ogni anno nella gestione. È il segno che funziona male», sostiene l’imprenditore friulano. «Visto che la riforma Fornero ha reso le pensioni contributive, che senso ha fare gestire ancora i contributi previdenziali a un ente pubblico inefficiente come l’Inps? Una società privata li gestirebbe meglio. Lo Stato, poi, che aspetta a dismettere l’immenso patrimonio immobiliare, visto che lo gestisce così male?».

L’organizzazione del settore pubblico che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Ma non sta scritto da nessuna parte che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti, pensioni e acqua debbano essere gestite direttamente dallo Stato. Tanto più se il costo dell’intermediazione politica (fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti) genera costi impropri, che vengono fatti pagare a tutti noi, famiglie e imprese, con una tassazione folle. Contro lo Stato cattivo imprenditore e cattivo immobiliarista, che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa, c’è un solo rimedio, per Blasoni: privatizzare. Difficile dargli torto.

Leggi l’articolo sul sito di Italia Oggi

Blasoni: Meno Stato e più privato, così l’Italia riparte

Blasoni: Meno Stato e più privato, così l’Italia riparte

di Massimo Blasoni – Panorama

Cosa può fare lo Stato per riacquistare credibilità ed efficienza da tempo perdute? Deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione, lasciando all’iniziativa dei privati la gestione di settori e funzioni che via via le sono stati sottratti da una macchina politico-burocratica costosa, improduttiva e inefficiente. In estrema sintesi, è questa la proposta contenuta nel mio saggio “Privatizziamo!” (www.privatizziamo.it), pubblicato da Rubbettino e da poco uscito in libreria.

In queste pagine ho cercato di abbinare l’esperienza quotidiana di imprenditore alla mia antica passione liberale, avanzando una tesi tanto rivoluzionaria quanto praticabile: rendere privato pressoché tutto quello che oggi lo Stato gestisce con un intervento diretto nella produzione di beni e servizi. Lasciamogli il compito di legiferare, regolamentare e vigilare. E rimanga ovviamente pubblica la gestione della difesa, della sicurezza e della giustizia. Tutto il resto però ritorni a famiglie e imprese.

Mi chiedo ad esempio perché debba esserci una differenza di status tra dipendenti pubblici e privati. Perché un impiegato all’anagrafe e il lavoratore di un’azienda devono avere regole del gioco così diverse? Un Sindaco che voglia ben amministrare il proprio Comune oggi non è in grado di assumere, licenziare, premiare il merito o anche solo trasferire personale da un ufficio all’altro. Una volta che l’organismo politico ha adottato le proprie decisioni, la loro attuazione potrebbe essere esternalizzata o realizzata da organici privatizzati.

Quella che provo a disegnare è insomma la fisionomia di uno Stato leggero, che spende meno e che quindi può tassare di meno. Per questo consiglio in particolare la lettura del mio libro a quanti ancora credono nella necessità di aziende pubbliche. Perché l’Inps deve gestire, male, i nostri versamenti contributivi e non possiamo invece scegliere la migliore offerta sul mercato? Perché non viene dismesso l’enorme e improduttivo patrimonio immobiliare pubblico e le nostre imprese sono gravate da miriadi di adempimenti burocratici che ne riducono la competitività?

L’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo. Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, trasporti (a proposto, a quando finalmente la privatizzazione di Trenitalia?), pensioni e acqua siano attività gestite direttamente dallo Stato non è frutto di un ordine necessario. Il costo dell’intermediazione politica – fatta di Cda, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti di fornitura – genera costi impropri che vengono fatti pagare a tutti noi. In Italia, a farla (letteralmente) da padrone, è insomma uno Stato che si improvvisa imprenditore e immobiliarista e che si è trasformato in un’idrovora fiscale pur di mantenere un apparato burocratico pletorico, a stipendio garantito e ostile all’impresa. Per superare queste inefficienze va finalmente riconsegnata a famiglie e aziende la libertà di scegliere come e quando spendere le proprie risorse. E c’è un solo modo per farlo: Privatizziamo!

 

Massimo Blasoni presenta “Privatizziamo!” a Radio24

Massimo Blasoni presenta “Privatizziamo!” a Radio24

Il Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, ha presentato il suo libro “Privatizziamo!” ieri pomeriggio a Radio24, ospite di Oscar Giannino alla trasmissione “La versione di Oscar“.

Ogni giorno sentiamo il nostro governo dire che la spesa pubblica si riduce e che le tasse sono più basse. Non è così….

Posted by Massimo Blasoni on Thursday, February 18, 2016

È uscito “Privatizziamo!”, il libro di Massimo Blasoni

È uscito “Privatizziamo!”, il libro di Massimo Blasoni

Cosa può fare lo Stato per riacquistare agli occhi dei cittadini credibilità ed efficienza da tempo perdute? Deve ridurre al minimo il perimetro della sua azione, lasciando all’iniziativa dei privati la gestione di settori e funzioni che via via sono stati le sono stati sottratti da una macchina politico-burocratica costosa, improduttiva e inefficiente. In estrema sintesi, è questa la proposta contenuta in “Privatizziamo!” (www.privatizziamo.it), il saggio scritto da Massimo Blasoni, edito da Rubbettino Editore e uscito in questi giorni in libreria.

Imprenditore di prima generazione, alla guida del terzo gruppo italiano attivo nella costruzione e gestione di strutture socio-sanitarie, Blasoni è anche  presidente del Centro studi ImpresaLavoro. In questo libro unisce la sua esperienza da uomo d’azienda e la sua passione liberale per tratteggiare un futuro possibile per il nostro Paese fatto di meno regole, meno Stato, meno tasse e quindi più libertà per i privati.  La ricetta è tanto semplice da sintetizzare quanto articolata nella sua proposta: per Blasoni devono restare interamente pubblici solo esercito, giustizia e polizia, in quanto garanti di sicurezza e legalità per il cittadino; tutto il resto è privato. Con il gettito tributario lo Stato acquista per i cittadini alcuni servizi – direttamente o attraverso l’assegnazione di voucher – e prestazioni di interesse collettivo sul libero mercato ma la mano pubblica si sveste del compito di produrre e gestire direttamente larghe fette della nostra economia. Quello che Blasoni disegna è uno stato leggero, che spende meno e quindi può tassare di meno ma che comprende come l’istruzione scolastica, le infrastrutture o le politiche sociali rappresentino un costo che non può essere singolarmente sopportato dal cittadino, ma che viene ripartito su tutti i beneficiari sulla base del principio di solidarietà. Solo che, a differenza di quanto avvenuto sin ora, il pubblico non pretende di garantire il diritto alla salute o all’istruzione e contemporaneamente di erogarlo.

«L’organizzazione sociale che conosciamo non è l’unica possibile. Siamo solo abituati a pensarlo» spiega Blasoni nell’introduzione del suo libro. «Il fatto che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo Stato non è frutto di un ordine necessario». Il costo dell’intermediazione politica, fatta di consigli d’amministrazione, assunzioni ingiustificate e gestione non economica degli acquisti di fornitura, genera costi impropri che si trasformano in ulteriori tasse per i cittadini: per superare queste inefficienze c’è solo una ricetta ed è quella di riconsegnare a famiglie e imprese la libertà di scegliere come e quando spendere le proprie risorse. Una soluzione che è sopratutto un monito: Privatizziamo!

Massimo Blasoni a Virus – Rai Due

Massimo Blasoni a Virus – Rai Due

Il presidente del Centro Studi ImpresaLavoro, Massimo Blasoni, è intervenuto ieri a “Virus”, su Rai Due, ospite di Nicola Porro. In collegamento, insieme a lui, il giornalista Salvatore Tramontano (Il Giornale) e il viceministro dell’Economia Enrico Zanetti (Scelta Civica).

Il patrimonio immobiliare dello Stato è immenso, in realtà nemmeno del tutto censito. E’ gestito malissimo. Troppi…

Posted by Massimo Blasoni on Friday, February 12, 2016