Privatizzare, prima di tutto. Due chiacchiere con Massimo Blasoni

Antonluca Cuoco – Strade

Proviamo per un attimo a immaginare di vivere in un’altra Italia, dove i cittadini possono decidere cosa fare dei soldi delle proprie pensioni senza essere obbligati a consegnarli agli sprechi dell’Inps, dove i diritti dei lavoratori pubblici e privati sono uguali, tutte le Tv sono private, in competizione e senza canone obbligatorio e dove non esistono partecipazioni pubbliche in società inutili (clamorosi sono i casi di quelle con più consiglieri d’amministrazione che dipendenti).

Nell’Italia dove invece viviamo per davvero, la pressione fiscale riconducibile alle amministrazioni locali è al massimo storico, come evidenziato dai dati della ricerca “La legge di stabilità 2016 e le prospettive della tassazione locale in Italia”, realizzata dal Cer in collaborazione con Confcommercio. 
Negli ultimi venti anni (1995-2015) le tasse locali sono passate da 30 a 103 miliardi di euro (+248%), mentre nello stesso periodo di tempo le tasse centrali sono cresciute del 72% da 228 miliardi a 393 miliardi. Di più: se nel 1998 meno del 9% dell’imposizione diretta era riconducibile alle Amministrazioni locali a fine 2014 tale quota è salita al 15%.

I dati evidenziano inoltre una marcata dicotomia tra nord e sud d’Italia sul fronte della tassazione. Focalizzando l’analisi sul Mezzogiorno, è amaro sottolineare quanto il Sud sia tra i maggiori pagatori a causa delle inefficienze del sistema. C’è uno scarto di 3-4 punti percentuali, una differenza analoga a quella che vediamo tra il nostro paese e la Germania. A Sud ci sono meno servizi e più imposte, e ancora più che nel resto d’Italia è evidente come le aliquote siano del tutto scollegate dai servizi resi in cambio. Immaginiamo un contribuente tipo con un imponibile Irap o un imponibile Irpef di 50 mila euro. A Roma la pressione Irap più Irpef arriva al 38% seguita da Campobasso e Napoli con il 37,4 e il 37,2%. Seguono Catanzaro, Palermo e L’Aquila con 36,8%. Le città più convenienti dal punto di vista fiscale sono Cagliari (34,8%), Bolzano (34%) e Trento (33,5%).

E’ necessario condurre una riflessione approfondita sulla presenza della mano pubblica nell’economia e nella società. Urge intraprendere un drastico processo di privatizzazione dei beni, immobili e mobili, e di liberalizzazione dei servizi pubblici. Bisogna privatizzare e contemporaneamente, laddove sussiste una situazione di monopolio od oligopolio protetto da barriere all’entrata, liberalizzare. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre spesa e debito pubblico, e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente e meno gravata di imposte, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà.

Di quest’altra Italia necessaria, più snella, aperta e competitiva, parliamo con chi in questo paese vive e fa impresa da oltre 20 anni; è Il presidente del Centro Studi Impresa Lavoro, Massimo Blasoni, che offre ottimi spunti di riflessione nel suo libro “Privatizziamo!

Volendo sintetizzare in un tweet gli argomenti svolti potremmo dire: meno Stato e più privato, così l’Italia riparte?

Sì, senza dubbio. Speso gli italiani restano perplessi di fronte a ipotesi di radicale contrazione degli spazi di intervento dello Stato nelle nostre vite. È comprensibile, perché a lungo si è dato per scontato che alcune funzioni pubbliche dovessero essere garantite, erogate e controllate da esso. E che quasi ogni atto dovessero soggiacere a una autorizzazione pubblica, concessa paternalisticamente o autoritariamente. Allo stesso modo ci si è abituati al fatto che lo Stato dovesse intervenire nei campi più disparati, occupandosi non solo di regolare, ma anche di produrre e vendere beni e servizi finanziati da tariffe o imposte. Ma è possibile ipotizzare in una società organizzata diversamente, con meno Stato e più ampi spazi per le attività private di imprese e famiglie. È un’ipotesi che pone l’accento su aspetti di libertà e, a ben pensarci, anche di giustizia sociale.

Per costruire il futuro, bisogna anzitutto studiare il passato: cioè la prima ondata italiana di privatizzazioni, tra il 1993 e il 2005. Come non ripetere gli errori?

Nel nostro Paese si è privatizzato poco e, soprattutto, male. Il fine non è stato migliorare la competitività di quelle imprese, ma piuttosto quello di cedere una parte delle azioni, per fare cassa, ben attenti a mantenere il controllo e il potere direttivo. Così è stato per Enel, Fincantieri, Finmeccanica e via dicendo. Il resto è storia recente. Consideriamo la privatizzazione delle Poste. L’azienda verrà venduta senza separare il servizio postale tradizionale dal Banco Posta, cosicché i profitti del secondo continueranno a sostenere il servizio core e in modo certo non trasparente. Esattamente l’opposto di ciò che ha fatto Google quando ha creato Alphabet. E la privatizzazione delle Poste non è certo sostanziale, visto che il Tesoro manterrà il 60% delle azioni e imporrà, per il residuo, un tetto del 5% al possesso azionario. Malgrado tutto ciò, grazie alle privatizzazioni lo Stato ha comunque incassato 127 miliardi di euro, anche se non ne ha approfittato per riconvertire e modernizzare l’economia italiana, o ridurre il debito pubblico. Resta moltissimo da fare, ma bisogna partire dal convincimento che lo Stato non deve gestire le imprese. Non ci sono poi solo le società del Tesoro, ma anche le migliaia di partecipate di comuni, province e regioni. Talvolta sono inutili o sono nate per dare una veste solo formalmente privata – vantaggiosa per maneggi politici – e andrebbero semplicemente chiuse. Negli altri casi è d’uopo privatizzarle: sono costate alla collettività 26 miliardi (relazione Corte dei Conti) nel 2014, pur rendendo servizi spesso inefficienti. Privatizzare correttamente non vuol dire creare nuovi monopoli, ancorché privati. Privatizzazioni e liberalizzazioni debbono procedere di pari passo. La concorrenza è altrettanto fondamentale per raggiungere i risultati che vorremmo in tema di qualità dei servizi e minor costo per i cittadini.

Siamo abituati a pensare che sia ovvio e normale che uffici pubblici, scuola, sanità, pensioni, acqua, siano attività gestite direttamente dallo stato. In che modo “Privatizziamo!” dimostra che un diverso modello è possibile e migliora la vita di famiglie e imprese?

Il peso dello Stato frena tutta l’economia. Il governo di David Cameron ha ridotto tra il 2010 e il 2013 la spesa di una quantità che, tradotta in termini italiani, equivale a 16 miliardi di euro l’anno. In un triennio sono quasi 50 miliardi di spese minori. E oggi l’economia britannica, nonostante sia stata colpita da una crisi finanziaria più grave di quella che ha investito l’Italia, cresce tra il 2 e il 3% annuo. Da noi la spending review è rimasta nel cassetto. Se solo fossimo riusciti ad un andamento della spesa primaria pari a quello della media della zona euro dal 2010 a oggi, il risparmio sarebbe quest’anno di una trentina di miliardi. Ma perché in Italia è tanto difficile ridurre la spesa? Il vero motivo risiede nel grande spazio che Stato, regioni e comuni, in una parola la politica, occupano nell’economia nazionale. Fintanto che quello spazio non verrà drasticamente ridotto, la spesa potrà essere contenuta, ma non scenderà abbastanza da consentire un taglio significativo delle tasse. Lo Stato che spende non brilla affatto per oculatezza e se la spesa è improduttiva non genera effetti moltiplicatori. Quegli stessi denari in mano a famiglie e imprese, di norma, sarebbero invece un volano per l’economia perché spesi meglio e più rapidamente.

Se avessimo la stessa la pressione fiscale spagnola, noi italiani pagheremmo 145 miliardi di euro in meno; anche questo è spread e penalizza pesantemente tutto il ceto produttivo della penisola: sbaglio o è un miracolo se siamo ancora in piedi?

Le tasse in Italia sono passate dal 25% del pil nel 1975 al 50% di oggi perché lo Stato e i suoi apparati sono enormemente cresciuti, e questo frena tutto il Paese. Ma per chi si ostina a fare impresa la situazione è ancora più drammatica. Il nostro costo del lavoro è alto: è noto. Ma il problema più rilevante è che una parte eccessiva di quei denari non finisce in tasca ai lavoratori, ma in tasse. Esattamente il 48,2% nel 2014, contro una media Ocse del 36%. Una percentuale molto più alta che in Giappone o Usa, entrambi intorno al 30%, o in Spagna (41%) e Olanda (38%). Quanto alla total tax rate, cioè al carico fiscale complessivo di ogni tributo compreso che grava sui profitti delle imprese, vale la pena di citare qualche dato. In Italia è il 65,4% (fonte Doing Business 2015), in Germania è il 48,8%, nel Regno Unito il 33,7%, in Irlanda il 25,9%. Un peso obiettivamente eccessivo, che disincentiva l’intrapresa in Italia e gli investimenti esteri.

Se lavori vieni pagato, se lavori molto bene vieni pagato di più, se non lavori vieni licenziato: cosa deve accadere perché questo sogno meritocratico diventi realtà?

Sindacato, magistratura e università rappresentano ruoli e funzioni imprescindibili nella società. La tutela dei lavoratori, la garanzia di una giustizia basata sulla terzietà di chi l’amministra e la conoscenza aperta a larghi strati della popolazione sono conquiste relativamente recenti, sicuramente irrinunciabili. Ciò malgrado, oggi in Italia percepiamo, non del tutto a torto, questi ambiti anche come centri di potere, qualche volta autoreferenziali e certo poco inclini a vedere riformato il proprio ruolo in considerazione del mutare dei tempi. Per crescere le nostre aziende hanno bisogno di un mercato del lavoro flessibile, di elasticità contrattuale e di un sindacato non necessariamente antagonista. Possiamo girarci in tondo ed edulcorare il concetto, ma vi sono situazioni in cui è necessario licenziare, premiare il merito (sempre) o lavorare di più (talvolta). La lentezza della giustizia, soprattutto civile, ci fa perdere un punto percentuale di pil all’anno e ci posiziona al 147esimo posto su 183 Paesi in quanto a tempi ed efficacia nella risoluzione dei contratti civili. E se dei tempi della giustizia soffrono tutti i cittadini, per le imprese è forse ancora peggio. Infine, che senso ha un sapere accademico che rischia di essere solo preservazione del passato se non diventa opportunità di lavoro e risorsa per il mondo produttivo?

Privatizziamo! non sembra voler essere un pamphlet contro la politica. Non è pensabile una società senza regole e senza democrazia ma i tempi che viviamo ci pongono sfide nuove e complicate: come attrezzarsi e con quali strumenti vincerle?

Giustizia sociale, democrazia, libertà e diritto sono più facilmente garantiti in una società che cresce e produce ricchezza. Non perché l’economia sia l’antecedente della politica, come credono, ad esempio, i marxisti, e tutto si risolva nell’ambito delle relazioni economiche tra gli uomini. Ma perché il lavoro, un’equa retribuzione o sistemi pensionistici e sanitari, universali ed efficienti, non sono garantiti per decreto, ma sono il prodotto di un’economia libera e di produttori messi nella condizione di creare ricchezza. Occorre creare le condizioni perché ciò avvenga, non dirigisticamente o con spese e investimenti pubblici enormi, semmai agevolando le condizioni dello sviluppo. Non un’Italia senza Stato, insomma, ma con uno Stato che legifera e vigila, non che produce e pervasivamente di tutto si occupa.

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