mille giorni

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Dopo il flop degli 80 euro emerge una strategia alternativa

Tino Oldani – Italia Oggi

Il premier Matteo Renzi, anche nel nuovo programma dei mille giorni, insiste: il bonus di 80 euro ci sarà anche nel 2015 e deve diventare strutturale, perché, a suo avviso, serve a rilanciare i consumi delle famiglie e, di riflesso, la ripresa dell’economia. Il fatto che finora non vi sia stato un impatto positivo sugli acquisti, non sembra scoraggiarlo. Ma è plausibile che la ripresa possa basarsi su 10 miliardi annui di maggiori consumi? Oppure si tratta di un errore marchiano, basato su teorie economiche fallaci, di cui i consiglieri economici del premier sembrano essere tenaci assertori? E se si tratta di un errore teorico-politico, quale può essere l’alternativa?

La risposta più convincente, a mio avviso, l’ha data Alessandro Pansa, ex amministratore delegato di Finmeccanica con precedenti esperienze di banca (Unicredit, Vitale Borghesi & C, Lazard), in un commento pubblicato di recente sul Corriere della sera. Diversamente da altri critici degli 80 euro, che sostengono sia più utile destinare i 10 miliardi alla riduzione dell’Irap (tesi cara alla Confindustria e al suo giornale, ma anche a Eugenio Scalfari, all’ex ministro Vincenzo Visco e alla fronda interna del Pd vicina a Bersani), Pansa sposta il tiro dagli sgravi fiscali ai nodi irrisolti dell’economia reale, e sostiene che «una crescita duratura, capace di incidere sulla struttura del Paese, delle imprese e del lavoro, non dipende dai consumi, specie in una economia che importa la maggior parte dei beni di valore unitario elevato. Lo sviluppo può essere guidato solamente dagli investimenti delle imprese». Sembra l’uovo di Colombo, e lo è: ma, sul piano politico, significa una bocciatura secca degli 80 euro e delle tesi che fondano la ripresa sugli sgravi fiscali.

Ma come si fa a rilanciare gli investimenti delle imprese in un paese come l’Italia, dove gli imprenditori, come diceva Napoleone Colajanni, sono protagonisti di un «capitalismo senza capitali», e da sempre devono supplicare le banche con il cappello in mano per ottenere un prestito? Negli ultimi tempi, poi, anche le suppliche lasciano il tempo che trovano: la crisi finanziaria del 2008 ha lasciato ferite profonde, e nonostante i miliardi con i quali la Bce di Mario Draghi ha inondato le banche, il credito rimane assai scarso. Le banche si difendono ricordando che un’impresa su quattro è «deteriorata» (altro brutto neologismo portato dalla crisi, dopo gli esodati), per cui dal 2008 ad oggi le sofferenze bancarie sono salite da 43 a 166 miliardi di euro, portando a 290 miliardi i crediti «deteriorati». Un quadro difficile, sostiene l’Abi, a cui le banche hanno fatto fronte con 50 miliardi di aumenti di capitale, che non hanno alcuna intenzione di perdere con prestiti rischiosi. Eppure, sostiene Pansa, puntare sul credito per investimenti nell’industria rimane l’unica strada valida che il governo dovrebbe perseguire, avendo chiare le difficoltà da superare.

Un paese come l’Italia, per l’ex ad di Finmeccanica, «ha bisogno non di più credito, ma di credito migliore e soprattutto diverso: prestiti concessi per sviluppare tecnologie, innovare prodotti, processi, impianti, macchinari, con condizioni e tassi ritagliati sui piani d’investimento. Ma questo credito per le aziende non c’è». In passato, fino agli anni Ottanta, questo lavoro l’hanno fatto gli istituti di credito speciale (Imi, Mediocredito centrale, Mediobanca, per citare i nomi più noti), dove team di ingegneri specializzati esaminavano i piani di investimento, ne valutavano la solidità e le prospettive, e se convinti della bontà dei progetti elargivano il credito a medio termine. L’Italia industriale è nata così, da una collaborazione costruttiva tra banche e imprese, in assenza della quale non saremmo mai diventati la seconda manifattura in Europa, dopo la Germania.

E ora? «Questo mestiere le banche italiane, per quanto ci provino, oggi lo fanno poco o nulla» afferma Pansa, per esperienza diretta. Piuttosto che perdere tempo per radiografare un’azienda e i suoi progetti d’investimento, le banche trovano «più redditizio ed eccitante finanziare un leveraged buy out, l’acquisizione di una società finanziata in gran parte ricorrendo al debito». Non solo. Le stesse regole di vigilanza sulla gestione del patrimonio spingono le banche a speculare sui derivati piuttosto che immobilizzare risorse in aziende di medie dimensioni, non quotate e senza rating.

Se lo scenario è questo, che si può fare? Gettare la spugna e arrendersi al declino? Giammai, dice Pansa, che suggerisce al governo una soluzione concreta: «Si vuole fare davvero politica industriale in Italia? Allora si crei una banca di credito a medio-lungo termine. Non è molto difficile: all’inizio bastano pochi miliardi di patrimonio (3 o 4), coinvolgendo come azionisti un grande istituto di credito, una grande compagnia di assicurazioni, e una o più casse di previdenza». Sfruttando anche i miliardi a basso tasso d’interesse della Bce, in poco tempo i fondi disponibili potrebbero arrivare a 100 miliardi, e le imprese che hanno progetti d’investimento validi potrebbero trovare finalmente il credito che oggi non c’è, nonostante l’abbondanza di liquidità, dovuta ai miliardi della Bce a costo quasi zero, che le banche usano per comprare Bot e Btp e avere così rendimenti più facili e sicuri rispetto al credito industriale.

In sintesi, una sfida vera sul piano della governance: non più politici maneggioni, come quelli che dicevano «allora, abbiamo una banca?», ma un premier che si faccia lui stesso promotore di un nuovo, grande istituto di credito a medio-lungo termine, anche mettendo insieme pubblico e privato. Perché senza credito all’industria, la crescita è destinata a restare uno slogan politico vuoto, un’illusione che l’Italia rischia di pagare con un declino senza ritorno e, checché ne dica Beppe Grillo, per nulla felice.

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Il premier va avanti tra scetticismo e “fuoco amico”

Massimo Franco – Corriere della Sera

Colpisce che due personaggi distanti tra loro come l’ex premier Mario Monti e il segretario della Cgil, Susanna Camusso, esprimano giudizi taglienti su Matteo Renzi e il suo governo; di fatto, accusandolo di avere messo in cantiere un «piano dei mille giorni» pieno di titoli e vuoto di veri contenuti. Ma forse sorprende ancora di più il silenzio col quale il Pd ha accolto queste critiche. Anzi, arriva il «fuoco amico» di Massimo D’Alema. A replicare a Monti, attaccandolo, per paradosso è un’esponente di FI, Mara Carfagna: soprattutto per difendere la memoria politica di Silvio Berlusconi, spodestato nell’autunno del 2011 dall’esecutivo dei tecnici.

Per il resto, la corsa del presidente del Consiglio verso un futuro che continua a raffigurare radioso appare sempre più solitaria; circondata dal sostegno dei fedelissimi ma anche dalle ombre spesse della crisi economica e da quelle, meno vistose, di chi lo aspetta al varco. I sondaggi continuano a darlo stabilmente in sella, e descrivono gli avversari distanziati nettamente. Sta diventando sempre più chiaro, tuttavia, che le speranze di Palazzo Chigi di agganciare un’Europa in ripresa sono destinate a segnare il passo. Renzi ieri ha voluto sottolineare che i problemi sono continentali, non solo italiani.

«Il nostro dato negativo sulla crescita del secondo trimestre, che tanto ha alimentato il dibattito in casa nostra, è identico al dato tedesco: -0,2 per cento. Mal comune mezzo gaudio? Macché. Mal comune doppio danno», riconosce il premier, perché l’Italia è in condizioni ben peggiori. Su questo sfondo, sentirgli dire che «in mille giorni riportiamo il nostro Paese a fare la locomotiva, non l’ultimo vagone» dell’Europa, suona, a dir poco, azzardato. L’accusa di velleitarismo non è ancora esplicita, ma comincia a serpeggiare. D’altronde, ci sarà qualche ragione se una minoranza del Pd finora afona, adesso rialza la testa.

La richiesta al governo è di cancellare dalla Costituzione l’obbligo di pareggio del bilancio; e pazienza se in questo modo il Pd contraddice il suo voto del 2012. È il sintomo di un malessere che cova, represso; e che riaffiora. D’Alema parla di «risultati insoddisfacenti del governo» e ricorda di essere «sempre stato contrario al doppio incarico di segretario Pd-premier»: tema insidioso e tarato su Renzi. Il fatto che il presidente del Consiglio non smetta di ricordare il trionfo del partito alle europee di maggio costituisce una sorta di ammonimento ai suoi critici. Serve a sottolineare un rapporto diretto con l’opinione pubblica che oltrepassa le lealtà degli apparati del partito.

Il problema è capire se la cosiddetta «luna di miele» si perpetua, come sembra dire Palazzo Chigi additando i risultati che sostiene di avere raggiunto o di poter afferrare; o se l’affanno dell’economia ha cominciato a guastarla, rianimando chi finge di appoggiarlo. Il Movimento 5 Stelle martella sulla tesi dell’Italia che affonda, oberata dalle tasse. FI asseconda e incalza il premier. Ma il timore che le cose possano prendere una piega negativa si avverte nelle parole di Pier Ferdinando Casini, dell’Udc, finora suo difensore. Renzi «ha il pallino in mano, glielo abbiamo dato. Ma ora bisogna passare dalle parole ai fatti», avverte: come se quelli rivendicati finora non fossero tali.  

Il tramonto della fretta

Il tramonto della fretta

Antonio Polito – Corriere della Sera

Il sogno di Filippo Turati era di cambiare la società come la neve trasforma un paesaggio: fiocco dopo fiocco. Il passo dopo passo di Matteo Renzi sembra dunque segnare la conversione del giovane leader «rivoluzionario» alla tradizione dei padri del riformismo: un’azione profonda e duratura, invece di una concitazione di hashtag su #lasvoltabuona.

Si tratta di una scelta saggia, oltre che obbligata. Saggia perché ristruttura il debito di promesse contratto con l’elettorato concedendosi più tempo per realizzarle, e insieme garantisce lunga vita ai parlamentari chiamati a votarle. Obbligata perché neanche Renzi sembra aver ancora trovato la bacchetta magica per cambiare i ritmi di produzione legislativa di un sistema lento, e non sempre per colpa del Senato. Un solo esempio: ieri pomeriggio non risultava pervenuto al Quirinale il testo del decreto legge sulla giustizia civile approvato al Consiglio dei ministri di venerdì 29 agosto. Se pure arrivasse oggi, 3 settembre, c’è da calcolare almeno un’altra settimana per la normale attività di verifica prima della firma del capo dello Stato. Eppure si tratta di materia così urgente da finire in un decreto. Figurarsi che accade ai disegni di legge, o ai decreti attuativi. Di questo passo, passo dopo passo, i mille giorni passano in fretta.

Ma se è logico e serio prendersi qualche anno per portare a regime le decisioni assunte oggi, ne consegue che sarebbe molto pericoloso rinviare decisioni che vanno prese oggi, perché in questo caso i mille giorni diventerebbero millecinquecento, o duemila, e né l’Italia né il governo Renzi sembrano avere a disposizione tutto questo tempo. Il rischio, che al premier certo non sfugge, è che questa nuova tattica «normalizzi» un governo nato col forcipe proprio per fare in fretta ciò che ad altri non riusciva, con ciò togliendogli senso e consenso.

In due campi in particolare le decisioni non possono aspettare: la spending review e il mercato del lavoro. Qui sarebbe sbagliato prender tempo, sperando come al solito in una provvidenziale ripresina che eviti scelte impopolari. Se si vuole tagliare sul serio la spesa pubblica, bisogna cominciare a decidere subito se accorpare le forze di polizia, chiudere gli uffici periferici dei ministeri, tagliare le prefetture, sciogliere le società municipali, e così via. Se non lo si fa subito, per poi vederne gli effetti nei prossimi mille giorni, si finirà con i soliti tagli lineari in Finanziaria. Da questo punto di vista il governo è già in ritardo.

Allo stesso modo la legge delega sul lavoro, chiamata jobs act , non sembra contenere quello choc che Draghi avrebbe suggerito a Renzi per settembre; né arriverà a settembre, essendone prevista l’approvazione «entro la fine dell’anno» e l’applicazione entro la primavera del 2015 (dopo i decreti attuativi). La stessa svalutazione retorica dell’importanza dell’articolo 18 fa temere che si stia esitando di nuovo di fronte a un tabù della sinistra e del sindacato.

Chi fa oggi le riforme può contare su più flessibilità mentre producono i loro effetti: guardate la Spagna, ha un deficit del 7 per cento ma nessuno batte ciglio. Chi promette solo di farle, sarà trattato con più severità. Lo scambio proposto da Draghi in fondo è tutto qui: non premiare chi perde tempo, ma dare tempo a chi non ne perde più.