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Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Cosa frena o accelera la competitività delle PMI in Italia

Il Rapporto Cerved PMI è dedicato all’analisi delle piccole e medie imprese italiane (PMI), individuate in base alla classificazione della Commissione Europea (CE). In particolare, il documento analizza il complesso di società di capitale non finanziarie che soddisfano i requisiti di dipendenti, fatturato e attivi definiti dalla Commissione. In base agli ultimi bilanci disponibili soddisfano i requisiti di PMI 137.046 società, tra le quali 113.387 rientrano nella definizione di ‘piccola impresa’ e 23.659 in quella di ‘media impresa’.Queste società, che rappresentano più di un quinto (il 22%) delle imprese che hanno depositato un bilancio valido, hanno occupato 3,9 milioni di addetti, di cui oltre la metà lavorano in aziende piccole o piccolissime.

Le PMI realizzano un volume d’affari pari a 838 miliardi di euro, un valore aggiunto di 189 miliardi di euro (pari al 12% del Pil) e hanno contratto debiti finanziari per 255 miliardi di euro. Rispetto al complesso delle società non finanziarie, pesano per il 36% in termini di fatturato, per il 41% in termini di valore aggiunto e per il 30% in termini di debiti finanziari. Sono, quindi, una realtà importante e dinamica dell’economia italiana.

Come si può estendere il loro potenziale, specialmente in materia di innovazione? Alcune risposte interessanti sono nello studio “Design Contribution to the Competitive Performance od SME: The Role of Innovation Capabilities” appena pubblicato nella rivista Creativity and Innovation Management (Vol. 25 No.4 pp. 484-499) a cura di Claudio Dell’Era, Gregorio Ferraloro, Roberto Verganti (Politecnico di Milano), Paolo Landoni (Politecnico di Torino), Helena Karlsoon (Malerden University) e dell’economista Mattia Peradotto. Il loro lavoro merita di essere letto e studiato per comprendere meglio il ruolo dell’innovazione attraverso lo studio di sei piccole e medie imprese in Lombardia che hanno recentemente ricevuto finanziamenti per l’innovazione, analizzando il nesso tra questa e la loro accresciuta competitività sui mercati.

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

Cna: in micro e piccole imprese continua crescita degli occupati

L’Istat rileva che a febbraio il tasso di disoccupazione è tornato a crescere rispetto al mese precedente. Ma su base annua, quindi in un arco di tempo più ampio e attendibile, gli occupati sono saliti dello 0,4 per cento, mentre sono diminuiti dello 0,7 per cento gli inattivi e del 4,4 per cento i disoccupati. È verosimile che a determinare questa inversione di tendenza rispetto agli anni in cui la crisi ha picchiato più duro siano state le micro e le piccole imprese (Mpi). Lo testimoniano i dati dell’osservatorio mercato del lavoro Cna, che monitora l’occupazione in un campione di 20.500 Mpi con 125mila dipendenti.

Lo scorso febbraio  gli addetti delle Mpi sono aumentati dello 0,4 per cento rispetto a gennaio e del 2,5 per cento su febbraio 2015, l’aumento mensile più elevato degli ultimi quindici mesi. Sono numeri che dimostrano inequivocabilmente, ancora una volta, la centralità e la vivacità delle Mpi nel sistema produttivo italiano e la loro capacità di cogliere al volo anche i più timidi accenni di ripresa.

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Il Jobs Act non basta, Italia “nemica” delle Pmi

Massimo Blasoni – Il Giornale

Se avendo figli, ora bambini, ci chiedessimo dove andranno in futuro a lavorare credo ben pochi di noi penserebbero alle pubbliche amministrazioni, i cui organici hanno piuttosto bisogno di dimagrire. Dovranno essere le imprese a creare occupazione: magari anche nuovi lavori. Si stima che metà dei bambini di oggi faranno in futuro un lavoro che ora nemmeno esiste. Dunque l’occupazione e la crescita del nostro Paese dipendono in parte rilevante dalla possibilità di sviluppare le imprese esistenti e di farne nascere di nuove. Non pare, però, che il governo Renzi stia concretamente lavorando con questo obiettivo.
Rispetto ai principali partner europei un imprenditore italiano sconta molti punti di svantaggio. Partiamo dall’accesso al credito, che rimane difficile. Gli ultimi dati di Bankitalia registrano ancora un calo di prestiti del 2,2% sugli ultimi 12 mesi, ma soprattutto le rilevazioni Bce di marzo quantificano nel 3,40% il tasso medio complessivo per le imprese italiane contro il 2,83% delle imprese tedesche o il 2,61% delle imprese francesi. Non è poco. L’energia pesa sulle nostre imprese: il Chilowattora costa a una pmi italiana 18 cents, il 50% in più che in Spagna e il 100% in più che in Francia e il costo del lavoro resta tra i più alti in Europa. Si tratta di dati statistici che diventano però molto concreti nell’esperienza ­ lo dico da imprenditore ­ di chi ogni giorno deve produrre beni o servizi, scontrandosi con i problemi che abbiamo enumerato e molti altri.
Fatevelo spiegare da un imprenditore friulano che ha alle porte l’Austria o la Slovenia con un’imposizione fiscale di 1/3 inferiore o, chessò, da un imprenditore manifatturiero pugliese del distretto calzaturiero che deve vendere all’estero prodotti in concorrenza con Paesi, pur dell’Area Euro, con un costo del lavoro che è meno della metà come il Portogallo. L’edilizia non fa eccezione: il rilascio di un permesso di costruire in Italia richiede 233 giorni, in Danimarca sono 64. In generale, lo abbiamo stimato con il Centro Studi ImpresaLavoro, l’indice di imprenditorialità cioè la facilità di fare impresa­ ci colloca dietro tutti i nostri partner europei: l’Italia è ultima, per imprese create e opportunità percepite dagli imprenditori.
Resta poi il tema delle tasse. Vanno pagate, ovviamente. Tuttavia c’è da chiedersi se questo livello di imposizione fiscale sia sostenibile e se il patto tra Stato e impresa e cittadini non sia sbilanciato. Se una famiglia o un’impresa non pagano per tempo scattano Equitalia e le ganasce fiscali. Sarà a lungo possibile sostenere una tassazione alle imprese che nell’insieme, compresi i contributi ai lavoratori, raggiunge quest’anno il 65,4%? A tanto ammonta la cosiddetta total tax rate italiana: un dato lontanissimo da quelli del Regno Unito 33,7% o tedesco 48,8 per cento. Eppure, malgrado tutto, ci sono imprenditori che si battono e imprese che crescono magari nascendo da zero: ne guido una con 1.500 dipendenti di cui 200 assunti nel 2014.
Nessuno ha la bacchetta magica tuttavia il governo Renzi, tranne gli annunci, ha fatto ben poco per sostenere il sistema delle imprese. Non si tratta certo di elargire contributi ma di garantire l’opportunità di competere: il solo Jobs Act non basta. Liberalizzare, sburocratizzare, privatizzare non possono rimanere punti di un ordine del giorno che non si realizza mai.
È fallita una PMI ogni cinque

È fallita una PMI ogni cinque

Tino Oldani – Italia Oggi

Il solco che separa il bla-bla del governo dalla cruda realtà dei fatti sta diventando preoccupante. Prendiamo le piccole e medie imprese (pmi), che da sempre sono la vera spina dorsale dell’economia italiana. Il primo rapporto Cerved dedicato a questo settore, potendo contare su una messe di dati senza eguali, ha rivelato pochi giorni fa che, dall’inizio della crisi economica (2008) ad oggi, una piccola e media impresa su cinque è uscita dal mercato. In dettaglio: su 144 mila pmi censite, 13 mila sono fallite, più di 5 mila hanno avviato una procedura concorsuale non fallimentare, altre 23 mila sono state liquidate volontariamente.

L’amministratore delegato del Cerved, Gianandrea De Bernardis, ha tenuto a precisare che le pmi considerate, secondo la definizione Ue, sono quelle con un fatturato tra 2 e 50 milioni di euro e tra 10 e 250 dipendenti. In questa forchetta, in Italia ci sono 144 mila società che generano un giro d’affari di 851 miliardi, con un valore aggiunto di 183 miliardi, pari al 12% del pil nazionale. Dunque, una colonna portante dell’economia, che purtroppo si sta sgretolando sempre di più.

Poiché la crisi dura da ben sette anni, cosa hanno fatto finora i vari governi per le pmi? Cercando una risposta su Google, si scopre che il 28 agosto scorso il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ha emesso un comunicato grondante ottimismo sul successo dei mini bond, introdotti con il decreto Competitività per aiutare le pmi, con un carico fiscale ridotto. «Lo strumento dei mini bond» recitava il comunicato, «è ormai decollato e diventa sempre più diffuso tra le piccole e medie imprese che intendono accedere al mercato per reperire risorse di finanziamento in alternativa al credito bancario. Negli ultimi due mesi sono ben 26 le pmi che, per la prima volta, si sono affacciate sul mercato dei capitali e hanno emesso mini bond per un valore complessivo di un miliardo. Le emissioni vanno da un minimo di 5 milioni a un massimo di 200 milioni». Concludeva entusiasta Padoan: «Porteremo questa positiva esperienza all’attenzione dei partner europei in occasione dell’Ecofin di Milano».

Purtroppo per Padoan, il presunto «decollo» dei mini bond viene ora smentito dai dati del Cerved, che descrivono una realtà ben diversa. Su 144 mila imprese, sono soltanto 29 quelle che hanno emesso finora obbligazioni finanziarie, per un valore che si è fermato a 226 milioni; la torta complessiva dei mini bond agevolati sul piano fiscale, pari a 4,2 miliardi, è andata per il 95% alle grandi imprese. Di certo, spiega la ricerca Cerved, su questi dati ha influito un certo ritardo culturale delle pmi italiane, che, a differenza di quelle tedesche e francesi, dipendono per il 98% dai finanziamenti bancari. E poiché il credit crunch non ha mollato la presa, e poiché i pagamenti dei clienti e dello Stato hanno accumulato ritardi pazzeschi, ecco spiegati i fallimenti che hanno costretto una pmi su cinque a chiudere i battenti.

È evidente che senza una vera ripresa dei flussi del credito bancario, non vi sarà alcuna ripresa. Lo sa bene anche Matteo Renzi, che sul sito che porta il suo nome (matteorenzi.it) ha postato qualche tempo fa una proposta dettagliata, con un titolo roseo: «250 miliardi di credito garantito per le aziende». Recita il testo: «Oggi molte imprese, anche sane, soffrono, e in alcuni casi chiudono perché il credito non è disponibile. E quando è disponibile, è erogato a condizioni molto onerose. Tante aziende sono inoltre messe in difficoltà dai crediti verso la pubblica amministrazione. In queste condizioni, competere con i tedeschi e gli olandesi è quasi impossibile».

Ecco allora la soluzione di Renzi: «Riteniamo che l’accesso al credito sarà una delle leve principali per consentire alle piccole imprese di sopravvivere e per avviare un nuovo ciclo di crescita. Per questo prevediamo di riallocare sui fondi di garanzia del credito almeno 20 miliardi di fondi europei, in modo da garantire almeno 250 miliardi di crediti a piccole e medie imprese, dando all’imprenditoria sana, in particolare nel Sud, l’ossigeno per ripartire, a tassi competitivi con le imprese tedesche e olandesi».

Dettaglio importante: il post reca la data del 14 novembre 2012, quando Renzi era ancora sindaco di Firenze, ma parlava già come se fosse il presidente del Consiglio. I fondi di garanzia del credito, infatti, erano una sua idea: voleva che ne sorgesse uno in ogni Regione, con fondi del programma europeo Jeremie (Joint european resources for micro to medium enterprises). Peccato che da quando è premier se ne sia completamente scordato, per dare la precedenza a riforme controverse (Jobs act, articolo 18, Senato regionale, legge elettorale), buone per stare ogni giorno sul teatrino mediatico, ma del tutto inutili per favorire la ripresa delle pmi, o quanto meno per ridurre il numero dei loro fallimenti.

Un’agenzia di rating per le Pmi

Un’agenzia di rating per le Pmi

Gian Luigi Durante – Il Sole 24 Ore

Come allentare la stretta che soffoca le imprese italiane? Ci sono due problemi: la domanda è scarsa e mancano anche i finanziamenti. E purtroppo, data la natura pro-ciclica dell’attività bancaria, le due componenti si alimentano a vicenda. Quando la recessione fa aumentare le sofferenze, spinge le banche a tirare in barca i remi dei prestiti. E nelle temperie di questi anni la reticenza degli istituti bancari ad erogare credito è stata aggravata dalla crisi dei debiti sovrani e anche dalle imposizioni – peraltro strutturalmente, se non congiunturalmente, giuste – di Basilea 2 e 3 volte a innalzare i patrimoni bancari.

La concomitanza di tali fattori ha comportato circa 4 trilioni di euro di deleveraging nell’Eurozona; ciononostante le banche registrano ancora attivi pari a 3,1 volte il Pil (2,7 in Italia) e i prestiti deteriorati sui bilanci delle banche italiane sono aumentati al 15,9% (Banca d’Italia). Dopo la forte contrazione dell’offerta di credito coincisa con la crisi dei debiti sovrani, oggi alla radice dei problemi c’è la scarsa domanda – una questione di economia reale e non di economia finanziaria.

Per la prima volta dal 2007 i criteri di offerta dei prestiti sono divenuti lievemente espansivi, mentre la domanda degli stessi è rimasta debole (Bank Lending Survey, Bce). La ‘pro-ciclicità’ delle banche è specialmente penalizzante per le Pmi (98% delle imprese in Italia e in Europa), che hanno meno potere negoziale nel mondo finanziario e sono più esposte ai venti recessivi del mondo reale. Intanto, le politiche monetarie espansive della Bce hanno fallito nel loro intento di far ripartire il flusso di credito banca-impresa – tutto quello che può aiutare la finanza a rendere più fluido il credito per il settore produttivo è benvenuto.

Facilitare l’accesso al mercato dei capitali è imperativo e occorre farlo nelle forme più svariate: cartolarizzazioni dei prestiti, emissioni obbligazionarie pubbliche, o negoziate su base bilaterale con gli investitori. Un mix bilanciato di prestiti bancari e obbligazionari contribuirebbe non solo a rendere più fluido il mercato del credito, ma anche a proteggere il sistema da futuri shock. Mentre per le imprese più grandi, però, esistono procedure di valutazione del merito di credito che facilitano l’allocazione del capitale finanziario, le agenzie di rating non si occupano delle Pmi. Il problema è specialmente serio in Europa, dove il finanziamento dell’impresa è per il 90% affidato alle banche – contro il 45% negli Usa. Una soluzione potrebbe essere quella di promuovere un’agenzia di rating specializzata nel merito di credito delle Pmi.

Vediamo due casi concreti: nel settembre 2012 è stata costituita in India una agenzia di rating per le Pmi (Smera). Si legge nei documenti costitutivi: «Considerando che le banche utilizzano procedure di rating customizzate prima di erogare credito, i richiedenti si trovano ad investire risorse e tempo per trattare con gli istituti di credito. Smera ha adottato un sistema standardizzato, trasparente ed affidabile per elaborare una valutazione sul rischio di credito intrinseco ad una business unit. Inoltre, Smera è supportata da un gran numero di banche pubbliche e private nella regione».

Le valutazioni di merito di credito che le banche private effettuano sulle imprese loro clienti sono un giacimento immenso da sfruttare e armonizzare. Il secondo esempio concreto è la Credit Benchmark: fondata da due ‘imprenditori seriali’, Mark Faulkner e Donal Smith, ha ottenuto capitali di ventura per iniziare un’attività di raccolta dati nel mercato dell’informazione sul rischio di credito. La società raccoglierà i dati di base dalle analisi del rischio credito in ciascuna banca (una dozzina di banche globali hanno già dato il loro assenso), li aggregherà rendendoli anonimi e potrà così creare ‘giudizi di consenso’ per profili settoriali e per fasce di fatturato.

Un’Agenzia di rating europea per le Pmi, sotto l’egida della Ue e accompagnata da una estensione di forme di garanzia governativa sui relativi prestiti, avrebbe come obiettivo primario quello di migliorare tenuta e struttura dei ‘ponti’ che uniscono le Pmi alle istituzioni finanziarie e ai mercati. L’istituzionalizzazione del rating sbloccherebbe diversi canali di finanziamento ad alto potenziale, come ad esempio le cartolarizzazioni dei prestiti – in grado di sopperire alla mancanza di scala che impedisce alle Pmi di finanziarsi sui mercati dei capitali.

Se assemblati con criteri semplici e trasparenti infatti, i prestiti cartolarizzati delle Pmi potrebbero essere acquistati in parte dalle Banche centrali, come peraltro lasciato recentemente intendere dalla Bce e dalla Bank of England, restituendo nuova linfa al mercato dei prestiti bancari. Le regole che governano questo strumento sono state largamente rivisitate dopo la crisi dei mutui sub-prime negli Stati Uniti, esacerbata dall’effetto amplificatore della cartolarizzazione degli stessi: la necessità di un adeguato reporting su ogni prestito cartolarizzato, così come l’obbligo di mantenere una partecipazione nella stessa operazione da parte dell’istituto emittente, dovrebbero favorirne l’adozione. Inoltre, un sistema di rating delle Pmi consentirebbe la sua diffusione anche alle istituzioni non bancarie, le quali non hanno accesso a un vasto ammontare di dati sul mercato dei prestiti, esclusiva degli istituti bancari.

Certamente, si porrà il problema che segna tutte le agenzie di rating: come finanziare le analisi senza creare conflitti di interessi? Una soluzione può essere quella di far pagare il funzionamento ai vari protagonisti del mercato: dalle banche ai fondi di investimento, con contributi anche dalla Ue e dalle Associazioni di Pmi. Tra i vari traguardi di medio termine sono anche fondamentali la banking e fiscal union, per finire con la capital markets union: obiettivo del neo-eletto Presidente della Commissione Europea Juncker. Un grande lavoro di armonizzazione sarebbe necessario anche sotto il profilo legale, al momento, infatti, il diverso trattamento della base di investitori in un’emissione obbligazionaria nei vari paesi dell’eurozona determina inefficienze nell’allocazione del capitale in eccesso.

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

La T-ltro e i benefici (limitati) per le pmi

Maximilian Cellino – Il Sole 24 Ore

Un nuovo taglio dei tassi, l’avvio di un piano di riacquisti di Abs o il tanto agognato quantitative easing in salsa europea. Il toto-Bce impazza fra operatori e analisti in vista dell’appuntamento di domani a Francoforte, con il concreto rischio che il mercato si sia forse spinto troppo in là con l’immaginazione nelle ultime settimane. Qualcosa di certo pero l’Eurotower lo ha già sulla rampa di lancio: il nuovo piano di finanziamenti a lungo termine finalizzato alla concessione di credito (T-Ltro), che prenderà il via con l’ormai prossima asta del 18 settembre e che avrà una seconda puntata a dicembre.

Da qui a fine anno sul piatto ci sono 400 miliardi, che le banche europee dovrebbero girare alle imprese e che potrebbero diventare anche mille, secondo quanto ipotizzato dallo stesso Mario Draghi, da qui al 2016 se il piano dovesse funzionare. Il punto in questione, in sostanza, è proprio questo: quanti fondi chiederanno gli istituti di credito? E soprattutto, riuscirà questo denaro a raggiungere materialmente le aziende in difficoltà per il credit crunch?

Sul primo aspetto, un recente studio di Barclays ha stimato in quasi 270 miliardi le richieste che potranno pervenire nelle prime due operazioni T-Ltro, con una preferenza per l’appuntamento di dicembre in modo da gestire in modo migliore la concomitante scadenza delle Ltro varate ormai anni fa: una cifra questa che riscuote consenso anche fra le altre banche d’affari, così come l’ipotesi che a farsi avanti siano soprattutto gli istituti della «periferia» europea, italiani e spagnoli in testa.

Obiettivamente più complicato è capire se effettivamente questa liquidità (che poi è nuova soltanto in parte, perche va a rimpiazzare raccolta già esistente, Ltro in primis) prenderà la strada dell’economia reale e servirà davvero ad aiutare migliaia di piccole imprese in affanno. Qui i dubbi sono più che legittimi, se si pensa all’utilizzo che è stato fatto degli oltre mille miliardi ottenuti attraverso le più volte citate Ltro e anche ai risultati (scarsi per ora) raggiunti dal «funding for lending» della Banca d’Inghilterra, il piano che più si avvicina ai finanziamenti vincolati che la Bce si prepara a erogare.

Alcuni sondaggi condotti nelle ultime settimane da Morgan Stanley mostra che un certo scetticismo aleggia anche fra le banche stesse, e non soltanto per la debolezza della domanda di prestiti (che spiegherebbe, secondo gli analisti, per 2/3 la contrazione del credito). C’è infatti il pericolo che quel denaro sia riutilizzato essenzialmente per rifinanziare aziende con il merito di credito più elevato (tipicamente, le più grandi) ignorando invece le Pmi che poi sono il vero obiettivo del piano.

La stessa Morgan Stanley si spinge però a stimare una possibile riduzione del costo del finanziamento per una piccola o media impresa spagnola compreso fra 30 e 80 punti base (cioè 30-80 centesimi), mentre in Italia l’impatto sarebbe più limitato (20-40 centesimi) perché la redditività inferiore delle banche di casa nostra tenderebbe di fatto a limitare il trasferimento dei benefici alla clientela. L’intervento Bce andrebbe in sostanza nella direzione giusta, servirebbe cioè a ridurre la frammentazione esistente sui mercati del credito nell’Eurozona. Non riuscirebbe tuttavia a colmare il divario esistente. Perché se è vero che in base ai dati pubblicati dalle Banche nazionali un’azienda italiana ha ottenuto a giugno un nuovo finanziamento a un tasso medio del 3,09% e una spagnola al 3,48%, è innegabile che le francesi e le tedesche paghino ancora molto meno (rispettivamente il 1,23% e 11,93%). E per i prestiti di importo inferiore al milione (3,96%) e quelli sotto i 250mila euro (4,54%), sicuramente più indicativi per le Pmi, il solco è addirittura più netto.

Per le aziende italiane qualche risparmio però ci sarebbe: ipotizzando una dinamica dei prestiti simile a quella recente (dal luglio 2013 al giugno 2014 in Italia sono stati erogati nuovi finanziamenti per quasi 385 miliardi) le T-Ltro targate Bce potrebbero comportare una minor spesa complessiva in termini di interessi compresa fra 770 milioni e 1,54 miliardi di euro. Benefici che sarebbero ovviamente più limitati sul complesso dei prestiti inferiore al milione di euro (477 milioni) e ai 250mila euro (264 milioni): non sarà forse la panacea che molti si auguravano dalle T-Ltro, ma si tratta pur sempre di un passo avanti.

Ecco le 327 PMI italiane eccellenti

Ecco le 327 PMI italiane eccellenti

Manuel FollisMilano Finanza

Sempre concentrate al Nord, anche se il Nord-est sta dimostrando qualche segnale di sofferenza (come il Sud Italia) e sempre più orientate all’internazionalizzazione. È la fotografia delle Pmi eccellenti che emerge dall’osservatorio 2014 curato come ogni anno da Global Strategy e presentato ieri in Borsa Italiana. All’interno di un universo di circa 8mila Pmi, Global Strategy ha selezionato 327 aziende eccellenti, cioè con tassi di crescita, redditività e solidità superiori rispetto al proprio settore di riferimento. Si tratta di società che crescono a un ritmo 3 volte superiore alla media del settore e che a dispetto della crisi hanno raddoppiato il reddito operativo negli ultimi 5 anni rafforzando la solidità finanziaria. I dati dell’osservatorio sono stati presentati in occasione del convegno “Pmi italiane fra tradizione e innovazione digitale”, organizzato in collaborazione con Borsa Italiana e con il supporto di Schroders Wealth Management e dello Studio Legale Associato Negri-Clementi.

Essendo ormai giunto alla sesta edizione, quest’anno l’osservatorio ha anche operato per la prima volta alcune valutazioni su cosa per le aziende era importante prima e dopo la crisi. Dall’indagine qualitativa della ricerca, che si basa su interviste, è emerso che prima della crisi la «qualità del prodotto» era considerata il fattore più importante del successo di un’impresa (72%), seguito da «reputazione dell’azienda e del marchio» (54%) e da «innovazione del prodotto» (52%). Post crisi la «qualità del prodotto» resta al primo posto e sale addirittura al 91%; quindi è considerata ormai da tutte le aziende il principale fattore di successo. Al secondo posto è salita la «capacità di risposta al mercato/cliente» (42%) mentre la «reputazione dell’azienda» dopo la crisi è scesa all’ultimo gradino (29%).

Dal punto di vista quantitativo, invece, è evidente quanto il lungo periodo di difficoltà dell’economia abbia pesato sulle società. Pre-crisi la crescita media del fatturato delle Pmi eccellenti era doppia rispetto a quella del mercato nel suo complesso mente oggi è tre volte tanto. Quanto invece all’incremento medio del risultato operativo, il valore per le Pmi eccellenti si è praticamente dimezzato, mentre nel loro complesso le società sono passate da una piccola crescita a un decremento. «La ricerca che conduciamo fin dal 2009 evidenzia come in Italia esista un gruppo di aziende che, nonostante operi in settori maturi, abbia scelto da tempo di puntare su innovazione e internazionalizzazione, riuscendo a contrastare gli effetti della crisi grazie alla tenacia degli imprenditori e alla sorprendente flessibilità e dinamicità nel riadattare le strategie operative per raggiungere i propri obiettivi», ha spiegato Antonella Negri-Clementi, presidente e amministratore delegato di Global Strategy. Parte del convegno è stata dedicata alla digitalizzazione delle imprese, la maggior parte delle quali si dichiara pronta a investire su piattaforme digitali il 15% delle risorse destinate a ricerca e sviluppo nei prossimi tre anni. La sensazione delle aziende del settore digitale (come ad esempio Google) è che in realtà la Pmi quando parlano di investimenti in digitale siano ancora legate a vecchi paradigmi (come ad esempio il sito web o l’utilizzo dei social media) e non a innovativi modelli di business.

Le “piccole” che battono la crisi

Le “piccole” che battono la crisi

Andrea Biondi Il Sole 24 Ore

La Nuceria Adesivi (55 milioni di euro ), nata a metà degli anni 80 con sede a Nocera Superiore e attiva nel settore delle etichette e dei nastri adesivi è una delle aziende (che si contano sulle dita di una mano) autorizzate a produrre i bollini ottici farmaceutici. «Abbiamo creato un software che ci permette di dialogare in real time con i programmi dei clienti, che in genere sono multinazionali della cosmesi e della detergenza», spiega il direttore generale Guido Iannone, 30 anni. 

Ma fra chi ha legato il suo core business a innovazione e digitale un testimonial d’eccellenza è anche la Sigma, attiva nell’automazione industriale, 44 milioni di ricavi, con sede ad Altidona (Fermo), di cui tutti hanno inconsapevolmente contezza quando si avvicinano a bancomat o biglietterie self service (che produce). Altro caso è quello di EidosMedia, numero uno mondiale nel settore dei sistemi editoriali, con sede a Milano che ha fra i maggiori clienti «anche Newscorp », dice Gabriella Franzini, amministratore delegato di questa azienda da 40 milioni di euro di fatturato e 220 dipendenti «a oggi». 
Sono solo tre dei casi di cui si è parlato ieri a Milano durante la presentazione dei risultati dell’Osservatorio Pmi di Global Strategy. “Pmi italiane fra tradizione e innovazione” era il titolo del convegno – organizzato a Milano in collaborazione con Borsa italiana, con il supporto di Schroeders Wealth management e dello studio Negri-Clementi e cui hanno partecipato anche Fabio Vaccarono (Google Italia) e Alberto Baban (Piccola industria di Confindustria) – durante il quale sono stati presentati i dati. «Siamo onorati – dichiara Ugo Formenton, Head of Business Development di Schroders Wealth Management – di sostenere questa iniziativa che mettere in luce le storie di imprenditori che, nonostante le difficoltà, hanno saputo dimostrare di eccellere». La ricerca , spiega Antonella Negri Clementi, presidente e ad di Global Strategy «evidenzia come in Italia esista un gruppo di aziende che, nonostante operi in settori maturi, ha scelto di puntare su innovazione e internazionalizzazione». 
A questa passerella di positività hanno contribuito anche i casi di Elemaster (apparati elettronici), Foscarini (apparecchiature per illuminazione di design), Fabiana Filippi (tessile), per quelle che lo studio ha catalogato come Pmi “eccellenti”: aziende che crescono a un ritmo 3 volte superiore alla media del settore e a dispetto della crisi hanno raddoppiato il loro reddito operativo negli ultimi 5 anni, rafforzando la propria solidità solidità finanziaria, all’interno di un universo di 8mila aziende con fatturaro fra 20 e 250 milioni di euro. 
Nel dettaglio, si tratta di 327 Pmi “eroiche” con tassi di crescita medi annui del fatturato tre volte superiori rispetto all’universo di riferimento (+10% contro +3%) e un reddito operativo che è cresciuto nel periodo 2008-2012 del 19% medio annuo (contro una diminuzione media del 3% da parte delle Pmi “normali”). Si tratta di imprese che operano in settori maturi (oltre il 30% appartiene alla meccanica e alla metallurgia), anche se si assiste a una progressiva affermazione di quelle di servizi principalmente attive nello sviluppo software. In secondo luogo, tre su quattro sono situate nel Nord Italia (73%); solo il 7% in Sud e Isole. E ancora, si tratta di aziende dalla forte vocazione globale: realizzano infatti quasi il 40% del loro fatturato all’estero, e prevedono di incrementare tale quota nei prossimi tre anni mediamente del 9 per cento
L’ospite d’onore ieri è stata però soprattutto l’innovazione digitale. In effetti, le Pmi eccellenti sono fortemente orientate all’innovazione: investono ben il 5% del loro fatturato in ricerca e sviluppo. In particolare, è interessante notare che la maggior parte di questo budget (53%) è ancora destinato al miglioramento del prodotto, mentre gli investimenti in digitalizzazione sono pari al 15 per cento. Il 73% degli imprenditori ritiene poi che l’uso e lo sviluppo di piattaforme digitali potrebbe rappresentare un valido sviluppo alla crescita internazionale.
Se queste sono opportunità da cogliere, ancora ieri da Bruxelles, con un report della commissione Ue, arrivava un richiamo “sulla terra”. Solo per dare un numero: la copertura della banda larga fissa da 144 Kbps in Italia è del 98,5% (media Ue: 97,1%), ma la copertura Nga è del 20,8% (pur se in crescita del 48%), contro una media Ue del 61,8 per cento.

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Semplificazioni, meno fisco vuol dire più capitale

Isidoro Trovato – Corriere economia

Tanto tuonò che non piovve. La riforma del regime fiscale per le imprese è uno di quegli argomenti “evergreen” nel dibattito politico economico italiano. Stavolta però il traguardo potrebbe persino essere alla portata anche se la tanto attesa legge dell’11 marzo 2014 sulla semplificazione, pur contenendo indirizzi importanti, costituisce un’opera di «manutenzione straordinaria» dell’attuale sistema e risponde, secondo il mondo produttivo, solo in parte alla necessità di una riforma realmente sistematica e organica. Serve qualcosa di più specifico e una riforma fiscale davvero incisiva per il futuro delle imprese.

Da un’elaborazione dell’ufficio studi e della direzione politiche fiscali di Confartigianato, infatti, emerge che nell’arco delle ultime due legislature, tra il 29 aprile 2008 e il 28 marzo 2014, sono state approvate 629 norme fiscali, di cui 72 semplificano (11,4% del totale), 168 sono potenzialmente neutre dal punto di vista dell’impatto burocratico (26,7%) e 389 presentano un impatto burocratico sulle imprese (61,8%): ogni tre norme fiscali promulgate, due aumentano i costi burocratici per le imprese. La politica di semplificazione appare come una tela di Penelope se per una norma che semplifica ne vengono emanate 5,4 che hanno un impatto burocratico negativo sulle imprese. È del tutto evidente la necessità di procedere speditamente a una radicale semplificazione degli adempimenti tributari che gravano sulle imprese e sui cittadini. Per una reale semplificazione, però, è necessario non solo incidere sui singoli adempimenti ma anche rivedere le modalità con cui si giunge alla determinazione del reddito da tassare. Occorrono altri interventi, secondo gli artigiani, ma soprattutto bisogna metter mano ai regimi contabili delle imprese minori che sono la stragrande maggioranza del mondo produttivo: basti pensare che il 57,1% delle aziende applica un regime di contabilità semplificata mentre il 42,9% è in contabilità ordinaria. Circa 9 persone fisiche su 10 e 6 società di persone su 10 applicano la contabilità semplificata mentre le società di capitali sono interamente comprese nella contabilità ordinaria (obbligatoria).

Obiettivo primario, dunque, per le aziende è quello di armonizzare le aliquote. Ma con obiettivi e gradualità diverse. «In ordine di priorità – spiega Cesare Fumagalli, segretario generale di Confartigianato – bisogna introdurre un regime forfetario da riservare alle aziende di ridotte dimensioni (quelle che hanno ricavi tra 30 e 40mila euro) e con limitata struttura imprenditoriale che preveda pochissimi adempimenti contabili (solo conservazione dei documenti). Servirà poi modificare l’attuale regime semplificato per permettere la determinazione del reddito secondo il criterio della cassa. Tel regime favorirebbe anche quello dell’Iva per cassa, oggi poco utilizzato, in quanto i contribuenti per determinare il reddito restano costretti al rispetto del criterio di competenza economica. Avevamo salutato con grande entusiasmo quel provvedimento ma i legacci burocratici lo hanno reso impraticabile e solo così tornerebbe a essere utile. Altro provvedimento di grande efficacia è quello che prevede una specifica azione per favorire le start-up d’impresa riducendo il carico fiscale per i primi anni dell’avvio dell’attività». Ulteriore obiettivo è quello di uniformare il reddito d’imposta e favorire la capitalizzazione delle aziende. «La nostra proposta – spiega Fumagalli – prevede di mantenere l’imposta stabile per chi lascia il reddito nella sua impresa. In pratica, chi reinveste in azienda non sconterà più la tassazione progressiva bensì quella proporzionale nella misura del 27,5%. Si uniformerebbero le imprese indipendentemente dalla forma giuridica e si favorirebbe la capitalizzazione di imprese individuali e società di persone».

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

Piccole imprese di Spagna e Italia le più colpite dal credit crunch

La Stampa

Sono le Pmi di Italia e Spagna le grandi vittime della crisi del debito sovrano che si è abbattuta sull’Europa negli ultimi quattro anni. Lo rivela, o meglio lo conferma, uno studio pubblicato dalla Bce nel suo bollettino mensile di luglio. «L’impatto della crisi del debito sovrano sui finanziamenti e sui bilanci della banche – osserva l’Eurotower – ha probabilmente avuto conseguenze più pesanti sulle aziende più piccole e che dipendono maggiormente dai prestiti bancari e sulla loro attività reale, come mostrato anche dai primi studi empirici effettuati su dati italiani». L’andamento disomogeneo in Europa dei tassi sui prestiti alle imprese non finanziarie, «soprattutto a partire dal 2011, suggerisce considerevoli differenze nei costi di finanziamento delle piccole imprese localizzate in Francia e Germania da una parte, e in Italia e Spagna dall’altra. Simili disparità riflettono probabilmente sia il contesto economico e il rischio sovrano associato sia i rispettivi costi della raccolta delle banche nazionali», spiega la Bce. In particolare, «tra le aziende spagnole e italiane non solo il livello assoluto dei tassi bancari era sostanzialmente più elevato rispetto alle imprese francesi e tedesche ma anche i maggiori premi versati alle Pmi» in termini di interessi bancari «rispetto alle grandi aziende sono aumentati considerevolmente nel 2011 e nel 2012».

La forbice tra piccole e grandi aziende si spiega in due modi: le Pmi si finanziano quasi esclusivamente attraverso prestiti bancari e l’assenza di canali di finanziamento alternativi le rende più vulnerabili; le piccole aziende dipendono dalla domanda interna più delle grandi (che invece riescono a spalmare il rischio su più mercati) e dunque i loro bilanci hanno sofferto maggiormente all’apice della crisi, soprattutto in Paesi come Italia e Spagna. Le Pmi italiane e spagnole insomma si trovano a dover fronteggiare una situazione molto più complicata delle loro concorrenti tedesche e francesi. Oggi per ottenere un credito a breve termine (inferiore a un anno) per un importo superiore al milione di euro una Pmi spagnola paga un tasso d’interesse medio del 5%, una italiana del 4,3%, una tedesca del 3% e una francese del 2,3% circa. La situazione è migliorata solo in minima parte nell’ultimo anno. Il tutto in un contesto congiunturale che stenta a migliorare. I dati negativi della produzione industriale in Italia, Francia e Germania a maggio fanno pensare a una frenata del Pil nell’area euro nel secondo trimestre dopo il già non esaltante +0,2% del primo trimestre. «I rischi geopolitici nonché l’andamento dei Paesi emergenti e nei mercati finanziari mondiali – afferma la Bce – potrebbero influenzare negativamente la condizioni economiche, anche tramite effetti sui prezzi dell’energia e sulla domanda mondiale di beni e servizi provenienti dall’area euro». Secondo l’Eurotower «un altro rischio è connesso a riforme strutturali insufficienti nei Paesi dell’area».