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Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

Debiti Pa, Brunetta (FI): Renzi inaffidabile, deve ancora pagare 61,1 mld

“Nonostante i reiterati annunci del premier Matteo Renzi, in questi ultimi due anni la Pubblica amministrazione non ha ridotto i lunghissimi tempi di pagamento di beni e servizi, mantenendo sostanzialmente invariato lo stock di debito commerciale contratto nei confronti delle imprese fornitrici. Secondo la stima di ImpresaLavoro, su dati Intrum Justitia, lo scorso 31 dicembre questo ammontava infatti a circa 61,1 miliardi di euro (in leggero calo rispetto ai 67,1 miliardi del 2014). Questo assurdo ritardo del governo nel pagamento di questi debiti nel 2015 è costato alle imprese italiane la cifra di 5,4 miliardi (in leggero calo rispetto ai 6,1 miliardi del 2014). Questa stima è stata effettuata prendendo come riferimento l’ammontare complessivo dei debiti della nostra PA, l’andamento della spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi (così come certificato da Eurostat) e il costo medio del capitale (pari all’8,84% su base annua) che le imprese hanno dovuto sostenere per far fronte al relativo fabbisogno finanziario generato dai mancati pagamenti”. Lo afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati di Forza Italia. “Renzi aveva promesso – prosegue – ormai più di due anni fa, che i debiti della Pubblica amministrazione nei confronti delle imprese sarebbero stati azzerati in pochi mesi, promettendo a Bruno Vespa, durante una puntata di ‘Porta a Porta’, che se non avesse mantenuto l’impegno entro il 21 settembre (2014) sarebbe andato in pellegrinaggio al santuario di Monte Senario. Come da copione: impegno non mantenuto, soldi non restituiti alle imprese, debito non pagato. I numeri di ImpresaLavoro confermano che il premier è stato ancora una volta sbugiardato dai fatti. Altra balla da inserire nello speciale palmares di un presidente del Consiglio inaffidabile”.

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Brunetta (Fi): “Con la Merkel, Renzi ha perso un’altra occasione”

Renato Brunetta (Fi)*

“I quotidiani sottolineano tutti una distensione nei rapporti tra Merkel e Renzi, ma su due punti è chiaro che la Germania non ci sente: gli eurobond per fermare l’immigrazione e le banche, con la evidente differenza di trattamento tra le regole imposte all’Italia e quelle agli istituti tedeschi”. Lo scrive su Facebook Renato Brunetta, capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati.

“Renzi ha perso una eccellente occasione per levarsi di dosso, con la doverosa gentilezza dell’ospite, la livrea di vassallo sia pure lievemente dissidente e un po’ ribelle della Germania, ridando un po’ di orgoglio patriottico all’Italia. Una dichiarazione comune sull’impegno per la Libia, con una messa in riga di chi fa i suoi giochetti con le varie fazioni, sarebbe stata bene accetta. Oggi noi appaiamo insieme alla Germania gli alleati di Turchia-Tripoli-Fratelli Musulmani contro Francia e Russia che appoggiano l’Egitto-Tobruk. (America di Obama con molti piedi e molte scarpe)”, conclude Brunetta.

*Capogruppo di Forza Italia alla Camera dei deputati

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Popolari, quei tre punti oscuri sul gioco di mano del governo

Renato Brunetta – Il Giornale

Jobs Act e investment compact : siamo tornati all’inglesorum di palazzo Chigi, definito da Guido Rossi ai tempi di D’Alema come «L’unica merchant bank in cui non si parla inglese». Oggi parliamo di Investment compact, balzato agli onori della cronaca per il pasticcio della riforma delle banche popolari. Le «questioni», di metodo e di merito, aperte sono diverse: 1) il ricorso, da parte del governo, allo strumento del decreto legge; 2) il rischio di insider trading e le altre indagini in corso 3) il merito della norma.

Il ricorso al decreto legge
La vicenda del decreto di riforma delle banche popolari rappresenta o rischia di rappresentare una delle pagine più oscure del governo Renzi. È di venerdì 16 gennaio, a chiusura dei mercati, la prima agenzia di stampa che annuncia l’imminente provvedimento. E la prima informazione ufficiale si riferisce, come affermato dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta in Parlamento, a una comunicazione che il presidente del Consiglio fa al suo partito, nel corso della riunione della direzione del Pd alle 17.30. Appare già strano che su una materia tanto sensibile un presidente del Consiglio decida di anticipare i contenuti e l’uso del decreto legge in una riunione di un club privato. Tanto più che inizialmente la riforma doveva essere prevista all’interno del disegno di legge sulla concorrenza ma, invece, improvvisamente, è diventata particolarmente urgente. Il 20 gennaio il consiglio dei ministri dà via libera al decreto che, effettivamente, contiene la norma che impone alle banche popolari con attivo superiore a 8 miliardi di euro la trasformazione in società per azioni. Il governo, quindi, ha avuto la «sfrontatezza» di imporre per decreto una rivoluzione nella governance di un sistema che, negli anni della crisi e del credit crunch , è stato l’unico a ridare fiducia e credito a famiglie e imprese. Imposizione, quella del governo, priva di presupposti di necessità e urgenza, fondamentali, pena l’incostituzionalità del provvedimento, per poter emanare un decreto legge.

Il rischio di insider trading
Un altro aspetto della vicenda sono gli effetti che la notizia della riforma ha avuto sui mercati finanziari, con rialzi a due cifre di tutte le banche coinvolte. Non può, quindi, passare in secondo piano il dubbio di azioni promosse, in maniera consapevole e attenta, a seguito, evidentemente, dell’entrata in possesso di informazioni privilegiate. Ciò che si prefigura davanti ai nostri occhi e agli occhi dei cittadini è, pertanto, l’immagine di un governo che si presta, di fatto, a varie mani: mani che prendono informazioni, mani che cambiano testi all’ultimo momento, mani che scrivono all’ultimo momento, mani invisibili, mani di fata che, in realtà, hanno un ruolo chiave nell’attività dell’esecutivo.

Il merito della norma
Come sottolineato più volte dal governo, anche Fondo monetario internazionale, Commissione europea e Banca d’Italia hanno segnalato i rischi che il mantenimento della forma cooperativa determina per le banche popolari maggiori, quali: 1) la scarsa partecipazione dei soci in assemblea; 2) gli scarsi incentivi al controllo costante sugli amministratori; 3) la difficoltà di reperire nuovo capitale sul mercato e, quindi, di assicurare la sussistenza dei fondi che potrebbero essere necessari per esigenze di rafforzamento patrimoniale. In particolare, in un working paper dal titolo «Reforming the Corporate Governance of Italian Banks» , il Fondo Monetario Internazionale sosteneva la necessità per le banche popolari più grandi di trasformarsi in società per azioni. Le banche popolari nascono con un raggio di azione limitato ad aree geografiche definite, ma oggi la loro struttura attuale pare, agli occhi del Fmi, inadeguata, in quanto questo tipo di istituto di credito opera a livello nazionale e internazionale, e alcune di esse sono addirittura quotate in Borsa. Secondo il paper del Fondo, la riforma delle banche popolari migliorerebbe la governance di tali istituti.

L’anomalia della soglia degli 8 miliardi di attivo
Ma attenzione, né il Fondo monetario internazionale né la Banca d’Italia individuavano una soglia oltre la quale far intervenire la riforma. Ci si limitava a riferirsi agli istituti di maggiori dimensioni o quotati in Borsa. Quanto all’idoneità della soglia dimensionale prescelta, individuata dal provvedimento normativo in 8 miliardi di euro di totale attivo, il governo giustifica la sua scelta dimensionale come «equidistante tra il gruppo delle banche popolari quotate e il gruppo delle banche popolari più piccole». Tuttavia, tale soglia non trova riscontro in alcuna normativa esistente, primaria o secondaria, nazionale o internazionale. Sarebbe ben più fondato restringere l’ambito di applicazione della norma solo alle banche popolari quotate ed elevare la soglia a 30 miliardi. Una ulteriore soluzione alternativa potrebbe essere anche quella di prevedere una soglia di 20 miliardi di euro per le banche che, a decorrere dall’anno 2014, hanno effettuato acquisizioni e/o fusioni. Inoltre, sempre per queste banche, andrebbe concesso un termine più ampio per adeguarsi alla nuova disciplina, elevando i diciotto mesi attualmente previsti dalla normativa transitoria a quattro anni. Sul tema delle popolari e sul tema delle riforme, in Europa si discutono dossier da almeno dieci anni. E il tema non è solo italiano, anzi. Non riguarda neanche tanto l’area sud dell’Europa, ma, al contrario, soprattutto l’area nord dell’Europa: quella tedesca e olandese. Il fatto che se ne discuta da almeno dieci anni fa riflettere del perché non si sia ancora deciso in maniera drastica, tranchant, nonostante gli stimoli, gli incentivi, le richieste da parte dell’Unione europea nel merito. Quindi, nulla quaestio sul tema, sul merito del tema, che cioè debolezza, autoreferenzialità, inefficienza siano elementi da trattare e da superare. Il problema è il modo. Noi chiediamo al governo di fare chiarezza in merito alle ombre dell’ insider trading che circondano le vicende che hanno portato all’emanazione del decreto legge di riforma delle banche popolari. Vanno inoltre chiariti quei passaggi che hanno indotto il governo a decidere di procedere su un tema così delicato e complesso con lo strumento del decreto legge, tra l’altro proprio in un lasso di tempo in cui la presidenza della Repubblica era vacante.

In sintesi, il Paese non solo vuole chiarezza, ma anche una buona riforma che non distrugga o porti alla svendita di una cultura economica e finanziaria che è patrimonio del paese. La chiarezza non è certamente venuta da Matteo Renzi, nella sua ultima performance a Porta a Porta , quando si è limitato a dire alcune ovvietà (chi deve pagare paghi, chi è responsabile risponda, ecc.: concetti più degni di Chance, il giardiniere dello strepitoso Peter Sellers). Caro Renzi-Chance, la moglie di Cesare non solo deve essere onesta, ma anche apparire tale.

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Speculazioni, rumors e sospetti: c’è del marcio nel caso Etruria

Renato Brunetta – Il Giornale

C’è del marcio in Etruria. Vorrei fare un pezzo filosofico, ma che filosofia si può fare davanti a un furto con destrezza? Il problema è capire chi ha fornito il trapano per aprire la cassaforte. Costoro, infatti, hanno utilizzato conoscenze, dirette o indirette, informazioni chirurgiche relative al decreto sulle Popolari da trasformare in Spa, per comprare e vendere azioni. Il tutto molto, ma molto vicino a persone, ambienti, stanze di Palazzo Chigi. Insomma rischia di venire giù Roma, come accadde per lo scandalo Banca Romana.

Stavolta ci troviamo di fronte a piccole banche, una delle quali in gravissime difficoltà, al punto che nei giorni scorsi è stata commissariata da Banca d’Italia. Non prima però che il valore di ogni singola azione sia balzato in alto: +62,17% nella sola settimana di borsa tra il 19 e il 23 gennaio 2015, quella del varo del decreto del governo, per la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio. Il cui vicepresidente è il padre del ministro Maria Elena Boschi, anch’essa azionista della banca (e il fratello ne è dipendente). Il più attivo in questo fenomeno di spostamenti azionari è stato il fondo di Davide Serra da Londra, punto di riferimento e consigliere del premier in materia di finanza. Il paragone con Banca Romana ci sta, fatta salva la diversa statura del personaggio Giolitti.

Che il tema fosse «caldo» si è capito fin da subito. Ma la gravità sta venendo fuori giorno dopo giorno. A far deflagrare la già scottante miccia è stata l’approfondita e dettagliata audizione di mercoledì scorso, in commissione Finanze della Camera, del presidente della Consob, Giuseppe Vegas, nell’ambito della quale è stato messo nero su bianco il sospetto di insider trading , anche grazie a una ricostruzione puntuale, attraverso notizie di stampa e tweet (uniche informazioni disponibili al pubblico, fatto già di per sé anomalo, data la delicatezza dell’argomento) dei «movimenti» del governo e degli amici del governo dal 3 gennaio 2015 al 9 febbraio 2015, dell’andamento in borsa nonché, con particolare riferimento alla Banca Etruria, degli accadimenti non del tutto trasparenti verificatisi tra l’11 agosto 2014 e il 9 febbraio 2015. È così che la gravità di quanto stava avvenendo è balzata agli occhi della Banca d’Italia, che ha commissariato la Banca dell’Etruria; della procura di Roma, che ha subito aperto un’indagine; e della Guardia di finanza, braccio operativo di entrambi questi ultimi.

Al di là delle plusvalenze effettive o potenziali di quei geni (si fa per dire) che hanno comprato azioni delle Popolari prima del decreto per poi rivenderle a prezzi ben più alti, quel che è grave è che, a quanto pare, potrebbero essere stati i membri del governo a comunicare in anticipo ai finanziatori della loro campagna elettorale le imminenti decisioni dell’esecutivo. Così sembra, infatti, che siano andate le cose in quel di Londra, presso gli uffici del Fondo Algebris: all’annuncio da parte del governo, il 16 gennaio 2015, di voler riformare il sistema delle banche popolari, hanno fatto seguito imponenti operazioni di borsa. Tanto per avere un’idea dei numeri: le azioni di Banca Etruria sono aumentate del 62,17% in quattro giorni contro un andamento del comparto bancario dell’8,68%. Al secondo posto il Credito Valtellinese: +30,93%. Quindi tutte le altre 6 banche popolari che nei propositi del governo dovevano rientrare nell’ambito del decreto. Con un’ulteriore stranezza: il requisito dimensionale individuato (un attivo totale pari a 30 miliardi di euro) è stato ridotto a 8. E così sono rientrate Credito Valtellinese, Popolare di Bari e Banca Etruria, che interessano all’esecutivo.

La cosa più impressionante è vedere i grafici che hanno accompagnato la relazione di Giuseppe Vegas. Tre giorni di fuoco con utili da capogiro. Potenza dell’intuito: si è giustificato Davide Serra, con un susseguirsi di tweet e comunicati stampa. «Algebris Investiments ha investito fin dalla sua nascita, nel 2006, nel settore bancario e assicurativo italiano». Quindi nessun possesso di informazioni privilegiate. Se poi il valore delle azioni è lievitato è solo una coincidenza del destino. Come semplice coincidenza è il fatto che la Banca popolare dell’Etruria e del Lazio abbia nel board, con la carica di vicepresidente, Pier Luigi Boschi, il padre del ministro Maria Elena. Anch’essa azionista dell’istituto di credito caro, come notano i maligni, a Licio Gelli. Conti che in qualche modo tornano, visti i vecchi gossip sulle frequentazioni di famiglia dei nostri attuali governanti fiorentini.

Ed è sempre un caso che sia stata questa banca a registrare, tra tutte le popolari coinvolte nell’affaire , gli incrementi maggiori. Una banca talmente solida (siamo ironici) da giustificare, prima del rally di borsa, ben due preoccupate ispezioni della Banca d’Italia, seguite dal commissariamento. E da suffragare l’ipotesi di «ostacolo alla vigilanza» e il timore di «operazioni occulte» su cui sta indagando la procura di Roma, e che si aggiungono ai sospetti di insider trading. Ancora una volta, come accaduto con la merchant bank che non parlava inglese, per ricordare come Guido Rossi qualificò la presidenza di Massimo D’Alema a palazzo Chigi, si è di fronte al solito gioco. Allora, tuttavia, c’erano «capitani coraggiosi» che stavano scalando il cielo, in formato Telecom. Oggi siamo, invece, di fronte a un pugno di speculatori che entrano in borsa, acquistano tutto quello che c’è da acquistare e dopo un paio di giorni lo rivendono, portandosi a casa un malloppo fatto di plusvalenze milionarie. Non è una bella immagine per il Pd, che una volta era il partito delle mani pulite, pronto a denunciare conflitti d’interesse e ipotetici falsi di bilancio.

Questa volta, tuttavia, l’episodio è ben più grave. Ricorda da vicino un vecchio scandalo della storia d’Italia: quello della Banca romana. La grande speculazione edilizia che portò alla nascita del quartiere di Prati a Roma. Finanziata con l’emissione arbitraria di carta moneta, e la copertura politica di Palazzo Chigi. Giovanni Giolitti da un lato e Francesco Crispi dall’altro: accusati da Bernardo Tanlongo, che della ex Banca pontificia era il governatore, di aver percepito mazzette e cointeressenze nel gioco della grande speculazione fondiaria e di essere quindi i corresponsabili del successivo fallimento dell’istituto di credito. La sede della presidenza del Consiglio, che allora stava al Viminale, era divenuta un centro di affarismo con le prime riforme volute da Agostino Depretis, il grande trasformista. Riforme che avevano portato all’addomesticamento del Parlamento, i cui poteri furono depotenziati per favorire il formarsi di maggioranze occasionali continuamente addomesticate dal grande domatore.

Episodi che dovrebbero far riflettere, nel momento in cui si fanno più o meno le stesse cose, con riforme ritagliate sugli interessi terreni dell’attuale premier. Sul decreto banche popolari la sua, oggi, è una posizione lose-lose : portarlo avanti aggrava l’accusa di «connivenza» del governo con chi ha speculato. Ritirarlo vorrebbe dire per Renzi ammettere le responsabilità del suo esecutivo. Cui non possono che seguire dimissioni immediate. Altro che spread, che nel 2011 ha mandato a casa, con l’imbroglio, l’ultimo governo legittimamente votato dai cittadini. Dalle carte del processo di Trani sulla manipolazione del mercato avvenuta in quell’estate-autunno 2011 da parte delle agenzie di rating sta emergendo che il danno erariale che ne è derivato ammonta a 120 miliardi di euro. Tanto ci è costato il complotto. Non vorremmo che al conto già salato che i cittadini italiani devono pagare, si aggiungesse anche il gravissimo obbrobrio delle banche popolari. Il governo ritiri il decreto, e il premier si faccia carico in prima persona dello scotto dei suoi errori e della sua spocchia. Quando esagerano, le volpi finiscono in pellicceria, direbbe l’Amleto dei giorni nostri.

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Ecco come uscire dall’euro senza far scoppiare l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Yanis Varoufakis. Chi è costui? A volte bastano poche parole, per capire chi si ha di fronte. E la descrizione di se stesso fatta nel suo profilo Twitter ci dice chi è il nuovo ministro delle Finanze greco: «Economista, ho scritto testi accademici per anni senza che nessuno si accorgesse di me, fino a che non sono stato spinto nella scena pubblica dall’incapacità dell’Europa di gestire una crisi inevitabile». E noi diciamo, sempre con poche parole: per salvare la Grecia servono 10-15 miliardi. Così come ne bastavano 50 nel 2010, e la storia avrebbe avuto un corso diverso. Ma oggi gli effetti di scelte sbagliate da parte dell’Europa potrebbero avere effetti ancor peggiori di quelli che abbiamo visto negli anni della crisi, perché ai problemi economici e finanziari si aggiungono possibili guerre molto vicine a noi, dall’Ucraina alla Serbia, fino alla minaccia dell’Isis.

Oggi il nuovo governo greco illustrerà il suo programma al Parlamento. L’Europa, ancora tedesca, chiede che sia diverso da quello con cui Tsipras ha vinto le ultime elezioni. Come può un premier appena eletto seguire un programma diverso? Da quello che Tsipras dirà oggi dipenderanno le decisioni dell’Eurogruppo di martedì e del Consiglio europeo di mercoledì. L’Europa si trova a un punto di svolta. Viva l’euro, viva l’Europa. Ma quella amata dai suoi cittadini, non temuta. Non l’Europa emotiva, della deterrenza, dei drammi (anche solo minacciati) o delle costrizioni ma l’Europa solidale, coesa, unita. Non si pone, almeno per ora, il tema dell’uscita della Grecia dall’euro, ma non per questo non bisogna parlarne né sapere come si fa. Finora ha prevalso la vulgata per cui dall’euro non si può uscire, o salta tutto. Invece basta solo attuare bene la procedura, con i tempi necessari. Senza drammi dalla moneta unica si può uscire. E anche la reazione dei mercati può essere meno dura di quanto si immagini.

Lo prevede l’articolo 50 del Trattato, che rimanda, per la procedura puntuale, all’articolo 218. Una procedura tutta burocratica, di ping pong tra le istituzioni europee, che dura 2 anni. Ma lo Stato che ne fa richiesta è considerato fuori dall’Unione da subito, anche nel periodo in cui la procedura è ancora in corso. Amen. Si può uscire dall’euro restando nell’Unione? La dottrina dice che si può. Ci sono 4 vie alternative: referendum sull’euro; uscita unilaterale mediante modifica dei Trattati; recesso dall’Eurozona in base agli articoli 139 e 140 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (Tfue); recesso dai Trattati europei secondo il Diritto internazionale. Quest’ultima è la strada più facile, e basta addurre come unica motivazione il cambiamento delle condizioni economiche e politiche rispetto al momento in cui il Trattato era stato firmato. La Gran Bretagna non ha l’euro ma ha indetto per il 2017 un referendum per uscire anche dall’Unione. Non è escluso, pertanto: che si possa uscire dall’Unione senza uscire dall’euro; che si possa uscire dall’euro senza uscire dall’Unione; che si possa uscire contemporaneamente dall’Unione e dall’euro. È un atto di sovranità che, conformemente alle proprie regole costituzionali, ciascuno Stato può fare. Senza drammi.

Azzardiamo con qualche perversa malizia un’ipotesi che potrebbe avere più fondamento di quanto sembra. E se Stati con monete diverse dall’euro (si pensi alla Cina, al Giappone, ma soprattutto agli Stati Uniti d’America, in perenne conflitto con la Germania) decidessero di «appoggiare» l’uscita di uno dei paesi dell’Eurozona dalla moneta unica? Chi ci dice che non riuscirebbero a mantenere calmi i mercati? Poniamo, poi, che questo Stato sia la Grecia, presa da noi ad esempio in quanto molto chiacchierata nelle ultime settimane: se Alexis Tsipras e Yanis Varoufakis dimostrano che uscire dall’euro si può, e che in due, tre anni il paese ricomincia a prosperare grazie a una moneta diversa e senza aver subito traumi, che posizione prenderanno i partiti degli altri paesi dell’Eurozona chiamati a votare, magari nel 2018, come l’Italia?

Avevamo accennato ai Trattati. L’articolo 50 del Tfue recita testualmente: «1. Ogni Stato membro può decidere, conformemente alle proprie norme costituzionali, di recedere dall’Unione. 2. Lo Stato membro che decide di recedere notifica tale intenzione al Consiglio europeo. Alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo, l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso, tenendo conto del quadro delle future relazioni con l’Unione. L’accordo è negoziato conformemente all’articolo 218, paragrafo 3 del trattato sul funzionamento dell’Unione europea. Esso è concluso a nome dell’Unione dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. 3. I trattati cessano di essere applicabili allo Stato interessato a decorrere dalla data di entrata in vigore dell’accordo di recesso o, in mancanza di tale accordo, due anni dopo la notifica di cui al paragrafo 2, salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine. 4. Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano. 5. Se lo Stato che ha receduto dall’Unione chiede di aderirvi nuovamente, tale richiesta è oggetto della procedura di cui all’articolo 49».

Chiaro. E l’articolo 218 lo è ancor di più. Ne riportiamo solo stralci: «(…) Il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, definisce le direttive di negoziato, autorizza la firma e conclude gli accordi. (…) La Commissione (…) presenta raccomandazioni al Consiglio, il quale adotta una decisione che autorizza l’avvio dei negoziati e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione. (…) Il Consiglio (…) adotta la decisione di conclusione dell’accordo: a) previa approvazione del Parlamento europeo (…) ovvero b) previa consultazione del Parlamento europeo. (…). Uno Stato membro, il Parlamento europeo, il Consiglio o la Commissione possono domandare il parere della Corte di giustizia circa la compatibilità di un accordo previsto con i trattati. In caso di parere negativo della Corte, l’accordo previsto non può entrare in vigore, salvo modifiche dello stesso o revisione dei trattati».

Ecco come si esce dall’Unione europea e, perché no, dall’euro. È scritto nei Trattati. Basta applicarli, se si vuole. E se si è forti/credibili abbastanza per farlo. La decisione è tutta politica. Quanto alla Grecia, siamo sicuri che tutto questo non accadrà. Il «problema» greco è oggi, ancora una volta, drammatizzato in termini di immagine, ma è contenuto nella sostanza dei numeri. Il punto è uno e uno solo: l’Europa non deve di nuovo sbagliare. Non c’è tempo da perdere. Si affronti la questione, con freddezza, subito. O sfuggirà nuovamente di mano. In questo caso il precedente c’è: a ottobre 2009, quando è emerso il buco dei conti pubblici di Atene sarebbero bastati poco più di 50 miliardi per risolvere l’emergenza. Invece sappiamo tutti com’è andata.

Errare è umano, con quel che segue. L’Europa oggi è a un punto di svolta. Non si può più insistere con la filosofia (sbagliata) dei compiti a casa. L’Europa oggi deve cogliere l’occasione per cambiare se stessa, realizzando quelle riforme da anni ormai annunciate, ma ferme al palo: l’unione economica, l’unione politica, l’unione bancaria e l’unione di bilancio. Argomenti che si trascinano stancamente a causa delle resistenze sempre dei soliti paesi. E deve cambiare la mission della Bce, oggi anch’essa troppo condizionata dagli interessi dei partner più forti (leggi: Bundesbank), affinché diventi una vera banca centrale (che funga, cioè, da prestatore di ultima istanza per gli Stati), al pari di tutte le altre principali banche centrali mondiali. E smettiamola, una volta per tutte, di farci del male.

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Quei bazooka della Bce manomessi dai veti tedeschi

Renato Brunetta – Il Giornale

Finalmente è arrivato il bazooka. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, improbabile Rambo, ha annunciato, infatti, giovedì scorso il lancio di un piano di acquisti di titoli sul mercato secondario da 60 miliardi di euro al mese, a partire da marzo 2015 fino a settembre 2016 (per un totale di circa 1.100 miliardi di euro), salvo continuare se a quella data il tasso di inflazione non avrà raggiunto un livello coerente con l’obiettivo della stabilità dei prezzi (inflazione intorno al 2%).

La strategia per fronteggiare la crisi dell’eurozona adottata dal consiglio direttivo della Bce, presieduto da Mario Draghi è senza dubbio apprezzabile, e vedremo mese dopo mese se l’intervento sarà efficace, le quantità bastevoli, le modalità coerenti. Una sola, amara, riflessione. Se lo stesso sforzo di «acquisto massiccio di titoli» fosse cominciato strategicamente e strutturalmente già nell’estate-autunno del 2011, la storia di questa crisi sarebbe stata diversa.

Fin qui una lettura buonista, e fatta di sole luci, di quanto accaduto. Ma a una lettura più attenta emergono le ombre. Certamente le percentuali di «risk sharing», vale a dire il fatto che il rischio di eventuali perdite sarà per l’80% in capo alle singole banche centrali nazionali, eviteranno che i tedeschi dicano che con i loro soldi si comprano titoli dei Paesi considerati più deboli, ma allo stesso tempo rappresentano una frammentazione della politica monetaria e del sistema finanziario europeo, nonché una sorta di presa di distanze dal debito pubblico dei singoli Stati, e di alcuni in particolare rispetto ad altri. A ciò si aggiunga che la banca centrale nazionale che potrà acquistare il maggior quantitativo di titoli è quella tedesca, vale a dire la banca centrale di quel Paese che meno di tutti ha bisogno che i titoli del proprio debito sovrano vengano acquistati.

Come sempre avvenuto negli anni della crisi, anche in questo caso pensiamo sia stato fatto troppo tardi e troppo poco. E quello che giovedì la Bce ha deciso altro non è che cercare di contrastare con un bazooka da oltre mille miliardi l’effetto nefasto delle misure sangue, sudore e lacrime imposte dal 2008 a oggi ai Paesi dell’eurozona da un’Europa a trazione tedesca. Misure recessive che, oltre all’impatto negativo sulle economie degli Stati e all’allargamento del divario tra Paesi del Nord e del Sud Europa, hanno avuto l’effetto collaterale di blocco della trasmissione della politica monetaria che il presidente della Bce, Mario Draghi, ha cercato di far convergere verso l’impostazione espansiva adottata dalle altre banche centrali mondiali. È così che sono fallite, infatti, le due aste di credito a breve termine al tasso dell’1% alle banche tenutesi il 21 dicembre 2011 e il 29 febbraio 2012 per 1.000 miliardi di euro. Come è fallito il Securities Markets Programme (Smp), vale a dire l’acquisto sul mercato secondario di titoli del debito sovrano dei Paesi dell’area euro sotto attacco speculativo per 213,5 miliardi di euro, di cui circa 103 miliardi di titoli italiani, cominciato a maggio 2010 e terminato a settembre 2012. Lo scorso anno, inoltre, sono state annunciate, da effettuarsi tra giugno 2014 e giugno 2016, otto nuove aste di finanziamento alle banche, simili alle precedenti due del 2011-2012, con una sorta di correzione: gli istituti che prendono in prestito liquidità agevolata dalla Bce devono destinare quelle risorse al credito a famiglie e imprese. Tuttavia, il numero delle banche che ha partecipato al programma si è rivelato fin troppo esiguo, e il totale degli importi assegnati nelle prime due aste è stato pari a 212,4 miliardi di euro: ben inferiore rispetto ai 400 miliardi messi a disposizione dalla Bce. Così come è fallito, infine, ma qui la responsabilità è soprattutto delle istituzioni europee obbedienti ai diktat tedeschi, il Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes).

Negli stessi anni in cui la Bce ha provato ad utilizzare almeno sei strumenti di politica monetaria non convenzionale diversi, sbagliandoli tutti e senza produrre effetti significativi in termini di inflazione (obiettivo che è nel suo mandato) e di crescita dell’economia e dell’occupazione nell’area euro, la Federal Reserve, oltre alla riduzione dei tassi di interesse al minimo storico (0%), ne ha messi in campo solo due: da subito, il Quantitative easing, per 4.500 miliardi di dollari tra novembre 2008 e ottobre 2014; e la cosiddetta «operation twist», vale a dire una operazione di vendita di titoli di Stato a breve termine e contestuale acquisto, per lo stesso ammontare (nel caso di specie: 700 miliardi di dollari), di titoli di Stato a lungo termine.

L’immediatezza, la determinazione strategica, la semplicità, il coraggio e, se vogliamo, la ruvidezza del cow-boy americano ha vinto alla grande rispetto alla timidezza, l’incertezza e gli opportunismi egoistici europei. Nulla di nuovo sotto il sole. Nell’Unione europea, infatti, al contrario di quanto avvenuto negli Usa, la risposta alla crisi della moneta unica è stata sempre insufficiente, tardiva, ma, soprattutto, costosa e, guarda caso, sempre a favore di un unico Stato egemone: la Germania. I risultati sono sotto gli occhi di tutti.

In questo contesto, quella di giovedì è una sorta di «ultima spiaggia». La Bce ha sparato l’ultimo colpo a sua disposizione: dopo non vi saranno ulteriori reti di salvataggio. Tanto più che nelle sue decisioni, Mario Draghi ha preferito il più ampio consenso, cedendo alle pressioni, alla miopia e all’egoismo tedesco e «annacquando» il bazooka, piuttosto che il conflitto, che, al contrario, avrebbe rafforzato la potenza di fuoco della sua nuova, e ultima, arma. Il suo sforzo, inoltre, appare già indebolito dal comportamento post-decisione dei rappresentanti della Bundesbank. È qui il vero problema. Basta con la teoria delle riforme «sangue, sudore e lacrime» di cui avrebbero bisogno gli Stati del Vecchio continente, perché a cambiare, invece, dovrebbe essere prima di tutto la «mission» della Bce e l’architettura istituzionale dell’Unione europea. Finiamola con la retorica dei «compiti a casa».

Di questa complessa situazione occorre tener conto sia al fine di un giudizio sui vari protagonisti della vicenda, sia per individuare i possibili sviluppi. Con ogni probabilità l’euro tenderà a svalutarsi ancora. Le conseguenze per le esportazioni europee in generale, e italiane in particolare, saranno positive. Ma per il resto? Dipenderà dal giudizio comparato dei mercati sulle diverse economie. Se una parte della maggiore liquidità continuerà a defluire verso Wall Street, il resto cercherà i migliori rendimenti europei. Sui mercati vi saranno, pertanto, movimenti al rialzo e al ribasso, con conseguenti perdite o guadagni.

Come reagire di fronte a questi rischi? Cambiare la politica economica dell’Italia, per cambiarla in Europa. In questa corsa contro il tempo occorrerà che l’Italia faccia sul serio per riempire il programma di governo degli adeguati contenuti: a partire dalla riforma fiscale e dal Jobs act, fino a cancellare la suicida politica sulla tassazione degli immobili fin qui adottata. Poche cose, dunque: riduzione delle tasse, in particolare sulla casa; liberalizzazione del mercato del lavoro; riforma della burocrazia; riforma della scuola. Sono obiettivi realistici? Lo vedremo nei prossimi giorni. Draghi-Rambo ha fatto il possibile, ma il rischio che l’Europa si assume nell’immissione di denaro fresco per acquistare titoli di Stato è solo del 20%. Ancora una volta troppo poco e troppo tardi. Prima adotteremo in pieno il modello cow-boy della Federal Reserve, meglio sarà. Altro che bazooka caricato ad acqua.

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Il caos della Legge di Stabilità: ecco perché non funziona nulla

Renato Brunetta – Il Giornale

Cronistoria del grande imbroglio di Matteo Renzi.

Aprile/luglio: in principio fu il Def
Matteo Renzi si era da poco insediato a Palazzo Chigi e l’8 aprile il Consiglio dei ministri deliberava questo strano documento. Le stime sulla crescita del Pil in Italia per il 2015 registravano +0,8% e la cifra veniva definita «estremamente prudente e aderente alla realtà». Lo stesso Def conteneva il rinvio del pareggio di bilancio di un anno, dal 2015 al 2016, giustificato dalla grave recessione economica e dai costi delle riforme strutturali. La Commissione europea fu informata delle intenzioni del governo, che proponeva a Bruxelles un piano di rientro incentrato sugli effetti benefici, in termini di crescita, delle riforme, ai tempi ancora neanche abbozzate (non che ad oggi si siano fatti progressi). La risposta della Commissione arrivò chiara a luglio: nein. E nelle raccomandazioni fu scritto: l’Italia faccia «sforzi aggiuntivi» già nel 2014 per rispettare il Patto di Stabilità, ma soprattutto confermi il raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2015. Prima clamorosa sconfitta del governo Renzi.

Settembre: la nota di aggiornamento al Def
Il governo Renzi non ha dato alcun seguito alle raccomandazioni della Commissione e, anzi, ha rilanciato. Altro che pareggio di bilancio nel 2016: con la nota di aggiornamento al Def l’Italia lo fa slittare di un altro anno, fino al 2017. Inoltre, vengono riviste al ribasso tutte le stime, e la crescita per il 2015 passa dal «prudente» +0,8% a -0,3%. Storicamente gli aggiustamenti non sono mai stati superiori a qualche decimale. Quest’anno di oltre un punto di Pil. Vuol dire che ad aprile i calcoli erano tutti sbagliati. Seconda figuraccia planetaria.

Ottobre: la legge di Stabilità
Dopo l’approvazione della nota di aggiornamento, il governo cambia di nuovo tutto. Il 15 ottobre viene presentata la legge di Stabilità: la manovra, che all’inizio non doveva esserci, poi doveva essere di 10-13 miliardi, poi di 25, lievita fino a 30 e infine arriva a 36 miliardi: 18 miliardi di minori tasse e 18 di maggiori spese. Manovra coperta per 15 miliardi dal solito pozzo senza fondo della spending review; per 3,8 dal recupero dell’evasione fiscale; per 3,6 da un ulteriore aumento della tassazione del risparmio; per 2,6 dalla tassazione giochi, dalla riprogrammazione dei fondi europei e dalla vendita delle frequenze della banda larga; e per i restanti 11 miliardi in deficit.

Ancora ottobre: la variazione della nota
Anche in questo caso delle intenzioni del governo viene informata la Commissione europea che chiede correzioni, possibilmente entro 24 ore. La manovra viene ridimensionata di 4,5 miliardi. E con essa il carattere espansivo. Ancora una volta il governo deve rifare i calcoli. E approva la relazione di variazione della nota di aggiornamento al Def. In poco più di 6 mesi conti rifatti 4 volte. Che credibilità può avere un governo così confusionario? Come pretendiamo che reagiscano i mercati?

Legge di Stabilità: aumentano le tasse
Le misure «espansive» pubblicizzate dal premier sono un bluff e non avranno effetti sull’economia. Come già avvenuto ad aprile con il bonus degli 80 euro. Al contrario, aumenterà la pressione fiscale. Ma questo Renzi non lo dice. La legge di Stabilità ha «gittata» pluriennale, e se le tasse diminuiranno di 18 miliardi nominalmente nel 2015, aumenteranno certamente, di fatto, di 12,4 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Un valore cumulato, in 3 anni, di 51,6 miliardi: più di 3 punti di Pil. Significa che aumenteranno l’Iva fino al 25,5%, benzina e accise. Se a ciò si aggiunge l’aumento della tassazione del risparmio e sulla casa il conto diventa insostenibile. Come faranno i nostri cittadini ad arrivare al 2018? E perché Renzi parla del bonus di 80 euro e dei 18 miliardi di riduzione delle tasse nel 2015 e non dice dell’aumento delle tasse di oltre 50 miliardi dal 2016?

Legge di Stabilità: il taglio dell’Irap lavoro
Di tutto il calderone, due misure della legge di Stabilità andavano bene, ma studiandole, si rivelano anch’esse un imbroglio: il taglio dell’Irap lavoro e la decontribuzione delle nuove assunzioni. La copertura finanziaria per i tagli all’Irap è un aumento dell’aliquota Irap: quella che a maggio era stata ridotta al 3,50%, tornerà al 3,90%. La copertura è stata individuata anche dalla cancellazione di due bonus in vigore: quello che offre alle aziende 12 mesi di tagli sui versamenti contributivi per i contratti di apprendistato prolungati al termine dei tre anni e quello che prevede il taglio del 50% sui contributi per le aziende che assumono lavoratori in disoccupazione da almeno 24 mesi. Al netto della partita di giro i 5 miliardi di sconto Irap si riducono a soli 2,9 miliardi.

Legge di Stabilità: la decontribuzione delle nuove assunzioni
Quanto alla decontribuzione delle nuove assunzioni a tempo indeterminato: considerando lo stanziamento del governo di 1,9 miliardi e il limite di esonero dal pagamento dei contributi pari a 8.060 euro per ogni nuovo assunto, il numero massimo di nuove assunzioni che potranno beneficiare dello sgravio è di 235.732 unità. I contratti a tempo indeterminato attivati nel 2013 sono stati 1.584.516.

Legge di stabilità: bambole, non c’è una lira
I 36 miliardi di minori tasse (18) e maggiori spese (18) della legge di Stabilità daranno origine a mancate entrate o a maggiori spese certe, mentre gran parte delle coperture previste non si realizzeranno. Dei 15 miliardi dalla spending review se ne realizzeranno al massimo 5-6, e per i restanti 10 scatteranno le clausole di salvaguardia; sugli iniziali 11 miliardi in deficit, oggi ridotti a 6, la Commissione europea si pronuncerà a fine novembre e non ne autorizzerà neanche uno; lotta all’evasione fiscale e tassazione giochi registreranno i valori già inseriti nel tendenziale, e non si realizzerà nulla in più di quanto già previsto. Serviranno 20-25 miliardi per finanziare la parte della manovra fatta in deficit o non coperta e scatteranno le clausole di salvaguardia: tagli lineari; aumento di accise; aumento Iva e imposte indirette. La pressione fiscale aumenterà di 1-1,5 punti di Pil, fino a superare il massimo storico del 45%.

Il grande imbroglio
Questa è la realtà nascosta. Con il risultato che, anche dopo le correzioni richieste dall’Ue, i parametri del Patto di Stabilità non saranno comunque rispettati. Il piano di rientro deve essere esteso all’intero triennio e non solo al 2015 come ha fatto il governo. Se si considera il trascinamento sul 2016, infatti, emerge che, a seguito delle correzioni intervenute in termini di deficit strutturale sul 2015 (da -0,9% a -0,6%), tra il 2015 e il 2016 è prevista una riduzione inferiore rispetto allo 0,5% richiesto dai Trattati. Questo non potrà che sollevare ulteriori obiezioni da parte della Commissione europea. In questo contesto, come fa il governo a ostentare sicurezza? È fin troppo facile dedurre che il grande imbroglio della manovra di Renzi avrà effetti nefasti in tema di aspettative dei consumatori, delle famiglie e delle imprese, che non si lasceranno ingannare dall’alleggerimento apparente del prossimo anno, ma guarderanno all’aumento medio complessivo della pressione fiscale. Renzi e compagni hanno creato un imbroglio e l’hanno chiamato stabilità. E i mercati non staranno sereni.

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Ecco le riforme urgenti che il governo non sa fare

Renato Brunetta – Il Giornale

Oggi Renzi è un leader dimezzato. Nel Pd si riconoscono centinaia di migliaia di persone che gridano in piazza slogan terrificanti contro il premier, guidati da leader sindacali e parlamentari militanti nelle sue fila. Come può fare le riforme che la drammatica situazione richiede con assoluta urgenza? Semplicemente, non può. A oggi non ne ha fatta neanche una. Ma questa ambiguità non può durare. L’analisi economico-finanziaria chiede credibilità e forza democratica, che il presidente del Consiglio non ha. Ed è questa la maledizione di Renzi: è leader grazie a un imbroglio e alla pavidità dei suoi compagni di partito. In piazza ormai il re è nudo. È impossibile che un governo sostenuto da un partito diviso a tutto faccia le riforme necessarie per portare l’Italia fuori dalla crisi. E la situazione internazionale rischia di volgere al peggio.

Sul piano politico, l’Europa è assediata da conflitti militari ed economici che minano la sicurezza ed espongono il continente alle possibili scorrerie del terrorismo. La Russia sta vivendo un periodo travagliato. Le vicende ucraine hanno alimentato diffidenze che sembravano appartenere a un lontano passato. L’improvvisa caduta del prezzo del petrolio mina l’economia russa, privandola di quei mezzi finanziari che in questi anni hanno consentito di accelerare il processo di modernizzazione economica e finanziaria, dopo il crollo dell’ancien régime. Un’Europa politicamente divisa e incerta non riesce a coprire quel vuoto che gli avvenimenti appena richiamati rischiano di allargare. E tutto ciò determina una crisi di leadership di cui sarebbe sbagliato non cogliere i pericoli.

Sul piano economico-finanziario si assiste a un rallentamento dell’economia reale e a una forte volatilità dei mercati finanziari, con pesanti ricadute su Borse e spread nei confronti dei paesi dell’area euro più indebitati e a vantaggio dei bund tedeschi. Lo stesso Fondo monetario internazionale è stato costretto a rivedere a ribasso le stime sulla crescita dell’economia mondiale al +3,4 dal 3,7%. Secondo i principali osservatori, al centro delle preoccupazioni dei mercati c’è la forte caduta del prezzo del petrolio e delle altre materie prime; lo spettro della recessione e della deflazione in Europa; la crescita del debito (pubblico e privato) della Cina, pari al 250% del Pil e all’intera ricchezza nazionale, cresciuto del 150% solo negli ultimi 6 anni.

In quest’ultimo anno il prezzo del petrolio è sceso da 115 dollari al barile a 85 (quasi -30%), raggiungendo un valore pari a quello di 4 anni fa ma senza aumento della produzione. La caduta è dovuta a carenza di domanda e ai mancati investimenti, come dimostra il calo della produzione elettrica per usi industriali. Fenomeni analoghi, anche se più contenuti, si registrano in tutti i comparti delle commodities. Negli ultimi 6 mesi il prezzo dei prodotti agricoli è sceso in media del 15,5%. Quello delle materie prime industriali del 3,4%.

Negli Stati Uniti la quasi raggiunta autosufficienza nel settore energetico (lo sfruttamento dello shale-oil negli Usa è cresciuto del 13%, il 56% in più rispetto a quanto cresceva nel 2011) ne riduce la dipendenza dall’estero, con un contenimento delle importazioni e impulsi meno espansivi sul resto dell’economia mondiale. Il break-even point è sotto i 70 dollari al barile (ora siamo a 85 rispetto ai 115 di inizio anno, il prezzo è destinato quindi a scendere ancora).

In Giappone si assiste a un primo rallentamento della crescita (che rimane comunque a +7,1% nel secondo trimestre 2014), determinato dall’aumento delle tasse sui consumi (dal 5% all’8%) che ha determinato una forte contrazione della domanda interna. A influire è stata la motivazione del governo, cioè frenare la crescita del debito pubblico giapponese ormai al 240% del Pil.

In Europa il rallentamento complessivo è noto, ormai siamo considerati l’epicentro della deflazione. La produzione industriale è in caduta ad agosto (-1,4% su base annua). In difficoltà ci sono Francia, Italia e Grecia, stremata dal punto di vista sociale e forse pronta per un cambio di leadership a favore dei movimenti antieuropeisti. Anche la stessa Germania ha rivisto la crescita da +1,8% a +1,2% nel 2014 e da +2% a +1,3% nel 2015. In compenso cresce l’attivo della bilancia commerciale dell’Eurozona: 9.200 miliardi di surplus nell’agosto 2014, contro i 7.300 dell’agosto 2013 per la compressione della domanda interna.

All’origine di queste contraddizioni c’è l’artificioso rialzo dell’euro su dollaro e yen e l’austerity contro cui la politica monetaria voluta da Mario Draghi si sta dimostrando poco efficace. Non ci può essere una politica monetaria espansiva e una di bilancio restrittiva. L’asimmetria determina un corto circuito che accentua il «circolo vizioso» che divide l’Europa e favorisce i paesi più forti, che beneficiano di tassi di interesse più bassi, in un gioco a somma negativa. La carenza di domanda effettiva complessiva impedisce anche alle industrie dei paesi più forti di avere un mercato adeguato alle potenzialità della rispettiva offerta. Sono questi squilibri, assieme ai risultati non del tutto positivi, degli stress test sulle banche dell’Eurozona, che accentuano la deflazione e rischiano di mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’euro.

Per risalire la china è indispensabile che i paesi più deboli diano priorità alle riforme che aumentino la loro produttività e – solo dopo, non prima – pensino a misure di carattere espansivo per il rilancio dell’economia. Mentre i Paesi più forti devono reflazionare le loro economie: in Germania la spesa per infrastrutture può aumentare fino allo 0,7% del Pil nel 2015 e allo 0,5% nel 2016 senza alcuna violazione delle leggi di bilancio. Al tempo stesso servono interventi della Ue sugli investimenti che vadano oltre il piano Juncker, potenziando a tal fine il ruolo della Banca europea degli investimenti, e riflettendo sull’opportunità di emettere Eurobond per trasformare almeno una parte dei debiti sovrani in obbligazioni europee. È quindi doveroso sostenere le misure non convenzionali che il presidente della Bce intenderà adottare.

Le cose da fare sono tante, in Europa e in Italia. Il governo Renzi ha la forza di farle? L’agenda parlamentare è infernale: Jobs Act, già snaturato al Senato; delega fiscale; Italicum; riforma di Senato, Pubblica amministrazione e giustizia. Ha gli strumenti per farlo? Noi pensiamo che un leader dimezzato non riuscirà a portare a compimento nessuna delle promesse fatte all’Italia e all’Europa. Con questa maggioranza ci sarà sempre una mediazione intollerabile tra il liberalismo (a parole) del premier (che mentendo sostiene di aver tagliato le tasse, e l’altra metà del Pd che vuole la patrimoniale, aggredendo i beni del ceto medio. Questo equivoco deve finire.

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Un’altra tempesta perfetta rischia di travolgere l’Europa

Renato Brunetta – Il Giornale

Se anche Paul Krugman fatica a capire come andrà a finire la «faccenda» dell’euro, o meglio, come farà a finire in modo non catastrofico, e si spinge fino a ipotizzare/auspicare l’uscita di paesi fondatori, come la Francia, dall’Unione europea e dalla moneta unica, vuol dire che la situazione è non poco compromessa. Che ormai le abbiamo provate tutte senza risultato, tanto in termini di politica economica quanto in termini di politica monetaria.

In politica economica si è sbagliata la linea: si pensi alla dottrina calvinista dei «compiti a casa» e alle ricette «sangue, sudore e lacrime» imposte ai paesi sotto attacco speculativo dall’Europa a trazione tedesca. Le misure di politica monetaria, invece, si stanno rivelando inefficaci, o meno efficaci del previsto. Siamo nel momento di maggiore debolezza non solo dell’Europa politica, ma anche della Bce, sempre più bloccata dai veti della Bundesbank, di cui gli operatori sono perfettamente a conoscenza e su cui cominciano a speculare. Dopo 2 anni e mezzo di attesa, i mercati dicono «vedo» al «faremo di tutto» di Mario Draghi del luglio 2012. Se la risposta non sarà immediata e forte l’Eurozona avrà finito le munizioni. E, questa volta sì, l’euro potrebbe implodere davvero.

La Germania dovrebbe ridurre il suo surplus della bilancia commerciale, aumentare gli investimenti e la domanda interna, magari facendo un po’ di deficit, ma non lo fa. La Francia dovrebbe dimostrarsi un po’ meno sfrontata nei confronti delle regole europee, indebolite dal suo atteggiamento sprezzante, ma non lo fa. E l’Italia sta perdendo la sua grande occasione di mediazione e sintesi: dimostrare a Germania e Francia che la verità sta nel mezzo, che le regole di bilancio si possono rispettare, utilizzando al meglio i margini di flessibilità già previsti dai Trattati. Basta essere credibili facendo le riforme che generano crescita e garantiscono un percorso di rientro da eventuali lievi discostamenti dai parametri di Maastricht.

Il vuoto di leadership lasciato dall’Italia è stato, quindi, ancora una volta, colmato dalla Germania. Giovedì, parlando davanti al suo Parlamento, Angela Merkel lo ha detto in maniera esplicita: la tempesta sui mercati, innescata mercoledì 15 dalla Grecia, è il risultato del mancato rispetto, da parte di alcuni paesi dell’area euro, delle regole del Patto di stabilità e crescita. La calma in Europa c’è stata solo quando le regole non sono state violate. La Germania è riuscita a coordinare disciplina di bilancio e crescita, e anche gli altri paesi devono fare lo stesso. La Cancelliera si è poi riservata di chiedere un rafforzamento della disciplina di bilancio già al prossimo Consiglio europeo del 23-24 ottobre a Bruxelles. Che significa ricadere nel circolo vizioso.

Ma questa è solo l’interpretazione tedesca della bufera finanziaria. C’è, infatti, chi la vede in maniera opposta: il crollo delle borse e il balzo in alto degli spread della scorsa settimana è dipeso dagli ennesimi dati negativi sull’andamento dell’economia nell’area euro, Germania inclusa. Recessione e deflazione sono il risultato delle politiche economiche sbagliate adottate negli anni della crisi e le istituzioni europee, pur avendo compreso l’errore, non accennano a cambiare rotta, anzi perseverano nel «sangue, sudore e lacrime». In un contesto come questo, in cui le politiche economiche dei paesi dell’Unione sono tutt’altro che coordinate tra loro e in cui, nel vuoto decisionale lasciato dalle istituzioni europee, l’unico paese che prende in mano la situazione è sempre e soltanto la Germania, portando l’Europa sulla strada sbagliata, neanche la Bce è più in grado di assicurare la calma sui mercati. Quello che emerge dalle decisioni di politica monetaria degli ultimi mesi, infatti, è che anche all’interno della Banca centrale europea sta prevalendo la linea tedesca.

L’ultima «zampata» di Mario Draghi risale ormai a quasi sei mesi fa, poi non è più riuscito a incantare i mercati. Proprio perché alla conferenza stampa mirabolante di giugno scorso, in cui annunciava un grande piano di 400 miliardi di finanziamenti agevolati alle banche, da destinare esclusivamente alla concessione di credito a famiglie e imprese, e un grande piano di acquisto di Abs (titoli obbligazionari che «impacchettano» prestiti a privati e imprese), per alleggerire i bilanci delle banche, non è seguito, al contrario di quanto prevedevano tutti, un programma di acquisto di titoli di Stato sul modello del quantitative easing americano, ma una clamorosa marcia indietro.

Se negli ultimi anni gli errori di politica economica sono stati compensati dalle misure di politica monetaria della Bce e l’Europa ha potuto beneficiare di un periodo di calma apparente sui mercati, si pensi al whatever it takes di luglio 2012, oggi la ritrovata incertezza e la debolezza della Bce scoprono la realtà vera: la moneta unica è una costruzione imperfetta e al suo interno i singoli Stati nazionali non sono in grado di camminare con le proprie gambe.

Il momento in cui tutto questo avviene non è dei migliori: il prossimo 26 ottobre saranno resi noti i risultati degli stress test di 124 banche europee (di cui 15 italiane) e i rumors non lasciano prevedere nulla di buono. Pare che già alcune delle vendite di Borsa della scorsa settimana siano state causate dal fatto che si dia quasi per certo il fallimento dei test di molte banche, non solo italiane. Inoltre, il 17 settembre la Fed ha ridotto ulteriormente la sua iniezione mensile di liquidità sui mercati, annunciando che gli acquisti di ottobre, pari 15 miliardi di dollari, potrebbero essere gli ultimi. Con meno soldi in circolazione le scelte di portafoglio dei gestori diventeranno più selettive e i primi titoli che saranno smobilizzati saranno quelli dei paesi europei considerati più deboli (come, per esempio, l’Italia, se continua a non fare le riforme). Al primo segnale di incertezza, di debolezza o di comportamenti opportunistici, inoltre, ricomincerà la corsa al Bund tedesco, considerato «bene rifugio», con il relativo aumento degli spread. Anche di questo la scorsa settimana abbiamo avuto già un assaggio.

La prossima riunione del comitato operativo della Fed è in agenda per il 29 ottobre. Solo allora sapremo se la linea della presidente Janet Yellen verrà confermata, o se prevarranno le istanze del presidente della Federal Reserve di Saint Louis, James Bullard, che, invece, preme per il prolungamento del quantitative easing . Il consiglio direttivo della Bce si riunirà il 5 novembre. Deciderà quello che i mercati si aspettano, vale a dire l’allentamento monetario, o prevarrà l’attendismo degli ultimi mesi, che, come abbiamo visto, ha neutralizzato l’accelerazione di giugno, e le borse precipiteranno ancora più giù? Un tale evento nefasto troverebbe l’Italia in mezzo al guado.

L’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. L’esecutivo si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Nel paese protestano tutti, incluse le Regioni, governate da rappresentanti dello stesso Pd che è a palazzo Chigi. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni macroeconomiche del governo appaiono fin troppo ottimistiche agli occhi di tutti. La legge di Stabilità presentata mercoledì va nella direzione opposta rispetto a quella auspicata dalla Commissione europea e dagli organismi internazionali. In controtendenza rispetto all’attuale mood dei mercati, come l’abbiamo descritto. Più che domare la tempesta, e cogliere l’occasione per assumere un ruolo di leadership in Europa, Matteo Renzi sembra fare di tutto per esserne travolto. Davvero vuol passare alla storia come colui che ha affossato l’Italia e, con l’Italia, l’euro?

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Il governo ha sbagliato i conti: sui marcati c’è aria di tempesta

Renato Brunetta – Il Giornale

Chissà perché le stesse agenzie di rating che nell’estate-autunno del 2011 erano tanto loquaci, anche oltre il lecito, visto che presso la procura di Trani è in corso una serissima indagine sui loro comportamenti, oggi tacciono? Lo scorso venerdì né Moody’s né Standard & Poor’s hanno aggiornato il loro giudizio sull’Italia. Non hanno nulla da dire o c’è dietro altro? Per Moody’s l’ultimo rating emesso è del 14 febbraio, proprio il giorno delle dimissioni del governo Letta, poi il calendario non è stato più rispettato: nessun aggiornamento il 13 giugno e nessun aggiornamento neanche il 10 ottobre. Che strano: Moody’s non si pronuncia più sull’Italia da quando c’è il governo Renzi. O in questi mesi il giudizio è cambiato talmente poco da essere irrilevante (il che vuol dire che anche l’azione di questi mesi del governo ha prodotto effetti minimi, addirittura impercettibili), oppure il giudizio è talmente grave che renderlo pubblico destabilizzerebbe non solo l’Italia, ma l’intera area dell’euro. In entrambi i casi siamo davanti a una manipolazione del mercato bella e buona, come fu manipolazione, nel senso diametralmente opposto a quello attuale, appena esposto, quella del 2011. Manipolazione che, in quel caso, portò alla caduta di un governo legittimamente eletto dal popolo, e a comportamenti speculativi i cui effetti devastanti hanno messo in ginocchio l’Europa. Ma di questo ci darà conto il tribunale di Trani. Certo, la coincidenza dell’inizio del silenzio da parte delle agenzie di rating con l’insediamento del governo Renzi desta più di qualche dubbio.

Tempesta perfetta in arrivo?
Fino ad oggi i gestori (soprattutto grandi banche d’affari e hedge funds americani) hanno avuto un eccesso di liquidità da investire, per effetto delle politiche di allentamento monetario della Fed. L’acquisto di titoli di Stato italiani è stata una strategia ragionevole: sono titoli meno rischiosi e con un rendimento conveniente. La situazione cambierà invece con la fine del Quantitative Easing della Fed. Con meno soldi in circolazione le scelte dei gestori saranno più selettive e i primi titoli di cui si disferanno saranno quelli italiani se per allora il nostro Paese non avrà dimostrato di aver fatto le riforme necessarie. Ai mercati basterà poco per cambiare atteggiamento.Tutto potrebbe precipitare di nuovo, con un rapporto debito/Pil fuori controllo, oltre il 140% nel 2015. A ciò si aggiunga che poco meno di tre anni fa le banche italiane hanno preso in prestito oltre 200 miliardi di liquidità dalla Bce per il tramite della Banca d’Italia, fornendo in garanzia dei titoli del Tesoro. Tra poco queste operazioni saranno definitivamente chiuse e i Btp o i Ctz potrebbero essere svincolati. Ne deriva che, aumentando l’offerta di titoli sul mercato, diminuirà il prezzo e aumenteranno i rendimenti (le due grandezze sono inversamente proporzionali). Con le conseguenze che tutti conosciamo sugli spread. Se la tempesta perfetta arriva, spazza via tutto. E tutti.

È credibile la finanza pubblica?
Il documento più recente ufficiale del governo è la Nota di aggiornamento al Def, approvata dal Consiglio dei ministri il 30 settembre, che rappresenta una completa riscrittura del precedente documento di aprile, dimostrazione evidente del fallimento della linea di politica economica fin qui seguita da Matteo Renzi. Errate si sono dimostrate le scelte finora compiute, a partire dal bonus di 80 euro; errati i presupposti analitici su cui quella politica si è fondata. A dimostrazione di questo assunto basta considerare lo scarto nella previsione di crescita del Pil (dal +0,8% di aprile al -0,3% di settembre): 1,1 punti di Pil di differenza. Scarto che supera di gran lunga tutta l’esperienza storica più recente. Senza considerare il grado di realismo (basso) implicito nell’ultima previsione di -0,3%. A giustificare un simile scarto previsionale, in corso d’anno, non si è verificato alcun elemento traumatico. Al contrario si è seguito solo il trend a ribasso degli anni precedenti: -2,4% nel 2012, -1,9% nel 2013. Per ritrovare il segno più negli andamenti del Pil italiano bisogna risalire al 2010 (+1,3%) e al 2011 (+0,4%), quando il governo del paese era affidato a un’altra maggioranza.

Secondo i dati dell’Eurostat il reddito nominale dei Paesi dell’eurozona nel 2013 è stato del 4% superiore ai livelli pre-crisi. In Italia siamo invece ancora ben lontani dal raggiungere quell’obiettivo, e in termini reali la perdita di Pil resta ancora superiore ai 9 punti. Nelle previsioni per il 2015, inoltre, il nuovo Def ipotizza una crescita del Pil pari allo 0,6%. A questo obiettivo dovrebbe contribuire soprattutto la domanda interna, che subirebbe un balzo di un punto di Pil passando da -0,3%, nel 2014, a +0,7% nel 2015. Questo passaggio non è ulteriormente motivato, né si considera l’effetto di trascinamento della brusca caduta dell’anno precedente.

Nella logica del documento del governo, infine, le previsioni di crescita rappresentano il floor su cui calcolare l’impatto delle possibili riforme. Rispetto al tendenziale sarebbero destinate a determinare una crescita del potenziale produttivo pari in media allo 0,2% in tre anni. Spiccioli. L’effetto lordo delle riforme, infatti, è compensato dall’onere recato dalle misure di salvaguardia, poste a difesa del rispetto dei parametri del deficit. Misure che potrebbero scattare a partire dal 2016, per importi predeterminati fin da ora e pari a 12,6 miliardi nel 2016; 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018. Con conseguente aumento della pressione fiscale, che si stabilizza a un livello superiore al 44% del Pil. Ipotesi da scongiurare.

Un sentiero impervio
L’insieme di questi dati, al di là dell’eleganza formale dei ragionamenti del governo, dimostra quanto sia ancora impervio il sentiero per uscire dalle secche della crisi. Questi dati rappresentano perfettamente il “circolo vizioso” dell’economia italiana: gli investimenti privati non crescono a causa dei ridotti margini aziendali; quelli pubblici non decollano a causa delle cattive condizioni di finanza pubblica; di conseguenza l’economia ristagna, mentre lo spiazzamento competitivo derivante dal combinarsi di una bassa produttività aziendale con un’altrettanta limitata “produttività totale dei fattori” allontana il nostro paese dal resto dell’eurozona. Per non parlare della concorrenza che deriva dalle economie emergenti. Il governo stesso si è reso conto di questi pericoli allorquando ricorda “la delicatezza della fase attuativa che ha spesso deluso in passato le aspettative degli italiani e degli investitori stranieri”. Preoccupazione assolutamente condivisibile, subito disattesa, tuttavia, dai suoi comportamenti effettivi. Del resto, lo scarto tra preposizioni teoriche e comportamenti effettivi è la vera cifra che caratterizza l’intera azione del governo.

L’attuale quadro dei conti pubblici italiani appare, pertanto, venato da profonde incertezze programmatiche e dalla profonda discrasia tra il “dire” e il “fare”. Esso è reticente nell’individuare i veri punti che sono all’origine dello shock endogeno che persiste nell’economia italiana, intimamente legato alla sua bassa produttività. È il riflesso di un quadro politico incerto, in cui persistono linee divergenti, segnato da fratture difficilmente conciliabili, che riducono la capacità operativa del governo e lo costringono a defatiganti azioni di mediazione, allungando i tempi della decisione politica. Il tutto in aperto contrasto con le esigenze di chiarezza richieste dai mercati e dalla Commissione europea, che non perde occasione per far conoscere le proprie riserve, lanciando ripetuti avvertimenti.

Si rende oggi quanto mai necessario, dunque, un più intenso dialogo intereuropeo al fine di dare a quel semestre di presidenza italiano, fin troppo scialbo, l’occasione di un rilancio. Dobbiamo sgombrare il campo dall’ipotesi che l’accento riposto sulla necessità dello sviluppo sia un alibi per continuare nelle vecchie abitudini di sempre. Al contrario, occorre rafforzare la posizione negoziale dell’Italia per costringere anche gli altri, soprattutto la Germania, a fare la propria parte. Allo stato attuale, però, l’Italia manca di credibilità sul piano internazionale e dei mercati. La finanza pubblica è fuori controllo e le previsioni del governo appaiono agli occhi degli osservatori spesso fin troppo ottimistiche. L’esecutivo, infine, si regge su una maggioranza di partito e non su una maggioranza parlamentare. Dopo i governi non eletti, Monti e Letta, con Matteo Renzi l’Italia si trova al suo punto minimo di credibilità economica e democratica. Tutti questi fattori, deflagranti in caso di tempesta sui mercati, rendono l’Italia il paese più debole nel contesto europeo. Continuare a fare finta che non sia così è da irresponsabili.