Alberto Quadrio Curzio

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

L’Europa eviti la deriva “dogmatica”

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il documento programmatico di bilancio 2015 (Dpb-2015, fondamento del disegno di legge di stabilità) dovrà superare due ostacoli. Quello del Parlamento italiano e quello delle Istituzioni Europee. L’Italia sta concludendo il sesto anno di crisi nel cui ambito gli ultimi tre anni sono stati di recessione piena. Intanto abbiamo cambiato quattro governi. È ora di rendersi conto che una delle condizioni necessarie per superare la nostra crisi è quella di mostrare la massima coesione all’Europa e ai mercati. Speriamo quindi che le rappresentanze istituzionali, economiche e sociali italiane sappiano guardare all’interesse nazionale tenendo conto delle scelte innovative del Governo in termini di spinta fiscale (unita a riforme) agli investimenti, alle imprese, all’occupazione. La Francia ha deciso di disattendere i parametri di bilancio europei e di premere, come pare, con qualche margine di successo, sulla Germania perché, ai tagli di spesa richiesti agli altri, affianchi in pari misura suoi investimenti infrastrutturali. L’Italia rispetta invece nella sostanza (salvo che per il debito) i parametri europei ma la sua strada non sarà tutta in discesa.

Rigore e sviluppo
Nel DPB-2015 inviato dall’Italia alla Commissione europea si pone un problema cruciale: come evitare che l’Eurozona affondi nella recessione-deflazione riprendendo invece a crescere creando occupazione nella stabilità. Il Presidente Napolitano, il presidente Renzi, il ministro dell’Economia Padoan si sono molto impegnati per mobilitare la fiducia e la responsabilità dell’Europa. Parlare, come fa la cancelliera Merkel, di compiti che vari Paesi (tra cui l’Italia) devono fare a casa, è per noi una banalizzazione di fronte a più di 18 milioni di disoccupati della Uem e a più di 3 milioni del nostro Paese. Questo spiega perché personalità tedesche autorevoli, tra le quali di recente Joschka Fischer, stiano criticando senza sconti la Merkel e il suo ministro delle Finanze. Le forze del rilancio, comprese quelle imprenditoriali europee, devono però essere più coalizzate non contro qualcuno ma per lo sviluppo. Anche il Parlamento europeo (ai cui vertici l’Italia conta parecchio) va valorizzato appieno perché lo stesso si è dimostrata in passato assai più lungimirante della Commissione e del Consiglio europeo. Bene fa perciò il DPB-2015 a sottolineare: che la crisi europea ha intaccato la fiducia di imprese e consumatori; che la politica monetaria non basta pur avendo evitato il peggio; che le necessarie riforme strutturali nei singoli Paesi producono effetti differiti mentre in recessione ci vogliono interventi ad effetto rapido; che senza crescita anche l’innovazione e la competitività si attenuano e la stessa sostenibilità dei debiti pubblici ne risente. La critica al rigore che genera crescita è chiara e su questa si innesta il programma italiano. Lo stesso coniuga una politica di bilancio euro-compatibile, che stimoli nel breve termine investimenti ed occupazione, con delle riforme strutturali che nel medio (1.000 giorni) e nel lungo termine generino più competitività e produttività del sistema Italia.

Riforme e crescita
Il DPB-2015, già approfondito su queste colonne, si fonda inoltre su un concetto centrale. Le riforme (con sostegni di bilancio rispettosi del vincolo europeo del 3% di deficit su Pil), generano crescita che favorisce il miglioramento nel tempo nei rapporti del deficit e del debito pubblico sul Pil. Questo concetto poggia su due basi. La prima base è sostanziale e riguarda le riforme strutturali sempre richieste dalla Ue all’Italia (pubblica amministrazione e semplificazione, giustizia, competitività e fiscalità, mercato del lavoro) per gli effetti sulla crescita, sull’occupazione e sulle finanze pubbliche. In termini di Pil, le misure che hanno costi di finanza pubblica (taglio Irap, bonus Irpef, jobs act e azzeramento triennale contributi, crediti di imposta per R§S), dovrebbero generare entro il 2018 un incremento cumulato di 0,7 punti percentuali che rimane poi incorporato nella dinamica del reddito nazionale specie per gli aumenti di investimenti e occupazione. L’effetto cresce considerando anche le riforme non meno importanti (semplificazioni e giustizia, fonti di potenziali risparmi e a costo zero) che avranno tuttavia forti resistenze e quindi effetti difficilmente misurabili. Quanto al debito pubblico sul Pil già dal 2016 sarebbe più basso di quello conseguibile “risparmiando” gli 11 miliardi che il DPB-2015 destina alla crescita . Quindi la minore correzione fiscale nei prossimi tre anni verrebbe presto compensata dalla crescita del Pil. La seconda base è istituzionale e riguarda il rispetto delle prescrizioni europee nel loro insieme. Il DPB-2015 argomenta da un lato che la grave recessione in atto (che peggiorerebbe con ulteriori rigidità fiscali) e dall’altro che le riforme in cantiere consentono il posponimento del pareggio strutturale di bilancio. Anche perché in tal modo migliora la sostenibilità di lungo periodo del debito pubblico sul Pil.

Una conclusione euro-italiana
L’Italia non “sfida” perciò l’Europa ma le chiede una lettura non dogmaticamente formale della situazione con l’uso di una razionalità politica ed economico-fiscale. Sono le argomentazioni condivisibili del DPB-2015 alle quali andrebbe sempre aggiunta quella, non meno importante, del rilancio degli investimenti infrastrutturali europei finanziati su scala europea con l’uso di europroject bond o eurounionbond. Strategia che si connette sia a quella del presidente della Commissione europea Juncker per il suo piano da 300 miliardi di investimenti in 3 anni sia ai gradi di libertà di cui potrà fruire Draghi per canalizzare liquidità agli investimenti. Quanto al nostro Governo, senza rinunciare alle critiche costruttive (su cui ritorneremo), crediamo si debbano attendere le prove dei fatti dando alle innovazioni aperture di credito come quelle di Moody’s e Financial Times. Due valutatori non abituati a fare sconti, specie all’Italia.

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Più opere e meno squilibri per rilanciare l’Europa

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La crisi economica europea ha trovato di recente due conferme e una autorevole indicazione su come uscirne. La conferma viene dal rallentamento della Germania e dal Fondo monetario internazionale che chiede investimenti pubblici in infrastrutture. Per questo giornale non si tratta di novità perché da anni ripetiamo che il dogma del rigore fiscale senza politiche espansive europee centrate sugli investimenti, specie in infrastrutture, era sbagliato.

I trinomi dell’Fmi
Con oggi si chiudono a Washington le riunioni annuali di Fmi e Banca mondiale (istituzioni a cui aderiscono 188 Paesi) che hanno celebrato anche il loro 70° anniversario. È stato presentato anche il World economic outlook di ottobre che va letto alla luce di due interventi, cruciali anche per l’Europa, del direttore generale Fmi, Christine Lagarde. Il primo è di prospettiva storica a 70 anni da Bretton Woods, quando Fmi e Banca mondiale furono fondate con il contributo di John Maynard Keynes. Lagarde rende omaggio a questo genio e prospetta tre coppie di alternative di fronte alla quali l’economia mondiale si trova oggi: tra accelerazione e stagnazione; tra stabilità e fragilità; tra solidarietà e isolamenti. Lagarde spiega perché accelerazione, stabilità, solidarietà sono tra loro connesse. A nostro avviso è quella combinazione su cui si è costruita l’Eurozona (e l’Unione europea) che adesso vacilla avendo scelto, sbagliando, la ricombinazione di stagnazione, stabilità, isolamenti. Il secondo intervento riguarda l’attuale urgenza di politiche economiche per rilanciare crescita e occupazione, specie in alcune aree geo-economiche in forte rallentamento. Qui emerge in modo netto la presa di posizione sulla Eurozona per la quale Lagarde segnala i rischi di persistente bassa inflazione (che per noi è deflazione) e di recessione per superare le quali chiede misure monetarie più forti della Bce e misure fiscali dei Paesi sia in surplus che in deficit evitando gli eccessi di rigore, ammorbidendo gli effetti delle necessarie riforme nel mercato del lavoro, favorendo la crescita.

Gli investimenti e le infrastrutture
Alle politiche monetarie e fiscali per la crescita viene aggiunta con forza dall’Fmi quella sulle infrastrutture come strategia cruciale per evitare il rallentamento dell’economia mondiale e la stagnazione in alcune aree. Con riferimento all’Eurozona noi abbiamo trattato su queste colonne di infrastrutture sotto ogni punto di vista: dai metodi di finanziamento (Project bond, Eurobond, partenariato pubblico-privato) alle tipologie di investimenti (reti transeuropee, tecnoscienza, capitale umano e fisico). L’Fmi enfatizza l’urgenza degli investimenti pubblici in infrastrutture sia come leva fondamentale per rilanciare adesso crescita e occupazione, sia perché la quota delle stesse sul Pil è calata in generale, sia perché nei Paesi sviluppati vanno ammodernate e nei Paesi in via di sviluppo vanno costruite. Le condizioni di liquidità attuali sono anche molto favorevoli per costi finanziamento bassi e per l’emissione di titoli di debito in mercati molto liquidi. L’Fmi calcola che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di Pil genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di Pil nello stesso anno e dell’1,5% entro quattro anni. La conclusione è che investimenti in infrastrutture ben fatti aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporti del debito pubblico sul Pil.

Gli squilibri tedeschi
Il World economic outlook (Weo) dell’Fmi si sofferma anche sulla crisi dell’Eurozona e sui problemi dei suoi Stati membri. Il messaggio che più colpisce è quello secco indirizzato alla Germania con la richiesta di aumentare gli investimenti pubblici nelle infrastrutture. Il messaggio si ripete in varie forme nel Weo rilevando che la Germania è l’unico Paese nel quale tra il 2006 e il 2013 sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero (dal 6,3% allo 7,5% del Pil, pari a 274 miliardi di dollari) sia i crediti finanziari netti sull’estero (dal 26,9% al 46,2% del Pil ovvero 1678 miliardi di dollari) mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. Così gli investimenti totali sul Pil dal 22,3% nel 2000 sono scesi al 16,9% nel 2013 mentre si prevede una risalita solo al 18,5% nel 2019. All’opposto la quota del risparmio lordo sul Pil è passata nello stesso periodo dal 20,5% al 24% con la previsione di scendere solo al 23,5% nel 2019. La Germania soffre perciò di squilibri macroeconomici che da anni vanno ben oltre i limiti previsti dagli accordi europei per il rapporto tra il surplus di parte corrente sull’estero e il Pil. Purtroppo le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania a più investimenti che avrebbero trainato tutta l’Eurozona. Inoltre si è a lungo taciuto nelle sedi istituzionali sui vantaggi che la crisi stessa ha prodotto per la Germania. Sono critiche che da tempo Marco Fortis avanza, segnalando anche che il crollo della domanda degli altri Paesi dell’Eurozona avrebbe colpito la stessa Germania. È quello che sta accadendo. Infatti le stime di crescita per il 2014 sono state ribassate dall’1,9% all’1,3% e per il 2015 dal 2% all’1,2%, l’export di agosto è crollato del 5,8% rispetto a luglio e la produzione industriale del 4,8% mentre la fiducia delle imprese è in calo da maggio. È dunque in corso un rallentamento marcato.

Una conclusione Euro-tedesca
Al di là dei numeri contano anche le opinioni e tra queste spicca quella di uno tra i più autorevoli economisti tedeschi, Marcel Fratzscher, direttore dell’Istituto tedesco per la ricerca economica (Diw). Nel suo recente volume “L’illusione tedesca” (presentato dal ministro dell’Economia, il socialdemocratico Sigmar Gabriel) si sostiene sia che la prosperità tedesca vacilla per gli errori di politica economica sia che la Germania deve investire di più in infrastrutture e in capitale fisico e umano. Speriamo che questa opinione venga accolta dal governo tedesco, che dovrebbe anche aprirsi alla piena collaborazione con il presidente della Commissione europea per la realizzazione degli investimenti infrastrutturali convenienti per tutta l’Eurozona. Anche per l’Italia, che tuttavia non potrà sottrarsi a riforme radicali capaci di renderci un po’ più “tedeschi”.

L’Italia non tema la vigilanza

L’Italia non tema la vigilanza

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

I ministri finanziari della Uem e della Ue, nelle recenti riunioni milanesi, hanno prefigurato “nuove” politiche economiche per ricomporre crescita, riforme, rigore e per evitare all’Europa una lunga stagnazione-deflazione. Il ministro dell’economia Padoan, quale presidente di turno di Ecofin, vi ha contribuito non poco malgrado la nostra debole posizione. Per favorire la crescita e l’occupazione sono stati messi al centro gli investimenti (a dimensione prevalentemente europea) e la riduzione del cuneo fiscale sul lavoro(nei singoli Paesi). Speriamo che si passi presto all’azione.

Finanziamento degli investimenti. Per le politiche europee si è rafforzata la posizione che il rilancio della crescita passa da un partenariato pubblico-privato con un ruolo più importante della Bei che assuma anche maggiori gradi di rischio su varie filiere precisate da proposte franco-tedesche ed italiane. Si tratta dei finanziamenti agli investimenti sia delle imprese sia delle infrastrutture con ampio coinvolgimento del settore privato e creando anche un fondo ad hoc in cui convogliare risorse e potenziando le Casse depositi e prestiti dei vari Paesi. La complementarietà di queste posizioni, la loro natura di interventi a scala prevalentemente europea, che ricadono positivamente sui singoli Paesi membri, è chiara e non è nuova. La novità è invece politica perché in passato è stata proprio la concordia (sotto la guida e la vigilanza tedesca) dell’Eurogruppo e dell’Ecofin, della Commissione e del Consiglio Europeo che ha consentito l’affermarsi della linea del rigore senza attenzione alla crescita e all’occupazione. Se adesso davvero si darà un forte impulso agli investimenti in infrastrutture (materiali e immateriali, purchè di qualità) raccogliendo risorse finanziarie nel mercato attraverso Enti Pubblici Europei e/o con garanzie pubbliche, allora l’Europa uscirà ben presto dalla crisi. Su queste colonne Beda Romano ha segnalato che anche la Germania dovrebbe aver capito la necessità di questi interventi sia pure come ponte pubblico per ovviare le carenze del mercato. Bisogna inoltre evitare che l’enorme liquidità in circolazione (e che aumenterà con i prefigurati interventi della Bce) crei pericolose bolle finanziarie che darebbero un’altra mazzata all’Europa.

Progetti e Commissione. Bisogna anche evitare di perdere tempo ad elaborare nuovi progetti essendoci già i programmi di Europa 2020, quelli sulle TransEuropean networks, quelli del quadro finanziario pluriennale 2014-2020. Negli stessi si tratta, in modo diretto o indiretto, di investimenti infrastrutturali europei nell’ordine dei 2.000 miliardi di euro nei prossimi 15-20 anni. È positivo che di questo abbia tenuto conto il neo presidente della Commissione europea Juncker nel suo “programma per l’occupazione, la crescita, l’equità e il cambiamento democratico” dove si è data una forte rilevanza ai sistemi europei di infrastrutture integrate con un potenziamento dei finanziamenti (via bilancio comunitario, Bei, partenariato pubblico-privato, nuovi strumenti finanziari di impresa) per mobilitare 300 miliardi di investimenti in tre anni. Preoccupa invece che la Vice presidenza della Commissione europea per l’occupazione, la crescita, gli investimenti e la compatitività sia stata affidata a Jyrki Katainen che coordinerà, anche con poteri di veto, l’attività di tutti gli altri commissari con competenze economiche. Prudenza vuole che i giudizi non siano affrettati anche se nel suo breve periodo quale Commissario agli affari economici e finanziari Katainen ha fatto di tutto per rafforzare il plateale rigorismo del suo predecessore Olli Rehn in tal modo facendo di fatto leva sul sostegno dei rigoristi tedeschi. Qui non possiamo tacere il nostro rammarico che a quella carica di vice presidente, il Presidente Renzi non abbia candidato Marco Buti che in un ruolo di coordinamento di altri Commissari non avrebbe probabilmente trovato ostacoli date le sue forti credenziali europee.

Detassazione, rigore, riforme. Qui è stata netta la posizione dell’Eurogruppo (che amplia quella di luglio) sulla necessità di ridurre il cuneo fiscale sul lavoro anche perché nella Uem si combina con una tassazione totale ben sopra quella della media Ocse. Questo danneggia la ripresa economica e dell’occupazione, i consumi e l’offerta di lavoro, la competitività e la profittabilità delle imprese. La proposta dell’Eurogruppo viene ben collocata in quattro coordinate da declinare sui singoli Paesi. E cioè: quella della semplificazione tributaria e della selezione di componenti del cuneo da ridurre per tipologie di lavoro e per massimizzarne l’effetto; quella delle riforme per l’efficienza dei mercati del lavoro; quella della consenso politico e sociale, da ottenere con la giusta gradualità, per la riallocazione del gravame fiscale; quella del rispetto dei vincoli di bilancio prescritti dal Patto di stabilità e di crescita o aumentando altre imposte o riducendo le spese pubbliche improduttive. Qui l’Italia ha un grosso problema visto che negli anni passati ha continuato ad aumentare la pressione fiscale invece di ridurre gli sprechi pubblici con effetto molto negativo sulla crescita. Riteniamo quindi che una mera riallocazione della pressione fiscale senza tagli agli sprechi avrebbe effetti limitati sulla crescita e la competitività italiana. Così come sappiamo che l’Italia necessita di tante altre riforme su cui regolarmente il Sole 24 Ore si intrattiene e su cui il Governo Renzi deve impegnarsi a fondo lasciando in secondo piano successi pura immagine.

Una conclusione italiana. Ciò detto, visto che l’economia italiana va male, dobbiamo contrattare adesso e subito con le Istituzioni europee margini di flessibilità nel bilancio a fronte di rigorosi impegni contrattuali a fare le riforme sotto il controllo della Ue. Polemiche o dichiarazioni che facciamo da soli non bastano. La Francia sta contrattando il suo rientro del deficit sul Pil sotto il 3% al 2017 con l’impegno a riforme vigilate in base ad un impegno ammissibile a termini giuridico-politici. Non per emulazione politica ma per necessità di sopravvivenza, anche noi dobbiamo contrattare con le Istituzioni Europee più flessibilità sotto la condizione di riforme specifiche vigliate dalla Ue e sotto il vincolo di destinare le risorse a ridurre (subito e non simbolicamente) il cuneo fiscale e contributivo specie per la nuova occupazione giovanile orientata all’innovazione e alla produttività.

La strada obbligata per ritrovare la crescita

La strada obbligata per ritrovare la crescita

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Governo Italiano è impegnato su molti, difficili fronti, in Europa e in Italia. Sappiamo anche che il presidente del Consiglio Renzi, la cui energia è davvero tanta, vuole gestire in prima persona tutto. Sono quindi legittime le preoccupazioni che questo impegno sia eccessivo e che si impongano scelte e deleghe più chiare. Sulle riforme economiche necessarie, per evitare confusione, partiamo dalle raccomandazioni delle istituzioni europee all’Italia per passare poi ad una conclusione. E cioè che la spinta (sia pure limitata, senza quella europea) alla nostra crescita ed occupazione passa dal rilancio degli investimenti con le risorse recuperate dalla spending review e dall’evasione, con la riduzione del carico fiscale ed in particolare dell’Irap (solo simbolicamente ridotta in primavera), con un efficace partenariato pubblico-privato, con l’occupazione promossa da politiche attive e retributive nuove anche nel pubblico impiego.

Le raccomandazioni europee. Sono quelle espresse nel giugno scorso dal Consiglio della Ue e dalla Commissione europea, sul Programma nazionale di riforma e su quello di stabilità presentati dal governo. Purtroppo sono raccomandazioni che si ripetono da anni e sul cui adempimento l’Italia ha fatto poco. Eppure le stesse sono difficilmente contestabili anche se possono apparire semplificanti ed eccessive. Esse si riferiscono 1) alle politiche di bilancio; 2) all’alleggerimento del carico fiscale sui fattori produttivi; 3) all’efficienza della pubblica amministrazione; 4) al rafforzamento del settore bancario; 5) alle riforme del mercato del lavoro; 6) alle riforme del sistema di istruzione; 7) alla semplificazione normativa; 8) alla politica dei trasporti e delle infrastrutture. Il governo ha risposto a queste raccomandazioni evidenziando che le riforme richieste sono in cantiere anche se la realtà è (molto) più contenuta.Anche perché non sono chiare le nostre priorità e questo preoccupa perché l’economia reale italiana continua a peggiorare, pur con tutta l’ Eurozona.

Le valutazioni sul 2014. Infatti le previsioni (ci riferiremo a quelle di Prometeia sia pure con nostre valutazioni) danno troppi segni negativi: il Pil scende dello 0,2%; gli investimenti (macchinari, attrezzature, mezzi di trasporto) scendono dello 0,4%; gli investimenti in costruzioni del 2,3%; la domanda totale interna dello 0,2%; la disoccupazione ormai si avvia al 13%. Non compensano questi dati negativi l’aumento della spesa delle famiglia dello 0,2% e un saldo dell’interscambio merci sull’estero al 2,8% del Pil. Due altri fatti (uno negativo e l’altro positivo) sono noti ma è bene ricordarli. L’inflazione (al netto di energia e alimentari, che sono componenti più volatili) è scesa in agosto allo 0,5%, che è il nostro minimo storico anche perché mai prima eravamo andati sotto quelle di Francia e Germania. In positivo vi è il calo dei tassi sui titoli di Stato con il conseguente risparmio di interessi passivi che contribuirà a tenere il deficit sul Pil sotto il 3%. In sintesi: i segnali moderatamente fiduciosi di una ripresa sono stati archiviati dai dati del secondo trimestre.

Priorità e risorse. Bisogna allora individuare tra le Raccomandazioni europee le più urgenti, proseguendo nel frattempo con le riforme ad effetto strutturale sul medio termine dei 1.000 giorni prefigurati dal governo. La priorità è quella di rilanciare gli investimenti, l’innovazione e l’occupazione, soprattutto quella giovanile. Perché da questa dipende la fiducia nel futuro che a sua volta contribuisce ad un aumento (vero) nella spesa delle famiglie. Per fare questa operazione vanno trovate le risorse e selezionati gli impieghi. Il reperimento delle risorse deve imperniarsi (ma non esaurirsi) sulla spending review (compresa la ristrutturazione delle aziende partecipate dagli enti locali). Poiché i quasi 60 miliardi di risparmi (al lordo delle minori entrate) del triennio 2014-2016 sono ben documentati dal Programma Cottarelli (che tra l’altro indica prudentemente entità minori di quelle prefigurate da altri nel 2012), bisogna dare esecuzione alla stesso senza esitazione. Inoltre va riequilibrato il carico fiscale recuperando l’evasione. Perché la nostra pressione fiscale apparente è al 44% ma quella effettiva (sui contribuenti leali) è al 54%.

Investimenti e lavoro. Con le risorse che si liberano bisogna spingere gli investimenti, l’innovazione, la tecnoscienza, l’industria, le infrastrutture che, oltre ai noti effetti moltiplicativi, devono anche sostenere la competitività del sistema Paese. Queste misure passano sia attraverso una riduzione del carico fiscale sulle imprese, e in particolare sugli investimenti, sia attraverso iniziative di partenariato pubblico-privato dove nuovi strumenti di finanza per le infrastrutture e l’industria servono molto. Non meno importante è l’intervento sul lavoro e l’occupazione dove il ministro Poletti sta operando bene. Bisogna arrivare alla semplificazione dei contratti, a migliori politiche attive, a contratti a tempo indeterminato ma a protezioni crescenti, a rivalutare l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro, a rivedere i sussidi di disoccupazione e la cassa integrazione anche per prevenire forme che disincentivano il lavoro stesso. Poi ci vuole una radicale riduzione e ristrutturazione del pubblico impiego premiando solo il merito. Sappiamo che il Governo ha già adottato vari provvedimenti in queste direzioni. Siamo anche convinti che solo un successo pieno al proposito darà una (prima) spinta alla competitività italiana e aumenterà la nostra forza in Europa.

Una conclusione. Tutto ciò è per noi necessario ma non sarà sufficiente se le istituzioni europee non spingeranno gli investimenti infrastrutturali (materiali e immateriali) e una forte reindustrializzazione sostenibile anche con strumenti finanziari nuovi, come gli EuroUnionBond. Perché la politica monetaria della Bce per quanto espansiva (e non priva di rischi per bolle speculative) non può supplire una politica per l’economia reale.

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Tagli di spesa per spingere su investimenti e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La procedura che porta alla legge di stabilità inizierà a giorni e, purtroppo, non sarà una passeggiata né per il governo né per l’Italia. Siamo infatti in recessione-deflazione più della media (alzata, si fa per dire, dalla Germania!) dell’eurozona. La speranza sul programma del neo presidente della Commissione Juncker (e cioè investimenti nell’economia reale e nelle infrastrutture per 300 miliardi in tre anni) viene smorzata dalla critica tedesca all’apertura di Draghi su queste politiche espansive. Rimaniamo così in attesa sia della Bce per l’erogazione di liquidità finalizzata al rilancio dell’economia reale, sia delle politiche della nuova Commissione europea per spingere la crescita, sia della capacità dei governi di Paesi a crescita zero (o meglio negativa) come il nostro di contrattare flessibilità di bilancio in cambio di riforme. Anche perchè,malgrado i limiti delle nostre riforme, non è (tutta) colpa nostra se l’eurozona ha fatto la scelta sbagliata di rigore senza investimenti.

Riformare l’Italia
Il governo ha piani ambiziosi che speriamo possa migliorare (anche accettando le critiche costruttive) ed attuare. Per questo bisognerà analizzare bene il programma dei mille giorni, del «passo dopo passo». Intanto le previsioni sulla nostra crescita, disoccupazione e sui saldi di bilancio peggiorano anche se Renzi e Padoan rassicurano sul rispetto dei vincoli di bilancio europei. Intanto, il governo ha approvato lo «sblocca-iItalia» che ha misure interessanti per la crescita,anche tramite le infrastrutture. Una parte non piccola è però subordinata alle risorse finanziarie su cui aspettiamo la legge di stabilità. A questo proposito consideriamo una questione (tra le tante) sulla quale si valuterà la capacità del governo di fare le riforme durevoli. Si tratta della revisione della spesa pubblica, tema (tra gli altri) sul quale in una serrata intervista si sono intrattenuti ieri qui il presidente del consiglio e il direttore del nostro quotidiano.

Razionalizzare la spesa
Il presidente Renzi ritiene di poter tagliare 20 miliardi nel 2015 per liberare risorse da investire nella istruzione e nella ricerca. All’ovvia preoccupazione che ciò si faccia con i tagli lineari, la risposta è stata che non sarà così perché ogni ministero dovrà fare delle scelte e ridurre del 3% selettivamente la spesa. Lo speriamo e tuttavia riteniamo di richiamare all’attenzione sulla necessità di seguire le «nuove proposte di revisione della spesa» (Nprs) elaborate dal commissario nominato dal governo, Carlo Cottarelli e dai suoi collaboratori. Non si tratta di limitare la discrezionalità valutativa del governo ma di avere una precisa mappa sui cui muoversi. Le Nprs lo sono perché applicano all’Italia, su una serie di aree di intervento, le migliori pratiche dell’Ocse già usate in altri Paesi.Ottenere dai ministri e dai ministeri una riduzione razionale della spesa è pressoché impossibile senza avere un’indicazione precisa sulle opzioni di risparmi e riallocazioni. Queste sono fornite proprio dalle Nprs di Cottarelli che punta su 59 miliardi di risparmi nei tre anni 2014-16. I risparmi lordi massimi calcolati (che non considerano il calo indotto sulle entrate) sono di 7 miliardi nel 2014 (sui dodici mesi, ovvero 3,5 su sei che ci sono), di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Le Nprs sono su cinque macro-aree di intervento con i relativi risparmi su ciascun anno del triennio: efficientamento (per 19,4 miliardi); riorganizzazioni (7,9); costi politica (2); riduzione trasferimenti (13,5); settori: difesa, sanità, pensioni (15,1). Ciascuna macro-area è poi dettagliata per ogni anno e per varie voci di risparmio e di efficientamento a livello statale e di enti locali. Qualcuno ha ironizzato (sbagliando) su alcune piccole voci di taglio spese che mostrano invece la serietà delle Nprs perché anche la somma di micro-sprechi genera macro-sprechi.

Tre proposte-richieste al Governo
La prima è una proposta al presidente del consiglio. Data la struttura e la declinazione delle Nprs, è necessario che la stessa venga utilizzata appieno nelle trattative con i ministri (e non solo perché il presidente Renzi dice tra l’altro di voler mantenere Cottarelli nel suo incarico). Sarebbe diversamente difficile discutere con i ministeri operazioni articolate di razionalizzazione della spesa. Né bisogna correre il rischio di passare sbrigativamente ai tagli lineari (o quasi) che talvolta colpiscono anche quelle spese necessarie dove non ci sono resistenze corporative.

La seconda è una richiesta al Governo. E cioè accertare entro il 12 settembre quando ci sarà l’eurogruppo (e prima con Juncker) qual è la misura delle flessibilità chel’Italia può ottenere sui vincoli di bilancio europei. Comprendiamo la riservatezza di queste trattative ma almeno un segnale che sono in corso sarebbe utile. La questione è cruciale non per cambiare le Nprs ma per definire meglio il cronoprogramma delle misure specifiche perché le riforme strutturali della spesa sono più lente ma più efficaci anche in termini di recuperi di efficienza che si estende poi a tutto il sistema economico.
La terza è una proposta-richiesta. Non si rinvii il programma di razionalizzazione delle (quasi)aziende partecipate dagli enti locali che noi abbiamo così denominato il 31 agosto su queste colonne perché molte non sono imprese date le loro perdite croniche. La risposta del presidente Renzi nella citata intervista non soddisfa. Condividiamo con lui l’obiettivo di voler passare dalle circa 8.000 a 1.000 e che la Cassa depositi e prestiti con il Fondo strategico italiano potranno svolgere un ruolo importante al proposito.Tuttavia ci aspettavamo che il presidente Renzi prendesse posizioni sui tempi e sulle modalità (chiusure, aggregazioni, vendite, quotazioni) della ristrutturazione e/o che rinviasse al recente programma elaborato da Cottarelli e dai suoi collaboratori che prospetta un risparmio a regime di 3 miliardi annui dalla razionalizzazione. Al quale per noi si aggiungerebbe un notevole (e non misurato) aumento di efficienza delle economie locali che sono cruciale per l’Italia

Una conclusione
Difficile dire se le nuove proposte di revisione della spesa pubblica elaborate da Cottarelli andranno in porto, se l’Europa ci darà delle flessibilità di bilancio, se Renzi avrà la forza politica di ottenere queste flessibilità e di fare le riforme. Se tutto andasse al meglio (e anche l’euro-Germania rinsavisse) avremmo una proposta per le risorse che rimanessero disponibili. Spingere al massimo sugli investimenti (e non solo con riduzione delle tasse) nell’economia reale, nella tecnoscienza e nelle infrastrutture per rilanciare la crescita adesso e per garantirsi un apparato produttivo più moderno per il futuro. Cioè per quelle generazioni che Renzi giustamente cita spesso.

Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Quei rinvii sospetti su immobili e partecipate

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il Consiglio dei ministri che segna l’avvio dei 1000 giorni del governo Renzi per cambiare l’Italia è di ampia portata e richiederà tempo per gli approfondimenti. Bisognerà andare oltre la copertina e l’indice dei provvedimenti per capire il potenziale degli stessi in un Paese dove la crisi diventa ancora più preoccupante. Nel contempo bisogna segnalare quali altri provvedimenti, non adottati dal Consiglio, sono delle priorità su cui il governo dovrà al più presto intervenire. Importante è quella di “razionalizzazione” del patrimonio pubblico sul quale era attesa la decisione del governo di chiusura di un migliaio di aziende inattive partecipate da enti locali, che purtroppo non c’è stata. Speriamo che non prevalgano i localismi corporativi per sconfiggere i quali ci vuole convinzione e metodo.

Il patrimonio pubblico. È noto come in Italia sia enorme e di pressoché impossibile valutazione in quanto parte dello stesso è composto da opere artistiche, archeologiche, naturalistiche e culturali alle quali non si può dare un prezzo stante la loro unicità e la loro non vendibilità. Per questo sarebbe bene distinguere sempre tra valori e prezzi. Spesso si parla genericamente di razionalizzare, valorizzare, privatizzare. Azioni che possono esprimere una sequenza o racchiudersi in sé a seconda dei patrimoni pubblici ai quali ci si riferisce. Quale che sia il metodo adottato, l’Italia deve riprendere la questione con un nuovo impegno e non solo perché una parte del patrimonio pubblico può essere economicamente usata per garantire o per ridurre il debito pubblico e/o per generare reddito e occupazione. Non va infatti mai dimenticato che il grado di incivilimento di un Paese e della sua popolazione si misura anche dalla cultura per la valorizzazione del patrimonio pubblico.

Il patrimonio pubblico economico. Con riferimento a quello con caratteristiche spiccatamente economiche e quindi con un potenziale di vendibilità, tre sono le principali categorie su cui il governo deve prendere posizione: le aziende (quasi) statali; le (quasi) aziende locali; il patrimonio immobiliare. Le ragioni di questa richiesta forte sono molte, anche per escludere che nelle urgenze improvvise il governo aumenti le tasse. Le privatizzazioni sono un capitolo della politica economica da più di trent’anni. Le finalità via via prefissate sono quattro: contribuire alla riduzione del debito pubblico; eliminare sprechi; aumentare l’efficienza dell’economia; favorire ampliamento e internazionalizzazione del mercato azionario. Infine vi è il messaggio, indirizzato alle istituzioni europee e ai mercati, che l’Italia fa sul serio. Anche se in modo non chiaro queste sembrano le finalità delle privatizzazioni, razionalizzazioni e valorizzazioni del governo Renzi.

Le aziende (quasi) statali. Nel Programma nazionale di riforma presentato alla Commissione europea nell’aprile 2014 si dice che il processo di privatizzazione è in fase avanzata e si elencano le molte società coinvolte. L’obiettivo è raccogliere un importo pari allo 0,7% del Pil per ogni anno del quadriennio 2014-2017. Si tratterebbe di 40-45 miliardi destinati a ridurre il debito pubblico. È una cifra grande se rapportata ai trend annuali delle privatizzazioni e piccola se rapportata al debito. Per ora è stata collocata faticosamente in Borsa solo una parte di Fincantieri con un introito di circa 350 milioni sui 600 preventivati. Forse anche per questo si passerà ora alla vendita di quote dei gioielli di famiglia: del 4,34% di Eni e del 5% di Enel per un controvalore di circa 5 miliardi. Non basta però la finalità di ridurre il debito per vendere quote di imprese come queste che pagano dividendi allo Stato e che possono entrare in strategie industriali, infrastrutturali e internazionali. Per altre aziende solo dopo le razionalizzazioni si può decidere. In tutto ciò può svolgere un ruolo crescente la Cdp, perché detiene partecipazioni importanti ed è controllata dallo Stato e perché ha visione e capacità operativa internazionale. Lo dimostra la cessione del 35% di Cdp Reti spa alla State grid international development controllata da una grande impresa statale cinese, con cui si possono costruire iniziative strategiche anche in altri settori.

Le (quasi) aziende locali. Il Consiglio dei ministri ha rinviato ogni decisione che le riguarda alla legge di stabilità. In base al rapporto del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, l’obiettivo è quello far scendere queste quasi-aziende da circa 8.000 a 1.000 in tre anni. Questa sarà una strada impervia per le resistenze corporative e le rendite di posizione dei potentati locali. Anche per questo abbiamo titolato “quasi-aziende” perché molte non hanno nulla dell’impresa data la loro origine e/o la loro dissestata gestione. Cottarelli ha radiografato le partecipazioni degli enti locali quantificandole in 7.726 aziende (avvertendo che potrebbero essere 10mila). Tra queste l’82% sono dirette e le altre indirette; il 20% è interamente pubblico e il 28% a maggioranza pubblica; il restante 52% a maggioranza privata. Il totale dei dipendenti si avvicina ai 500mila di cui 377mila in aziende a gestione privata e 123mila a gestione pubblica. La distribuzione settoriale s’avvicina ai 360 gradi ed è ben al di là dei 5 settori tradizionali dei servizi pubblici a rete soggetti a regolazione (elettricità, gas, acqua, rifiuti, trasporto). Ce ne sono poi 1.250 non operative che potrebbero essere chiuse subito. Cottarelli delinea una strategia per farle scendere a 1.000 (è il numero di quelle in Francia) in un triennio con l’aggregazione e lo sfruttamento di economie di scala per migliorarne l’efficienza con benefici per la finanza pubblica stimati a regime in almeno 2-3 miliardi annui, ai quali aggiungere i benefici di maggiore efficienza per i cittadini. Gli esempi di aziende locali (quotate in Borsa o no) che vanno bene ci sono e bisogna respingere l’affermazione che le perdite sono causate dalle esigenze del pubblico servizio.

Una conclusione. Un passaggio ulteriore, forse più difficile, riguarda il patrimonio immobiliare su cui è adesso disponibile un studio del Mef. Ne tratteremo in altra occasione salvo rilevare che a oggi il Mef ha ottenuto risposte solo dal 45% delle Pubbliche amministrazioni incluse nella rilevazione. Ecco qui un’altra sfida per il governo che speriamo, per l’Italia, possa essere vinta.

La partita che l’Italia rischia di perdere

La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Perché serve una politica per industria e infrastrutture

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

La domanda se l’Eurozona (Uem) si avvia a una strisciante depressione e deflazione è emersa chiara dopo i brutti dati sul secondo trimestre 2014. Il Pil è stato infatti a crescita zero sul primo trimestre e in crescita solo dello 0,7% su quello corrispondente del 2013 con l’inflazione annua scesa allo 0,4% in luglio. Tentiamo una risposta con alcune analisi e alcune proposte.

Manca una vera politica. Le previsioni di una crescita sostenibile della Uem sono adesso riviste al ribasso con spiegazioni (tra cui quella attuale ma debole della crisi Russia-Ucraina) che cambiano spesso salvo quella sulla necessità che i Paesi ritardatari accelerino le riforme strutturali.
Il problema è che manca una politica economica della Uem che, invece, ha tacitamente affidato il compito alla Bce (esclusa la politica fiscale restrittiva) slegandole però “un dito alla volta”. In queste condizioni la Bce di Mario Draghi ha fatto molto negli anni passati ma adesso bisogna chiedersi se può da sola rilanciare la crescita di un’area da 335 milioni di persone e con 19 milioni di disoccupati. Ovvero di grandezze maggiori di quelle Usa dove la banca centrale (Fed) ha poteri illimitati.

Le politiche della Bce. Non bisogna perciò riporre troppe aspettative sulla Bce anche se tra il 2010 e il 2013 ha salvato l’euro. La sequenza delle sue operazioni, giustificate per garantire la stabilità finanziaria dell’Eurozona, è stata notevole. Nel 2010 partì il «security market programme» (Smp) per l’acquisto di titoli di Stato dei Paesi della Uem in difficoltà. Poi, tra il dicembre 2011 e il febbraio 2012, si passò alle Longer term refinancing operations (Ltro) con prestiti alle banche della Uem di circa 1.000 miliardi di euro (con titoli vari in garanzia) che le hanno salvate, indirettamente favorendo anche gli acquisti dei titoli di Stato di Paesi traballanti. Nel luglio del 2012 Draghi, in un famoso discorso, affermò che la Bce avrebbe comunque salvato l’euro. In settembre fu annunciato il programma Outright monetary transaction (Omt) per operare illimitatamente sul mercato secondario dei titoli di stato per i Paesi della eurozona in programmi di ristrutturazione vigilata. Questi annunci conclusero il salvataggio dell’euro e dei debiti sovrani riportando i tassi di interesse a livelli ed a spread accettabili rispetto ai titoli tedeschi. Ciò non è bastato però per risollevare una Uem fiaccata e divaricata tra Paesi dove le necessarie riforme strutturali non possono avere effetti istantanei.

Il credito all’economia. In assenza di una politica economica per l’eurozona l’annuncio di Draghi del 5 giugno di nuove misure per riportare la dinamica dei prezzi dell’eurozona verso un tasso annuo del 2%, che è ritenuto fisiologicamente nel mandato della Bce, è una buona notizia ma non si può dire se rilancerà la crescita dell’eurozona. Le misure annunciate (Tltro ovvero Targeted Longer-term refinancing operation) consistono nella concessione di prestiti alle banche commerciali a condizione (vigilata) che li girino all’economia reale spingendo la domanda delle imprese e delle famiglie (esclusi i mutui casa), l’occupazione e la crescita. L’entità dei prestiti della Bce, le condizioni e la tempistica si possono riassumere come segue. I prestiti alle banche possono arrivare a 1.000 miliardi tra settembre di quest’anno e giugno 2016. Nel 2014 in due tranches potrebbero arrivare 400 miliardi pari al 7% dei crediti che le banche hanno concesso alla data del 30 aprile 2014. Il tasso sarà dello 0,10 superiore a quello ufficiale della Bce attualmente allo 0,15%. Alle banche italiane potrebbero arrivare 75 miliardi. L’erogazione dei prestiti della Bce nel corso del 2015 e 2016 è un po’ più complessa in quanto calibrata sull’entità dei crediti concessi nel citato periodo dalle banche commerciali all’economia reale. Nel giugno del 2016 avverrà un controllo cruciale per distinguere tra le banche che hanno rispettato, tra il maggio 2014 e l’aprile 2016, degli obiettivi prefissati di credito alle imprese e famiglie e quelle che non li hanno rispettati. Le prime potranno detenere i prestiti della Bce fino a settembre 2018 mentre le altre dovranno rimborsali entro settembre 2016. Malgrado le ottime condizioni di tassi praticati dalla Bce molti sono ancora i quesiti aperti per valutare l’efficacia di queste misure sia perché la banche hanno requisiti stringenti di patrimonio da rispettare per l’erogazione dei prestiti sia perché, se dall’economia reale (imprese e famiglie) non viene una sana domanda di credito, non si può correre il rischio di erogazioni a pioggia.
Secondo una stima l’effetto cumulato del Tltro sarebbe di 0,2-0,4 punti percentuali al Pil della Uem nel 2015-16 con una spinta sui prezzi dello 0,1%. Sono entità modeste.
Il credito per gli investimenti. Essendo l’economia reale ferma perché la domanda di investimenti e consumi non riparte, non basta offrire alle banche crediti a buone condizioni. Una proposta intelligente per potenziare subito il Tltro della Bce in Italia è stata suggerita il 10 giugno da Franco Bassanini ed Edoardo Reviglio su queste colonne. Si tratta di incentivare l’erogazione del credito bancario a favore delle imprese dando una garanzia pubblica parziale alle Banche tramite un potenziamento del Fondo centrale di garanzia o (per operazioni non consentite allo stesso) tramite la Cdp a sua volta garantita dallo Stato. La legge di stabilità 2014 già lo ammette ma manca il decreto attuativo. In tal modo si alleggerirebbe il vincolo dei ratio patrimoniali imposti alle banche incentivando il credito anche su quei progetti di investimento che per la loro innovatività possono avere ritorni più lenti e meno certi. Più complesso è il tema del finanziamento degli investimenti in infrastrutture che il Tltro ammette ma che difficilmente le banche commerciali affronterebbero. Bassanini e Reviglio non lo esaminano ma sembra che le Casse depositi e prestiti europee (e altri investitori a lungo termine) stiano elaborando una proposta per chiedere alla Bce una variante infrastrutturale al TLRTO che non commisuri questi investimenti a quelli da loro finanziati in precedenza e che ne allunghi ad almeno sette anni la durata.

Una conclusione. Da tempo sosteniamo che la Uem ha bisogno di una politica per le infrastrutture e l’industria che darebbe anche delle direttrici alle banche ed alle imprese per fare solide scelte di credito e di investimento alla cui attuazione la Bei e le Casse depositi e prestiti possono molto contribuire. La supplenza della Bce, che a breve avvierà anche un programma di acquisti di crediti bancari cartolarizzati (ABS), non può bastare. Per questo abbiamo apprezzato il programma del neopresidente della Commissione Junker centrato sulla crescita e l’occupazione. Adesso bisogna realizzarlo.

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

Un confine tra passato di crisi e futuro di ripresa

 Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Il calo del Pil italiano del secondo trimestre conferma una discesa che prosegue dal terzo trimestre del 2011. L’attenuazione del calo sui dati tendenziali trimestrali non basta a tranquillizzare e quindi bisogna che il Governo sia in Italia che in Europa (e con il supporto di tutte le forze produttive) tracci un confine netto tra un passato di crisi e un futuro di ripresa.

Il Pil trimestrale. Un calo dello 0,2% sul trimestre precedente e dello 0,3% sul corrispondente trimestre del 2013 (con “calo acquisito” del Pil per il 2014 dello 0,3%) è preoccupante, anche perché riguarda tutti e tre macro-settori dell’economia (agricoltura, industria, servizi). La variazione delle domanda interna è nulla mentre la componente estera è negativa per gli effetti della crisi Russia-Ucraina che intaccherà anche i prossimi dati tedeschi. Meglio è andata la produzione industriale che è cresciuta in giugno su maggio e nel primo semestre 2014 sul corrispondente del 2013 ma che non ha compensato i cali del Pil.

La lunga crisi italiana. Per varie ragioni (politiche,economiche,fiscali) siamo rimasti più esposti alla crisi di altri grandi Paesi della Eurozona anche perché la nostra non-crescita ha una storia lunga. Limitandoci agli ultimi 10 anni, dal 2005 abbiamo avuto una crescita media annua molto più bassa dell’Eurozona. Nel quinquennio 2005-09 abbiamo avuto un calo medio annuo di circa lo 0,4% mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1,1 punti percentuali in media annua. Sul 2010-14 l’Italia è calata circa dello 0,3% medio annuo mentre la Uem è cresciuta dello 0,7%. Dunque una differenza di 1 punto percentuale annuo. Non sono differenze da poco.

Le cause di questo divario sono state analizzate dall’Fmi, dall’Ocse, dalla Commissione Europea, dalla Banca d’Italia e anche nel Def del Governo presentato alla Commissione europea in aprile. Consideriamo solo tre temi italo-europei interrelati e relativi alle istituzioni e agli apparati, all’economia e agli investimenti, all’Europa e alla crescita.

Le istituzioni e gli apparati. Dal 2005, in 10 anni, abbiamo avuto sei governi (Berlusconi, Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi) mentre negli altri tre grandi Paesi europei (Germania, Francia, Spagna) le successioni sono state quelle delle legislature. Ha ragione Padoan nel ritenere che le riforme costituzionali e istituzionali possono avere un impatto sull’economia dando certezza di durata ai Governi e semplificando i processi legislative. Ma questo non basta perché certezza e fiducia vanno di pari passo con le riforme, purchè siano quelle necessarie. Il che, stando alle osservazioni degli organismi internazionali, non è accaduto in Italia anche se nel decennio 2001-2011 c’è stata una sostanziale continuità dei Governi Berlusconi, salvo la parentesi di Prodi 2006-2008. In Italia troppe riforme epocali sono state solo annunciate, altre buone insabbiate, altre infine sbagliate. È mancata quella continuità realizzatrice che antepone l’interesse nazionale alla partigianeria politica (forte persino dentro i singoli partiti) e alla critica fine a se stessa ma è anche mancato un forte supporto tecnico degli apparati pubblici. Perciò la riforma degli apparati pubblici è essenziale come ci chiede l’Europa per arrivare alla certezza, stabilità e semplicità delle norme, alla rapidità della giustizia, allo snellimento della burocrazia. È infatti evidente che la nostra “macchina pubblica” non è efficiente (anche se ci sono non pochi tecnocrati capaci) causando costi diretti in termini di spesa pubblica e costi indiretti sui cittadini e le imprese. In queste riforme il Presidente del Consiglio Renzi deve mettere molta determinazione utilizzando anche le competenze necessarie per correggere evitando di distruggere.

L’economia e gli investimenti. Le urgenze dell’economia richiedono anche alcune, poche e chiare, accelerazioni. Tutti sanno che l’Italia ha limitatissimi spazi di finanza pubblica a causa dei vincoli europei. Tutti sanno anche che la manifattura italiana esportatrice è stata la rete d’acciaio che ha tenuto insieme la nostra economia (e anche di più) durante la crisi. Non sempre si ricorda però che gli investimenti totali (pubblici e privati) sul Pil (per di più calante!) sono scesi dal 22% del 2007 al 17% del 2013 e che le previsioni indicano una ripresa così lenta che solo nel 2019 ritorneranno al 20%. Cruciale è perciò il rilancio degli investimenti sia nel partenariato pubblico privato sia nelle imprese per creare innovazione, reti e crescita dimensionale delle imprese, infrastrutture. Il Governo, così come quello Letta, ha messo in campo varie misure per l’economia reale (dalla nuova Sabatini, allo sblocca-Italia, alla riduzione del cuneo fiscale, al potenziamento dell’Ace) ma non basta. Per questo ci vuole presso la presidenza del Consiglio una task force di raccordo tra i ministri dello Sviluppo e delle Infrastutture, la Cassa Depositi e prestiti, il sistema imprenditoriale e bancario per massimizzare l’uso delle risorse della Bei e del Quadro Finanziario poliennale della Ue. E anche per orientare agli investimenti delle imprese la liquidità che da settembre verrà dal Tltro della Bce.

L’Europa e la crescita. Padoan ha rassicurato che il limite del 3% del deficit sul Pil non verrà superato senza bisogno di una manovra aggiuntiva. Speriamo che sia così ma in ogni caso riteniamo che si debbano scegliere delle priorità per la crescita che riguardano l’Italia e l’Europa. La nostra priorità è la spending review dove il programma Cottarelli è già ben definito. Forse non si potranno avere i risparmi lordi annui di 7 miliardi nel 2014, di 18 nel 2015, di 34 nel 2016. Basterebbe la metà dei risparmi, purché certa, da riallocare in parte agli investimenti. Poi bisogna passare con la stessa logica a valorizzare i tanti patrimoni pubblici anche per ridurre il debito senza danneggiare il Pil. Sugli investimenti il Presidente del Consiglio deve mettere tutto il suo peso politico sul presidente della Commissione europea Juncker non solo per spostare almeno al 2017 il nostro pareggio strutturale di bilancio (ce lo meriteremmo perché, come documenta Fortis, siamo i campioni europei degli avanzi primari a danno della nostra crescita) come sarà di certo per Francia e Spagna. Bisogna anche spingere (come chiede persino l’Fmi) l’Europa ad una politica espansiva con gli investimenti infrastrutturali e mettere la Germania di fronte alle responsabilità del suo eccesso di risparmio e di vari surplus dovuti non solo alla sue virtù ma anche alla sua miopia.

Perciò l’Italia ha bisogno di un Commissario europeo forte all’economia reale che, pur nel rispetto “alla Draghi” del ruolo europeo, supporti l’attuale incisività politica di Renzi per evitare a noi e all’Europa un declino lento ma certo.