La partita che l’Italia rischia di perdere

Alberto Quadrio Curzio – Il Sole 24 Ore

Dal Consiglio dei capi di Stato o di Governo della Ue di sabato dovrebbero arrivare le designazioni sia dei commissari europei sia del presidente del Consiglio sia dell’Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Sembra che il commissario per gli affari economici e monetari sarà francese, che il presidente del Consiglio (di cui Van Rompuy ha dimostrato l’importanza) sarà spagnolo, che l’Alto rappresentante (di cui la Ashton ha dimostrato l’irrilevanza) sarà italiana.

Noi abbiamo sempre sostenuto che l’Italia doveva avere un commissario per l’economia reale sia con un ruolo di coordinamento tra vari altri commissari sia per varare l’industrial compact. Così avremmo pesato davvero nei prossimi cinque anni sia nel governo economico dell’Europa sia nell’attenuare la linea (per necessità) filotedesca della Francia. Cioè quella del rigore senza crescita. Già ora non sono un buon segnale le dimissioni del governo francese per sbarazzarsi del ministro dell’economia che aveva accusato la politica economica francese di sudditanza alla Germania. Anche se Hollande stesso, sia pure garbatamente, ha più volte espresso riserve sulla politica del rigore.

L’urgenza della crescita. Il prossimo quinquennio istituzionale europeo sarà infatti cruciale per il rilancio della crescita perché la crisi occupazionale della Uem da socio-economica potrebbe diventare istituzionale. Sono preoccupazioni espresse nei giorni scorsi sia da Mario Draghi (con il garbo del suo status) sia più duramente dal premio Nobel Joseph Stiglitz che ha paventato un quarto di secolo di crisi europea se non si fanno investimenti infrastrutturali e non si spinge la domanda. Angela Merkel gli ha risposto direttamente (e forse indirettamente anche a Draghi) confermando la politica del rigore e delle sanzioni (da appesantire!) ai Paesi europei che non rispettano i vincoli di bilancio. Su queste premesse un confronto tra governi sarà inevitabile nei Consigli della Ue dove non basta la determinazione perché ci vuole anche potere e competenza. Carature che Draghi ha, ma che non userà certo per l’Italia essendo il suo ruolo nella e per la Uem.

Le valutazioni di Draghi. Nel recente simposio dei banchieri centrali negli Usa, Draghi scegliendo di trattare della “disoccupazione nell’area euro” ha ricollocato la sua funzione di banchiere centrale in quella ben più ampia di una personalità preoccupata della tenuta della Uem stessa. Così noi interpretiamo liberamente il suo intervento. Egli è stato netto sia sui danni pervasivi di una elevata disoccupazione che diventa crescendo sempre più strutturale in molti Paesi sia sull’urgenza di combatterla accettando il rischio di fare troppo piuttosto che troppo poco. Su questo obiettivo primario Draghi articola (garbatamente) le sue proposte di politica economica a tutto campo (monetaria, fiscale, delle riforme strutturali, per gli investimenti) con riferimento sia alle politiche della domanda che a quelle dell’offerta, per l’Eurozona e i singoli Paesi membri.
In premessa Draghi segnala che la Bce ha fatto e farà tutto il possibile per combattere la disoccupazione (che per noi si coniuga con deflazione-stagnazione) dell’Eurozona. Precisa però che la Bce, date le condizioni iniziali della Uem e i vincoli legali, non ha potuto (diversamente dalla Banche centrali di altri Paesi) attuare un acquisto generalizzato di titoli obbligazionari di Stato (e non) creando moneta (quantitative easing) e così supportando la politica fiscale.

Noi dubitiamo che adesso questa scelta sarebbe efficace nella Uem dove la fiducia s’è volatizzata e per questo preferiamo altre politiche economiche proposte da Draghi per rilanciare la Uem e ridurre la disoccupazione. Continuando nella nostra libera sintesi interpretativa (soprattutto per i riferimenti ai Paesi che egli non cita), Draghi rivolge moniti ai Paesi (come Italia e Francia) che non possono fare politiche espansive dati i vincoli di bilancio, invitandoli a riforme strutturali e ad una migliore composizione tra tassazione (da abbassare) e spesa pubblica (da ristrutturare). Rivolge anche moniti ai Paesi (come la Germania) che possono invece fare politiche espansive della domanda che contribuirebbero alla crescita di tutta l’Eurozona.

La governance dell’Eurozona. Draghi rivolge infine raccomandazioni per una governance dell’Eurozona affinché interpreti le regole di bilancio vigenti in modo flessibile così da ridurre i costi delle riforme e aumentare la crescita nei Paesi più deboli (leggasi scambio flessibilità-riforme) e dia corso a un programma di investimenti pubblici. Queste valutazioni chiariscono che il tempo si è fatto davvero breve e che urge la concretezza delle decisioni da combinare però con riforme a medio termine del governo dell’Eurozona. Ciò significa ripartire dai due programmi del novembre e dicembre 2012 per “un’autentica unione economica e monetaria” elaborati rispettivamente dalla Commissione europea e dai quattro presidenti (Van Rompuy, Barroso, Juncker, Draghi). Sulla loro base il Consiglio europeo del dicembre 2012 ha preso delle deliberazioni che si sono però concentrate sulle prescrizioni di bilancio e sull’Unione bancaria. Tenui sono invece le tracce di politiche per gli investimenti e le infrastrutture salvo un accenno a investimenti pubblici produttivi ricompresi nel quadro di bilancio poliennale della Ue e nel rispetto dei vincoli di bilancio per i singoli Stati. Adesso che la situazione si è fatta (ancora) più grave (anche perché allora non c’era deflazione) vanno forzate le tappe ricollocando i citati programmi per la Uem dentro quello del neo-presidente della Commissione Juncker (si veda il nostro articolo del 20 luglio scorso) e sfruttando le possibilità del Trattato di Lisbona sulle cooperazioni rafforzate dell’Eurozona.

Una conclusione: finanziare gli investimenti. Juncker ha prefigurato infatti un programma di investimenti per 300 miliardi nei prossimi 3 anni ponendo una forte enfasi sull’economia reale, sull’industria, sulle infrastrutture e sulla Bei. Juncker e Draghi, che hanno collaborato spesso, potrebbero dare una scossa alla Uem puntando subito ad una emissione di obbligazioni ventennali della Bei per 100 miliardi sottoscritta dalla Bce. Si potrebbero così spingere gli investimenti infrastrutturali e delle imprese per entità che, anche per i moltiplicatori e per i partenariati pubblico-privati, arriverebbero facilmente ai 300 miliardi del piano Juncker. La Bei darebbe la certezza di investimenti veri senza intaccare i bilanci dei Paesi deboli e così superando anche le obiezioni della Germania alla “golden rule” per i singoli Paesi.