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Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Il triste record tricolore: se ne va in tasse quasi mezzo stipendio

Antonio Signorini – Il Giornale

Costo del lavoro sempre più alto e sempre meno soldi in tasca ai lavoratori. Soprattutto per quelli con famiglia. L’anomalia italiana di un cuneo fiscale molto alto non è un ricordo del passato. Nonostante continui proclami dei governi di turno e i tanti richiami da parte degli osservatori internazionali, la differenza tra quanto i datori spendono e l’effettivo stipendio dei dipendenti continua ad aumentare. In totale controtendenza rispetto agli altri paesi occidentali.

Il Centro Studi ImpresaLavoro, presieduto dall’imprenditore Massimo Blasoni, rielaborando dati Ocse, ha calcolato che la somma delle imposte e dei contributi per un lavoratore dipendente single tra il 2007 e il 2015 è cresciuto negli ultimi anni del 2,57%. Il cuneo, cioè la differenza tra il lordo e il netto dello stipendio è arrivato al 48,96% del costo del lavoro.

Gli altri Paesi Ocse hanno imboccato da tempo un’altra strada. La media dei membri dell’organizzazione di Parigi è infatti in calo dello 0,11% rispetto al 2007 e dello 0,72% rispetto al 2000. I Paesi che hanno scelto di rendere il lavoro più conveniente sono economie vicine a quella italiana: la Germania (-2,36%), la Francia (-1,29%) e il Regno Unito (-3,29%). Il cuneo è aumentato anche in altri paesi, ma sempre in misura minore rispetto all’Italia. Negli Stati Uniti (+0,74%), in Australia (+0,65%), in Spagna (+0,57%) e in Canada (+0,36%). Tutti sotto il punto percentuale, osserva il centro Studi ImpresaLavoro.

Il dato peggiora se si prende un lavoratore con famiglia. Nelle coppie sposate con due figli in cui lavora solo uno dei due genitori, per esempio, il cuneo fiscale in Italia è cresciuto del 4,14% rispetto al 2007. Ancora una volta la performance peggiore. Dopo di noi, sempre tra i paesi dell’Ocse, seguono a distanza Giappone (+2,99%), Australia (+2,88%), Stati Uniti (+1,47%) e Spagna (+0/92%). Ancora una volta i partner europei più forti, dimostrano di puntare più di noi sulla competitività e sull’equità. La Germania registra un calo del cuneo per i lavoratori con famiglia del 1,49%, la Francia del 2,00% e il Regno Unito del 2,04%. Va un po’ meglio per le famiglie italiane sposate con due figli nelle quali lavorano entrambi i genitori, con un aumento del cuneo complessivo tra il 2007 e il 2015 che si ferma al 1,55%.

Dati che pongono al governo una sfida complessa. Da un lato quella, antica, che vorrebbe fare recuperare competitività al paese proprio agendo sul cuneo. Quindi tagli al peso del fisco sull’impresa. In realtà il governo ha intenzione di rinviare ulteriormente il taglio dell’Ires, imposta che grava sulle aziende, di un altro anno, per concentrarsi su misure immediatamente percepibili per le famiglie.

Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

Spread, la crisi ci è costata 50 miliardi

di Antonio Signorini – Il Giornale

La crisi dello spread, cioè l’esplosione degli interessi sul debito pubblico italiano, è costata alle casse dello Stato 50 miliardi di euro. Cifra che rappresenta la differenza tra la spesa degli interessi nel clou dell’emergenza e quanto lo Stato avrebbe pagato per il servizio del debito in una situazione normale. La stima è contenuta in una analisi realizzata centro studi ImpresaLavoro. Gli anni presi in considerazione sono quelli dal 2008 al 2015. Il primo picco della crisi nel 2011, con i tassi dei Btp decennali a rendimenti di cinque punti superiori rispetto a quello dei Bund tedeschi. Il governo Berlusconi fu costretto alle dimissioni e si insediò Mario Monti. Gli spread tornarono comunque a salire fino a quota 537.

Per capire cosa ha significato per le casse pubbliche, quindi per i cittadini, ImpresaLavoro ha ipotizzato uno scenario diverso, applicando al periodo 2011/2013 la media del prezzo cedolare e del prezzo di aggiudicazione del periodo 2011/2013, su tutti i titoli di Stato. La differenza in spesa per interessi che emerge è appunto 50 miliardi. Una spirale che ci avrebbe portato a picco, se Mario Draghi non avesse proposto e ottenuto il Fondo salva Stati annunciando che la Bce avrebbe fatto «tutto il necessario» per salvare 1’euro. Cinquanta miliardi sono la misura della sfiducia degli investitori internazionali nei confronti dell’Italia.

E il sostegno di Francoforte non può essere l’unica soluzione, sottolinea Massimo Blasoni, presidente del centro studi ImpresaLavoro. «Nei primi undici mesi del 2015 – sottolinea l’imprenditore – il nostro debito pubblico è aumentato di ulteriori 76 miliardi di euro e per ora scende soltanto nelle previsioni del governo, tutte da confermare, per gli anni a venire. Una riedizione di quanto avvenuto nel 2011 è stata sin qui scongiurata dall’attivismo della Bce e di Draghi ma l’alto debito pubblico del nostro paese ci espone costantemente al rischio di finire in balia delle turbolenze dei mercati finanziari con costi molto alti, sia dal punto di vista economico che politico». Il Quantitative Easing non può influire sulla «debolezza delle nostre banche che è un riflesso della debolezza di un paese troppo indebitato». Quindi, sottolinea Blasoni, l’unico modo per evitare altre crisi è «rimettere in ordine i nostri conti pubblici, riducendo il nostro debito. Un’operazione che, numeri alla mano, al governo non sta riuscendo».

Qualche segnale dei possibili rischi emerge anche dalle tabelle dello studio. Nel 2015 la media del prezzo dei Btp a dieci anni è sempre sopra 100, così come la richiesta di titoli. Ma entrambi gli indici sono in calo di circa tre punti rispetto al 2014. La sfiducia rischia di essere più forte della Bce.

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

Il Bel paese delle tasse. Dal ’79 nessuno al mondo le ha alzate come l’Italia

di Antonio Signorini – Il Giornale

Sono passati 35 anni, 15 governi e due repubbliche, ma poco è cambiato. Il vizio della politica italiana di risolvere tutto aumentando le tasse non è passato di moda e il risultato è che siamo il paese Ocse (organizzazione che riunisce le economie più sviluppate del pianeta) dove la pressione fiscale è aumentata in misura maggiore. È decollata negli anni Settanta, quando un po’ ovunque si pensava che il fisco servisse a redistribuire ricchezza, ma è cresciuta anche negli Ottanta, quando nel resto del mondo tutti si erano accorti che aumentando le tasse non si fa altro che danneggiare imprese e famiglie. Nulla è cambiato nemmeno negli anni Novanta né con il terzo millennio.

La fondazione ImpresaLavoro, approfittando delle serie storiche della pressione fiscale rese disponibili dalla stessa Ocse, è arrivata alla conclusione che l’Italia detiene saldamente il primato degli aumenti delle tasse. Nel 1979 il peso delle tasse nel nostro paese superava di poco il 25% del Prodotto Interno Lordo, nel 2014 si è stabilito al 43,6%. Un balzo in avanti di più di 18 punti di Pil che non ha eguali tra le economie avanzate. Seguono a distanza Paesi come la Turchia con aumenti del 16,9% e la Grecia con il 14,6%. La Francia, statalista e burocratica, nello stesso periodo ha infierito sui contribuenti solo per il 7,1%. La media Ocse è del 4,4%, quattro volte inferiore alla poco invidiabile performance italiana. Dai dati Ocse emerge che ci sono economie che hanno lasciato la pressione fiscale più o meno invariata. Sono le democrazie di tradizione più solida e antica: il Regno unito (più 1,88%) e gli Stati Uniti (più 0,83%). Ma ci sono anche stati che possono vantare una riduzione della pressione fiscale. E non sono dei «mostri» del liberismo selvaggio. La Germania, culla del welfare, ha registrato un calo dello 0,2 per cento. Svezia e Norvegia, hanno registrato un calo dell’1,2%. Nel 1979 la pressione fiscale italiana era simile a quella degli Stati Uniti, poco sopra il 25%, la Germania era al 36%. Oggi il superstato riunificato è sempre sulla stessa percentuale, noi otto punti sopra. Avevamo un vantaggio competitivo e ce lo siamo mangiato.

«Al di là degli scostamenti dello zero virgola – spiega Massimo Blasoni, imprenditore e presidente del Centro Studi ImpresaLavoro – il dato dimostra che la questione fiscale nel nostro paese rimane una vera e propria emergenza che si può affrontare solo tagliando decisamente la spesa. La spending review è, invece, rimasta solo un annuncio: se non vogliamo accontentarci di tagli fiscali solo sulle slide, avremo bisogno di una revisione e di una riduzione coraggiosa del perimetro dello Stato». Una volontà che, stando ai fatti, non c’è. Le imposte sulla proprietà dal 1979 al 2015 sono aumentate del 164%. Quelle sui redditi e sui profitti dell’82,6%. Il partito della patrimoniale non ha mai vinto le elezioni. Ma il suo obiettivo l’ha raggiunto lo stesso: ha trascinato giù tutto il Paese.

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Sanguisughe di Stato, pure una tassa sulle tasse

Antonio Signorini – Il Giornale

Tasse che non accennano a diminuire. A partire dalla Local tax, che il governo si appresta a varare senza fare risparmiare un centesimo ai cittadini. Poi, tasse che servono ad alimentare una macchina burocratica che a sua volta fa sprecare tempo e denaro a chi crea ricchezza per il paese. Il centro studi ImpresaLavoro ha calcolato che essere in regola con il fisco costa carissimo ai cittadini italiani. Un’azienda media spende 7.559 euro all’anno per sbrogliare le complicazioni burocratiche del fisco. Un macchina alimentata dalle stesse tasse e che contribuisce a rendere il paese più povero.

Caso unico in Europa. Solo da noi un’azienda deve dedicare in media 269 ore di lavoro all’anno per preparare, compilare e pagare i moduli relativi alle imposte sul lavoro, sul valore aggiunto e sui redditi di impresa. Lavoro dei dipendenti sottratto all’attività produttiva. Il Paese più vicino al nostro in termini di tributo al grande fratello fiscale è la Germania con 218 ore. In Francia il fisco richiede solo 137 ore all’anno. Segno che anche una burocrazia mastodontica come quella dell’Esagono, non grava necessariamente sui cittadini. Ci battono solo la Bulgaria, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, dove però il costo del lavoro è molto più basso del nostro e quindi la perdita per le imprese è ridotta.

Di inversioni di rotta in vista non ce ne sono. Il 730 precompilato è ancora da testare. E la giungla di tributi è sempre quella. Per non parlare di un alleggerimento della pressione fiscale. La Local tax è nata come semplificazione e come riduzione delle imposte locali. Ma in pochi ci credono. «Innanzitutto cerchiamo di introdurla, poi vedremo di fissarla perché sia conveniente per tutti», ha spiegato ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Tradotto, la nuova imposta locale che sostituirà Imu, Tasi e Tari non farà risparmiare nessuno. Sarà l’ennesimo cambio di nome per le tasse che gravano sul mattone. Sigla diversa, stessi salassi.

Per eventuali tagli alle imposte più odiate dagli italiani non resterà che aspettare tempi migliori, tanto che associazioni come Confedilizia si stanno battendo per l’invarianza di gettito. Cioè per evitare un ulteriore stangata (la terza ondata di aumenti di imposte sulla casa dopo quelle di Monti e di Letta). Ipotesi per nulla scontata visto che ieri, proprio Confedilizia, grande sponsor della Local tax, ha cambiato idea e ha chiesto al governo di fermarsi. «Se la Local tax si limiterà solo a rendere più facilmente pagabile lo stesso gravame impositivo, è forse meglio passare oltre», ha spiegato il presidente Corrado Sforza Fogliani. «Gli italiani, per passare da un incubo alla speranza, hanno bisogno di un alleviamento, non di una conferma sia pure indiretta dell’attuale peso di imposte sulle loro case». La prospettiva è invece quella di fare passare in un’ «unica» soluzione 26 miliardi di euro direttamente nelle casse dei Comuni italiani, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. Sono quelli di Imu e Tasi (21,1 miliardi di euro), dell’addizionale comunale Irpef (4,1 miliardi di euro), dell’imposta sulla pubblicità (426 milioni di euro), della tassa sull’occupazione degli spazi e aree pubbliche (218 milioni di euro), dell’imposta di soggiorno (105 milioni di euro) e dell’imposta di scopo (14 milioni di euro). Cambieranno nome, ma le cifre resteranno quelle.

Sempre che non aumentino.

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Il compagno non paga i debiti e l’Italia ci rimette 24 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

Le promesse elettorali costano e quelle di Syriza non fanno eccezione. Unico particolare: il conto della Tsipranomics rischiano di pagarlo, non tanto gli elettori che hanno portato la sinistra al governo il giovane ex no global, quanto gli altri contribuenti europei. Italiani in testa. Già si può ipotizzare una cifra di quanto ci potrebbe costare il voto ellenico: 24 miliardi di euro. Più di due anni di coperture del bonus Renzi, un anno di gettito delle odiatissime tasse comunali sulla casa, Imu e Tasi, sacrificati sull’altare dell’ennesimo ritorno della sinistra.

Soldi bruciati, è bene precisarlo, non perché le nostre banche o gli investitori privati a un certo punto abbiano deciso di rischiare comprando titoli greci. Come hanno fatto, ad esempio, i tedeschi. L’Italia è esposta verso Atene per 40 miliardi di euro. Ma dentro questa cifra, per nulla irrilevante, ci sono praticamente solo i prestiti bilaterali dell’Italia alla Grecia e poi la quota che paghiamo al fondo europeo salva stati, nelle due versioni Esm ed Efsf. In sostanza, se Tsipras deciderà di rinegoziare il debito, di non pagarlo o di fare qualunque azione unilaterale sui soldi che la Grecia deve al mondo, penalizzerà automaticamente i contribuenti dei Paesi che gli hanno dato fiducia. Italiani in testa. Non il mostro euroliberista che in campagna elettorale il suo partito (insieme all’estrema destra) diceva di volere combattere, né i grandi speculatori della finanza internazionale, ma lavoratori, cittadini e contribuenti francesi, tedeschi e anche italiani. Compresi quelli che domenica sera hanno festeggiato l’ascesa della sinistra estrema al governo della Grecia in nome di un ritorno del «fattore umano».

Più esposti degli italiani, ci sono solo la Germania con 60 miliardi e la Francia con 46 miliardi di euro. I tre Paesi insieme fanno quasi la metà dei sottoscrittori del debito pubblico greco, che ammonta a 322 miliardi di euro. Possono sembrare pochi a noi che viaggiamo sopra i 2mila miliardi, ma quella cifra corrisponde al 177% del Pil ellenico. Quello che colpisce, e non in modo positivo, è che, a differenza degli altri due Paesi europei, l’unico credito che noi vantiamo verso la Grecia è quello degli aiuti, europei e bilaterali.

L’esposizione delle banche italiane sul debito greco, pubblico e privato, è di appena 1,1 miliardi secondo la Banca dei regolamenti internazionali, contro i 22,3 miliardi della Germania. Gli investitori italiani hanno evitato il rischio greco, salvo poi ritrovarlo sotto forma di partecipazione ai piani di aiuto europei e attuazione dei patti tra i due Paesi. Gli investimenti privati italiani sul debito estero preferiscono mete più sicure. Ad esempio, ci sono 43 miliardi italiani in Francia, 55 miliardi sulla Gran Bretagna, ben 96 miliardi sull’Austria e 258 miliardi sui titoli tedeschi (contro 126 miliardi tedeschi in Italia). Unici Paesi, non a rischio ma nemmeno virtuosi, con investimenti italiani, l’Irlanda con 12 poi 20 sulla Spagna e altri 20 sull’Ungheria.

Un ticket greco già lo paghiamo. Il debito dei piani di aiuto non rientra nel computo dei patti Ue, ma ci paghiamo gli interessi. Un impegno preso, al quale potrebbe aggiungersi, se Tsipras realizzerà veramente il suo programma, una perdita netta del credito che vantiamo nei confronti Atene. Il premier greco in pectore ha accennato a un taglio del 60%. Quindi, se il nuovo beniamino della sinistra italiana sarà coerente, dovremo rinunciare a 24 miliardi di euro. Una cifra che vale una manovra, bruciata per il voto di un altro elettorato, di altri contribuenti.

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

La riforma del versamento Iva nuova tagliola per le imprese

Antonio Signorini – Il Giornale

Le imprese sono sempre più a secco di liquidi e le scelte del governo rischiano di aggravare la loro situazione, invece di migliorarla. I ritardi nei pagamenti pubblici e privati – ha certificato ieri la Cgia di Mestre – pesano sul fatturato delle aziende per 34 miliardi di euro. Un male antico, quello delle fatture non saldate da committenti statali o da aziende, al quale rischia di aggiungersi il peso delle nuove norme sul pagamento dell’Iva.

Il cosiddetto reverse charge deciso dall’ultima legge di Stabilità prevede che l’Iva sia versata allo Stato direttamente dall’acquirente. Una partita di giro per quei settori che hanno un equilibrio nel tempo tra merci acquistate e quelle vendute. Ma non per tutti. Da qualche giorno arrivano al governo, ad esempio, gli allarmi del settore del latte e da quello della grande distribuzione. In questo caso il reverse charge farebbe aumentare il credito Iva già enorme (si parla di un miliardo di euro) drenando liquidità a un settore che già non se la passa bene. Tra i possibili effetti, difficoltà a pagare i fornitori di latte e un ulteriore spostamento degli acquisti verso il latte estero. Nella stessa situazione la grande distribuzione organizzata, le cui imprese diventeranno ancora di più dipendenti dai rimborsi Iva, quindi da crediti verso lo Stato.

E su questo fronte ancora non c’è da rallegrarsi. In Italia ben 3,4 milioni di imprese, pari al 76 per cento del totale nazionale, soffrono di problemi di liquidità riconducibili al ritardo nei pagamenti, ha calcolato ieri la Cgia di Mestre. I mancati incassi, sia su crediti verso il pubblico sia verso il privato, hanno comportato perdite di 35 miliardi di euro e 1,7 milioni di imprese, il 39 per cento del totale, hanno segnalato che a causa di questa criticità non hanno potuto effettuare assunzioni, mentre 900mila aziende (pari al 20 per cento) hanno valutato la possibilità di licenziare in ragione di problemi conseguenti al ritardo dei pagamenti. Infine, 700mila imprese (pari al 15 per cento del totale nazionale) si trovano sull’orlo del fallimento.

«Le cause di queste criticità – segnala il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – vanno ricercate nei tempi medi di pagamento effettivi presenti in Italia che intercorrono nelle transazioni commerciali sia tra imprese e Pubblica amministrazione, sia tra imprese private. Nel primo caso, i giorni medi necessari per il saldo fattura sono 165; nel secondo caso, invece, si arriva a 94 giorni». Il primo cattivo pagatore, insomma, ancora una volta è lo Stato. E «in entrambe le situazioni siamo maglia nera quando ci confrontiamo con i nostri principali partner dell’Ue».

È dall’ottobre scorso che il ministero dell’Economia non aggiorna i dati sul rimborso dei debiti della Pa. Segnalano che i debiti pagati dallo Stato e dalle Autonomie locali ammontano a 32,5 miliardi di euro. «Se si considera che nell’ultimo biennio sono stati messi a disposizione circa 56,3 miliardi di euro – spiega la Cgia – l’incidenza dei pagamenti effettuati sul totale è pari al 57,7 per cento. C’è stato un rallentamento, che ieri il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha spiegato in un’intervista al Sole24Ore . «Il problema è legato ai crediti per la spesa in conto capitale, dove dobbiamo tener conto dell’impatto sul deficit. Eppoi con alcune ragioni continuano ad esserci problemi. Si stanno comunque sbloccando nuove tranche». In sostanza, non si pagano i debiti per non incidere sul deficit e sforare i limiti europei.

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Altro che tagli, tasse per 50 miliardi

Antonio Signorini – Il Giornale

«Questo Paese svolta in maniera definitiva dal punto di vista della pressione fiscale». Lo ha detto ieri il sottosegretario alla presidenza Graziano Delrio, probabilmente nel tentativo di rassicurare contribuenti sempre più dubbiosi. Lo ha ribadito in serata dagli studi di “Che tempo che fa” il premier Renzi, rincarando la dose: «Con la legge di stabilità la pressione fiscale non è invariata, è diminuita», ha detto. Ma lo scetticismo sulla legge di Stabilità è del tutto fondato. Alimentato, più che da retroscena di gufi militanti, dai documenti ufficiali di governo e Parlamento. Il prospetto di copertura della prima «finanziaria» del governo Renzi, ad esempio, ci dice che nel 2016 e nel 2017, metteremo a posto i conti e non faremo più deficit, ma a un costo molto alto. Nel 2016 ci sono 31,7 miliardi di «nuove o maggiori entrate», che diventano 39,1 nel 2017. Sono in parte compensate, è vero, da «minori entrate», quindi da tagli di tasse, imposte e contributi rispettivamente per 9,4 e 9 miliardi. Ma il saldo resta da brividi: più di 20 miliardi nel 2016 e 30 nel 2017.

Nel conto della stangata fiscale futura ci sono soprattutto le clausole di salvaguardia. In altre parole, Bruxelles non vuole incertezze sui conti. Quindi, se una misura deve generare gettito o risparmi e ha effetti dubbi, a garanzia della cifra ci si mette un aumento di tasse certe. È il caso, famoso, delle accise sui carburanti, che potrebbero aumentare per coprire una entrata traballante da 1,7 miliardi, quella sul nuovo meccanismo di conteggio dell’Iva, messo in discussione dall’Ue. Poi ci sono le clausole che il governo Renzi ha ereditato dai precedenti esecutivi, che colpiscono l’Iva. Disinnescato l’aumento nel 2015, ritornano in grande stile dal 2016, quando è previsto un aumento dell’aliquota ordinaria dal 22 al 24% e di quella agevolata dal 10 al 12%. Nel 2018 l’imposta su beni e consumi, a legislazione vigente, dovrebbe arrivare rispettivamente a 25,5% e 13%. Solo le clausole, ha calcolato ieri Il Sole24Ore , a regime, cioè nel 2017, valgono otto miliardi di euro.

Ieri il testo della Stabilità è stato approvato senza modifiche dalla Commissione bilancio della Camera, nonostante i numerosi dubbi. «Abbiamo fatto un po’ di casini», ha ammesso lo stesso Renzi. Esulta il ministro Padoan che ringrazia «i senatori e lo staff del Governo, della Presidenza del Consiglio e del Ministero dell’Economia», ma i dubbi sul testo di legge rimangono. Ad esempio, sul credito di imposta del 10% sull’Irap a favore dei lavoratori senza dipendenti. Una modifica introdotta dal Senato per compensare un effetto indesiderato del taglio dell’imposta per le aziende. L’invito dei tecnici di Montecitorio di verificare la compatibilità con la norma europea ed «evitare eventuali procedure di infrazione», visto che «il beneficio è limitato a specifiche categorie di contribuenti». Problemi anche per lo stanziamento da cui si dovrebbero attingere parte dei 535 milioni di euro da dare alle Poste, per dare attuazione alla sentenza dell’Ue. Il fondo è quasi vuoto. Dubbi anche sul nuovo modo di pagare l’Iva (il cosiddetto reverse charge) che, come detto, è anche incerto per quanto riguarda gli effetti finanziari. Sotto la lente dei tecnici anche la platea dei beneficiari del credito di imposta, che potrebbe essere non aggiornata.

Nonostante il testo licenziato dal Senato sabato notte sia blindato, in Commissione Bilancio della Camera sono stati presentati circa 130 emendamenti. Dopo un primo esame ne sono restati solo 80. Il presidente Francesco Boccia ha dichiarato infatti inammissibili 50 proposte arrivate al testo da M5S, Forza Italia e Sel. Il Movimento 5 stelle ha trasmesso via Youtube la seduta domenicale della commissione Bilancio, con una diretta «clandestina». L’intenzione del governo è e arrivare all’approvazione definitiva della legge di Stabilità in Aula entro martedì, comunque «prima di Natale», perché bisogna «dare segnali di stabilità», ha spiegato il sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta.

Mancano 700 milioni e Renzi senza fantasia ci aumenta la benzina

Mancano 700 milioni e Renzi senza fantasia ci aumenta la benzina

Antonio Signorini – Il Giornale

Non basterà il prezzo del petrolio ai minimi da cinque anni a rendere più piacevoli le festività agli automobilisti. Le brutte notizie per chi è costretto a fare il pieno arriveranno, tanto per cambiare, dal fisco italiano.Come ha ricordato ieri la Cgia di Mestre, dal primo gennaio scatterà una delle tante clausole di salvaguardia. Questa volta farà aumentare le accise sui carburanti di 1,8 centesimi al litro, 2,2 cent considerando l’effetto dell’Iva. Cifra approssimativa perché dovrà essere un provvedimento dell’Agenzia delle dogane a stabilire l’esatta quantificazione in modo da reperire 671 milioni nel 2015 e 17,8 milioni di euro nel 2016. Servono a coprire l’abolizione dell’Imu sull’abitazione principale decisa nel 2013. Doveva essere finanziata dall’Iva sui pagamenti della pubblica amministrazione e da un giro di vite fiscale sui giochi, ma non è bastato. Il greggio è sceso sotto i 64 dollari, però – ha osservato il segretario della Cgia Giuseppe Bortolussi – «in Italia il prezzo dei carburanti alla pompa rimane ancora molto elevato», grazie a un’imposizione fiscale che «non ha eguali in Europa». Una gallina dalle uova d’oro il portafoglio degli automobilisti, tanto che in quattro anni i ritocchi all’insù sono stati ben nove.

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Il trucco: tassa nascosta per accontentare Bruxelles

Antonio Signorini – Il Giornale

La lettera sulla legge di Stabilità inviata dalla Commissione europea e la relativa risposta del ministero dell’Economia di qualche giorno fa, erano missive a carico del destinatario, cioè del contribuente italiano. Il francobollo è arrivato ieri sotto forma di una clausola di salvaguardia che consiste in un possibile (e probabile) aumento delle accise sui carburanti da 728 milioni.

Questi i fatti. Il governo italiano, per andare incontro alle richieste di Bruxelles, ha promesso alla Commissione di alzare la correzione del disavanzo contenuta nella «finanziaria» dall’originario 0,1% allo 0,3%. Tra le coperture c’è un’estensione del nuovo meccanismo di pagamento dell’Iva, il reverse charge, a ipermercati, supermercati e discount alimentari. Incasso previsto, 728 milioni. Copertura un po’ traballante, quindi un emendamento del governo alla legge di Stabilità ha garantito la copertura con la più classica delle clausole di salvaguardia: un aumento delle accise. Nella legge c’era già una garanzia da 988 milioni, ora passa a 1,716 miliardi. Tutti a carico degli automobilisti. Ma ci sono brutte notizie anche per i fumatori di sigarette di fascia bassa. Ieri il governo, insieme alla riforma delle commissioni censuarie del catasto, ha varato il riordino delle accise, che dovrebbe portare un maggior gettito di circa 200 milioni. Sforzi notevoli ma forse non sufficienti, visto che il governo europeo potrebbe chiederci un’ulteriore correzione dei conti del 2015 da tre miliardi. Da cercare, manco a dirlo, con nuove tasse.

Con l’Ue il clima resta difficile, la procedura di infrazione è ancora sul tavolo, ma le tensioni non sembrano essere avvertite nel Parlamento, visto che gli emendamenti alla legge di Stabilità presentati in commissione Bilancio sono in gran parte tentativi di allargare i cordoni. Molti chiedono l’eliminazione dell’anticipo del Tfr, altri la deducibilità Imu per gli immobili delle imprese e modifiche all’aumento delle aliquote su fondi pensione e casse previdenziali private. Tutti all’insegna della maggiore spesa gli emendamenti del Pd. Dal partito del premier Matteo Renzi arrivano richieste per eliminare il taglio dei fondi ai patronati dei sindacati, 45 milioni a Roma Capitale e 700 milioni per gli ammortizzatori sociali. Da segnalare un emendamento Ncd per il ritorno all’obbligo dell’esposizione del bollo auto e quello della Lega Nord per regolamentare la prostituzione nelle abitazioni private.

Tutto questo mentre per l’economia italiana continuano ad arrivare segnali pessimi. Ieri su industria e competitività. Secondo l’Istat l’indice della produzione industriale di settembre è diminuito in termini tendenziali, quindi rispetto all’anno precedente, del 2,9%. Produzione in calo anche rispetto ad agosto: meno 0,9%. Un autunno freddissimo, quindi. A partire dal beni di consumo, che hanno segnato un calo del 3,2%. Colpa sicuramente della crisi, ma le zavorre che stanno tirando giù l’Italia sono problemi strutturali. Uno è la burocrazia che, secondo un’analisi della Confederazione nazionale dell’artigianato, costa alle Pmi circa 4,5 miliardi di euro all’anno. Ogni piccolo imprenditore deve sborsare un euro ogni 10 minuti, 6 euro all’ora, 48 euro ogni giorno lavorativo, 11mila euro all’anno. Si tratta, ha spiegato il presidente della Cna Daniele Vaccarino, di «una realtà, ci dispiace dirlo, distante anni luce dalla vita e dalle esigenze delle imprese». La confederazione ricorda che l’Italia risulta solo al 56esimo posto su 189 nella graduatoria dei Paesi dove è più facile fare impresa (Doing Business 2015 ), dietro a Germania, Francia, Spagna e Regno Unito, Stati Uniti e Giappone. E a vedere il continuo ricorso all’aumento delle tasse, si capisce il perché. La notizia non è che l’Italia è in crisi, ma che nessuno faccia niente, anche se le cause sono note.

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

La finta spending review: i tagli scendono già al 2%

Antonio Signorini – Il Giornale

L’asticella dei risparmi è ufficialmente fissata al 3%, ma potrebbe scendere al 2%. I ministri dovranno indicare a Palazzo Chigi quali capitoli di spesa tagliare e se non lo faranno, scatteranno riduzioni automatiche alle dotazioni finanziarie. Nessuno sarà escluso, nemmeno il ministero della Sanità per il quale si prospetta un taglio, come minimo di tre miliardi. Il premier Matteo Renzi ieri ha cercato di fare passare il messaggio che la spending review nuova versione sarà «soft». Ma quelli che si prospettano in vista della prossima legge di Stabilità sono dei tagli lineari classici, con un margine di decisione in più per i dicasteri.

Ieri Renzi, subito dopo il consiglio dei ministri che ha deciso tra le altre cose l’assunzione di 34 mila insegnanti precari – ha illustrato tutti i colleghi il piano, invitandoli a «scrivere» i rispettivi programmi di risparmi. L’obiettivo di Palazzo Chigi resta quello dei 20 miliardi, anche se dal ministero dell’Economia e anche dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli, sono arrivate stime molto inferiori sulle riduzioni di spesa immediatamente attuabili.

Il tre per cento sì, ma solo di circa 200 milioni di spesa aggredibile. Secondo questa versione ci sarebbe una stretta praticamente solo sugli acquisti intermedi, ma Renzi vuole di più. Tra i fronti aperti, quello tra il premier e il ministro Beatrice Lorenzin, che vorrebbe limitare i tagli alle spese di funzionamento del ministero, senza toccare il servizio sanitario. «Metteremo in sicurezza i cittadini», aveva assicurato nei giorni scorsi il ministro. Ma non è detto che basti. Il budget del ministero è di 1,2 miliardi e un risparmio di 30 milioni da uno dei dicasteri più importanti non basta. Inevitabile che si cerchi di pescare dai 337 miliardi, la dotazione del fondo sanitario nazionale per i prossimi tre anni, che però sono stati concordati con il patto regioni-governo. Se venisse applicata la regola del 3%, dalla sanità potrebbero arrivare più di 10 miliardi di euro in tre anni, 3 miliardi per il solo 2015. Risorse che le regioni dovrebbero a loro volta trovare tagliando le proprie spese. Se succederà, «dovremo rivedere gli accordi. Ma a parte tutto non dimenticarci come il nostro servizio sanitario è quello che costa di meno in Europa e ha performance di alto livello», ha spiegato il coordinatore della commissione Salute delle Regioni e assessore alla Sanità del Veneto Luca Coletto.

Dalle regioni ai comuni, ieri il presidente dell’Anci Piero Fassino ha respinto al mittente uno dei capitoli del piano Cottarelli, cioè l’operazione cieli bui che punta a spegnere parte dell’illuminazione pubblica. Renzi ha assicurato ancora una volta che non ci saranno le pensioni nel piano di risparmi. Ma tra le ipotesi tecniche di risparmi portate da Cottarelli a Palazzo Chigi, c’è anche il contributo sulle pensioni più alte. Tutti argomenti tabù, che dovranno essere affrontati nei prossimi giorni, visto che il governo intende confermare il bonus degli 80 euro e agire in modo più deciso sulla tassazione che grava sul lavoro. Senza contare gli impegni sulla scuola, che ieri sono stati in parte attuati. Il consiglio dei ministri ha dato il via libera a oltre 30 mila assunzioni dei precari della scuola. Partiranno subito le assunzioni a tempo indeterminato, su posti vacanti e disponibili, di 15.439 insegnanti e 4.599 ausiliari, tecnici e amministrativi. Autorizzata anche l’assunzione di 13.342 docenti da destinare al sostegno di alunni con disabilità e 620 dirigenti scolastici. Si tratta del primo pacchetto di assunzioni, che era già avviato. Secondo gli impegni presi da Renzi nel 2015 le stabilizzazioni dovranno essere 150 mila.