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I tecnici accusano: manovra colabrodo

I tecnici accusano: manovra colabrodo

Franco Bechis – Libero

Finanza creativa come ai bei vecchi tempi e cifre appese in aria a modelli teorici inventati lì per lì. Dalla proroga dello sconto degli 80 euro alla riduzione dell’Irap, dal Tfr in busta paga alla lotta all’evasione, fino ai rischi notevoli contenuti nelle norme sulla tesoreria unica che coinvolgono la Cassa depositi e prestiti, la manovra di Matteo Renzi sembra con i piedi di argilla come raramente è avvenuto negli ultimi anni.

Come era accaduto qualche mese fa con altri provvedimenti economici, i tecnici del Servizio bilancio del Parlamento l’hanno passata incontro luce segnalando numerosi rischi e altrettante incongruenze che potrebbero fare ballare per cifre anche notevoli i conti dello Stato. Allora furono i tecnici del Senato, che per questo loro prezioso lavoro istituzionale furono pubblicamente sbeffeggiati dallo stesso Renzi, poi difesi (non proprio vibratamente) dal presidente del Senato, Piero Grasso. Ora è meglio che si prepari a incrociare la spada Laura Boldrini, perché a fare pezzi la legge di stabilità sono i tecnici del servizio Bilancio della Camera. Ecco come nelle principali voci.

80 euro
Prima osservazione: le simulazioni su cui si basano gli effetti di finanza pubblica del bonus da 80 euro si basano su modelli abbastanza di fantasia. E curiosamente – nonostante la norma identica – divergono non poco dalla relazione tecnica del decreto dell’aprile scorso che concedeva la stessa agevolazione. Attenzione però, perché «la microsimulazione è effettuata con riferimento ai redditi 2012, estrapolati al 2015», avvertono i tecnici della Boldrini, perché da allora a oggi molti possono essere usciti dalla platea dei beneficiari ed altri esservi entrati. Bisogna però sapere quanti sono entrati e quanti sono usciti per fare bene i calcoli.

Sconti Irap
Anche qui il modello di riferimento viene ritenuto piuttosto fantasioso e un po’ improvvisato. I tecnici sono tali e non segnalano temi politici come fa la stampa. Lì si è evidenziata la beffa dello sconto Irap che non c’è, perché retroattivamente vengono tolte le riduzioni di aliquote stabilite proprio con il decreto 80 euro. Una presa in giro delle imprese, però fatto alla carlona come tutte le cose di questo esecutivo. Segnalano i tecnici: «l’abrogazione dell’art. 2 del DL n. 66/2014, che aveva disposto la riduzione delle aliquote IRAP, non determina in via automatica il ripristino delle precedenti maggiori aliquote in base alle quali la relazione tecnica ha quantificato gli effetti positivi di gettito». Detto fra noi:meglio così. L’aumento delle aliquote può essere impugnato dalle imprese, perché la norma è fatta male.

Tfr in busta paga
Non costa niente alle imprese, diceva il governo. Bugia: la relazione tecnica inserisce nuove entrate per il fisco. Come? «Le maggiori entrate sembrerebbero infatti derivare dall’aumento per le aziende interessate degli sgravi contributivi previsti, cui dovrebbero tuttavia corrispondere minori deduzioni fiscali».

Ammortizzatori sociali
Qui c’è un fondo fantasma, perché viene legato al Jobs act, bandiera di Renzi che al momento non c’è. Con la finanza pubblica però non si può giocare: «le disposizioni in esame istituiscono un Fondo di finanziamento per l’attuazione delle modifiche in materia di lavoro e di ammortizzatori sociali, che verranno definite a seguito dell’adozione dei decreti di attuazione all’apposita legge di delega,già approvata dal Senato e attualmente all’esame presso la Camera dei deputati. In proposito non risulta possibile procedere a una verifica di tali effetti non essendo allo stato definita la nuova disciplina relativa alle materie oggetto di delega».

Sistema tesoreria unico
È forse il tema più delicato dell’intera manovra, ed è quello di cui si è parlato meno. I compiti che vengono girati alla Cassa depositi e prestiti hanno un rischio enorme: quello che venga consolidata anche quell’area nei conti dello Stato. Con un’esplosione del debito pubblico: «In merito al trasferimento del Fondo per l’ammortamento dei titoli di Stato presso la Cassa depositi e prestiti», scrivono i tecnici della Boldrini, «andrebbe espressamente escluso che tale operazione possa determinare un rischio di inclusione della Cassa nel perimetro della p.a. con conseguenti effetti negativi sui saldi di finanza pubblica e sul debito».

Evasione fiscale
Anche qui le norme sembrano scritte da principianti. Si prevedono entrate massicce su simulazioni vecchie e fatte su settori che nulla c’entrano con i provvedimenti. E attenzione: «occorrerebbe acquisire elementi volti a verificare che il maggior gettito imputato alle disposizioni in esame abbia effettivamente carattere aggiuntivo rispetto a quello ascritto a provvedimenti di contrasto all’evasione già adottati».

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Gli “errori” della manovra che fanno litigare Italia e Ue

Giuseppe Pennisi – IlSussidiario.net

Non è una buona idea per Matteo Renzi entrare in polemica con Jean-Claude Juncker, particolarmente ora che il Presidente della Commissione europea è in difficoltà per antichi (più che  vecchi) trascorsi lussemburghesi. Per molti aspetti, Juncker è un suo alleato: intendono ambedue far uscire l’Europa dal rischio di deflazione. Hanno anche aspetti personali simili: vengono ambedue da origini familiari molto semplici – in Italia pochi sanno che il padre di Juncker era un operaio dell’industria siderurgica. A differenza di Renzi, Juncker è stato uno studente da 30 e lode in tutte le materie e ha esercitato la professione forense con successo prima di entrare, a 26 anni, in politica attiva. Lo stesso Presidente della Commissione europea ha detto che le “tecnostrutture” hanno espresso pareri molto più severi dell’esecutivo sulla bozza di Legge di stabilità dell’Italia.

In questo contesto, ci potrebbe essere qualcuno che “rema contro” per ragioni personali – ad esempio, un alto dirigente dei servizi della Commissione, ritenuto “prodiano di ferro” in quanto molto vicino al Professore di Bologna, amareggiato per non avere ottenuto il supporto politico sperato (e – dice – assicuratogli) per terminare la carriera in Italia alla guida dell’Ufficio parlamentare di Bilancio.

Tuttavia, non è tanto questione di ripicche quanto di sostanza. Tra Roma e Bruxelles ci sono differenze sostanziali di punti di vista. In primo luogo – ed è questo il punto fondamentale – è in corso un “dibattito segreto” (mentre dovrebbe esserlo alla luce del sole) su cosa debba considerarsi “equilibrio strutturale di bilancio”, oppure in altri termini il differenziale tra output potenziale ed effettivo. È il parametro essenziale per valutare il disavanzo di bilancio “accettabile” o meno così come la solidità delle coperture.

Prima della crisi, ossia verso il 2007, Commissione europea, Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Ocse e Banca centrale europea pubblicarono lavori differenti secondo cui l’output potenziale si poneva, per l’Italia, su una crescita del Pil dell’1,3% l’anno (rispetto al 2,5% della prima metà degli anni Ottanta), a ragione dell’invecchiamento della popolazione e dell’obsolescenza dell’apparato produttivo. Ora non è chiaro quale è l’output potenziale stimato dalla Commissione europea per l’Italia. In questi anni, al contrario, ci sono stati vari dibattiti sui “moltiplicatori” di spese (e di aumento della pressione fiscale) ma da Bruxelles non si è avuta un’indicazione chiara né sul metodo, né sul merito.

Ad esempio, i dati utilizzati a Bruxelles a supporto delle stime sulla finanza pubblica italiana attribuiscono alle ore di Cassa integrazione una riduzione permanente, anziché temporanea, delle ore lavorate, contribuendo a ridurre di un terzo il prodotto potenziale, il livello del Pil in condizioni normali e per implicazione imponendo politiche meno espansive di quanto, anche a mio avviso, sarebbero auspicabili. Il presidente del Consiglio e il ministro dell’Economia e delle Finanze dovrebbero chiedere un chiarimento, e se del caso un dibattito, in proposito.

In secondo luogo, però, ci sono aspetti rispetto ai quali l’Italia pare fare “la politica dello struzzo”, ossia nascondere la testa sotto la sabbia. Queste le principali:

1) Il debito. Viaggia verso il 137% del Pil ed è senza dubbio uno dei maggiori freni alla crescita. Non mancano proposte per ridurlo senza aumentare la già elevata tassazione patrimoniale: il delendo Cnel le ha messe a confronto in una conferenza da cui è stato prodotto un E-Book Astrid, “L’Italia c’è”, e altri gruppi hanno formulato altre proposte. Non si è fatto nulla. E quasi nulla in materia di privatizzazione: l’unica portata a termine è quella dell’Unuci (l’ente per le attività divulgative degli ufficiali in congedo), argomento di grande ilarità a Bruxelles.

2) Forti perplessità poi per la “stabilizzazione” dei precari e l’assunzione di 80.000 insegnanti. Non solo i dati Unesco affermano che siamo, a tutti i livelli della piramide scolastica, il Paese con il rapporto più generoso tra allievi e docenti, ma un’operazione analoga, nel 1972, per stabilizzare gli universitari ha distrutto numerosi atenei italiani. Nessuno ancora sa dove si troveranno i 3 miliardi l’anno necessari.

3) Insidiosa la decontribuzione dei nuovi assunti con contratti a tempo indeterminato. Date l’entità dello sgravio (riduce di un terzo il costo del lavoro) e la sua temporaneità (solo 2015) è probabile – come ha scritto Tito Boeri – che ci sia un forte effetto di sostituzione sia con posti di lavoro già esistenti che nel corso del tempo. “La manovra – afferma Boeri – può comportare veri e propri caroselli”. Dal punto di vista europeo, viene considerata un “aiuto di Stato” visto che è discriminatoria. Si poteva giungere allo stesso obiettivo con una riforma dell’Irap o un “tax credit”.

4) Il Tfr in busta paga – si pensa a Bruxelles – comporta un aggravio tributario e una riduzione della futura pensione. Quindi le stime di quanti opteranno per questa strada, e del pertinente gettito fiscale (2,5 miliardi), sono illusorie. Al pari di altre stime di aumenti delle entrate.

5) La spesa complessiva di parte corrente aumenta di circa 20 miliardi a ragione non solo dei bonus di 80 euro ma anche di tanti rivoli particolaristici (sussidi a questo e a quello che, secondo le direttive europee, dovrebbero essere oggetto di norme specifiche non della Legge di stabilità).

Queste non sono che alcune divergenze tecniche di fondo tra Roma e Bruxelles. A “La Morte Subite”, la birreria di Bruxelles dove in queste fredde e umide serate di inverno si riuniscono funzionari e dirigenti dell’apparato europeo, ci si chiede se l’Italia non avrebbe fatto meglio a seguire la Francia: presentare una Legge di stabilità con un disavanzo pari al 5% del Pil unitamente a un drastico programma di privatizzazioni per ridurre il debito e insistere.

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno

Mario Sensini – Corriere della Sera

Una manovra tutta puntata al rilancio della crescita, con un cospicuo taglio delle tasse, forti incentivi alle assunzioni a tempo indeterminato e molte riforme, che segna una svolta espansiva nella politica economica, finora restrittiva. Ma che non è povera di rischi, legati all’efficacia delle misure e ai giudizi della Ue, ed impliciti nel mantenere il deficit ancora a lungo appena un pelo sotto il tetto massimo del 3% del prodotto interno lordo. Per la prima volta dopo tanti anni, è una legge di bilancio che dà più di quanto non toglie. Ma solo nell’immediato, perché lascia in eredità al futuro molte più tasse di quante non ne elimini oggi: 18 miliardi nel 2016, 24 nel 2017, 28 nel 2018. Almeno secondo quanto prevede il testo non ancora vidimato dalla Ragioneria generale e non ancora arrivato in Parlamento.

La riduzione delle tasse
Il bonus di 80 euro, dal quale si attende un rilancio dei consumi che finora non c’è stato, viene confermato, ma la platea non viene allargata. Restano, dunque, i problemi legati all’equità della misura, che non riguarda ad esempio gli incapienti o i pensionati (il che rende anche problematica la sua trasformazione in detrazione fiscale, a rischio costituzionale), e che ha qualche effetto perverso, come quello di penalizzare le famiglie povere monoreddito. Oltre al bonus per le famiglie arriva quello per i bebè, con un limite di reddito molto alto per poterne beneficiare, 90 mila euro, che fa discutere.

Per le imprese ci sono forti incentivi alle assunzioni. Non si pagherà più l’Irap sulla componente lavoro, ma vengono annullate le riduzioni precedenti dell’aliquota. Con effetto, sembra di capire, già sull’anno di imposta corrente, il 2014. Lo sgravio, così, vale 4 miliardi, e premia soprattutto le imprese ad alta intensità di manodopera. Accanto c’è la decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato, ma non c’è molta chiarezza sui costi. Un miliardo, aveva detto Renzi, forse più si dice oggi. Lo stanziamento, in ogni caso, coprirebbe 850 mila nuovi contratti, più o meno metà di quelli che si fanno di solito in un anno.

Per le partite Iva viene esteso il cosiddetto regime dei minimi ad una platea più vasta, ma entro limiti di reddito più bassi e con l’aliquota passata dal 5 al 15%. La legge di Stabilità, poi, stanzia 1,5 miliardi per i nuovi ammortizzatori sociali, anche se per la Cig in deroga, nel 2013, si è speso quasi il doppio. E prevede l’opzione per il trasferimento del Tfr in busta paga. Soldi subito, anche a caro prezzo perché in molti casi si pagherebbero tasse più alte, e una pensione di scorta più leggera domani.

Tagli e nuove entrate
Finché si tratta di dare, i problemi sono relativi. Molto meno quando si tratta di recuperare le risorse. La manovra prevede 6,1 miliardi di tagli alle amministrazioni centrali dello Stato, di cui 4 dai ministeri e 2 dalla riduzione delle cosiddette spese «a politiche invariate», dalle missioni di pace al 5 per mille, che ora vengono coperte strutturalmente. Ma spuntate. I ministeri dovrebbero approfittare della centralizzazione degli acquisti, ma 4 miliardi sono comunque una cifra enorme. Tagliare usando discrezionalità è stato sempre difficile e lo è ancor di più con il bilancio ridotto all’osso: il rischio, di nuovo, è che per ottenere il risultato si ripiombi sui tagli lineari, molti dei quali creano un rimbalzo della spesa negli anni successivi. I tagli agli enti locali sono egualmente pesanti (4 miliardi per le Regioni, 2,1 per i Comuni, 1 per le Province), ma con il Patto di Stabilità interno il rischio di non portarli a casa è basso. Come, d’altra parte, è elevato quello di un parallelo aumento delle tasse locali. Con sindaci e governatori non sarà facile arrivare a un’intesa. C’è la possibilità che la sforbiciata finisca per colpire anche la spesa sanitaria.

La manovra prevede poi quasi 4 miliardi di recupero dall’evasione. È un punto critico, perché in passato queste cifre non venivano messe in bilancio come incasso sicuro, o a copertura di spese certe. Alcune misure danno un maggior gettito automatico, come il «reverse charge» sull’Iva (900 milioni), o il prelievo delle banche, a titolo di acconto, sui bonifici relativi alle fatture per le ristrutturazioni edilizie ( altri 900). Meno sicuro è il gettito atteso da altre misure, dal nuovo ravvedimento operoso alla stretta sugli «split payments», cioè i pagamenti frazionati per ridurre l’imposta. Tanto che si affaccia la possibilità di sostituire queste coperture col classico aumento delle accise.

Le incognite sul futuro
Per coprire le spese e per correggere il deficit, dopo un 2015 di pausa nel percorso di risanamento, la manovra prevede fin da ora un forte aumento dell’Iva e, ancora una volta, delle accise. E sconta tuttora una riduzione molto forte delle detrazioni Irpef. Nel 2016 l’aliquota Iva del 10% passerebbe al 12, poi al 13% nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5% nel 2018. Nello stesso tempo si prevede un taglio delle detrazioni Irpef per 4 miliardi nel 2016, e 7 negli anni successivi. La manovra, per ora, ha solo scongiurato una parte del taglio degli sconti fiscali, quello che doveva scattare già quest’anno, poi rinviato al 2015, da 3 miliardi. Sul futuro, dunque, pende un fortissimo aumento delle imposte, quasi 20 miliardi nel 2015, e 30 nel 2018. Misure che potranno essere sempre sostituite da altri provvedimenti, come i tagli di spesa. Anche se a blindare la manovra, ora, ci sono più tasse di quelle che si riducono.

Spinta al limite

Spinta al limite

Francesco Riccardi – Avvenire

Questa volta per valutare meglio il quadro occorre partire dalla cornice, dal contesto in cui la legge di stabilità è stata varata ieri a tarda sera. Una giornata di “tempesta perfetta” sui mercati finanziari, con il crollo delle Borse mondiali, Italia compresa, sui timori di nuove difficoltà della Grecia e del suo sistema bancario. Con lo spread sui titoli di Stato che è tornato a rialzare la testa dopo mesi di calo. Un mercoledì non da leoni, ma da gamberi, con l’Istat che conferma l’andamento negativo del Pil nel terzo trimestre, sceso al valore più basso dall’inizio del 2000. Insomma, se gli altri Paesi hanno da tempo superato il punto di caduta della crisi (pur se nuove nubi si addensano sulla Germania, e non solo) noi siamo stati rispediti nel Novecento e diventa sempre più difficile riproiettarci nel XXI secolo. Un ritorno al futuro condizionato anche e soprattutto dai vincoli posti dall’Unione Europea, dai quali non si può prescindere, ma che devono poter essere interpretati anche con saggia flessibilità.

Mentre nelle città italiane si cerca ancora di “asciugare” lacrime e ferite delle alluvioni – concreta e lancinante metafora di un Paese che non può non fare il necessario per mettersi in sicurezza e risollevarsi – il Consiglio dei ministri ha approvato ieri una manovra lievitata da 30 a 36 miliardi (con 18 miliardi di riduzione delle imposte) che sta in questa cornice, deve starci per forza per poter passare da un lato il vaglio dei rigidi controllori di Bruxelles e dall’altro per evitare di alimentare nuove speculazioni finanziarie contro l’Italia. Una manovra da “rallista” potremmo definirla, in cui si è obbligati a giocare di freno sulla spesa pubblica e di acceleratore sui tagli fiscali, per tenere a bada il deficit sotto il 3% e, contemporaneamente, dare la necessaria spinta a un sistema economico sempre più imballato. Un percorso a filo del burrone, tra le curve di una congiuntura sempre più difficile e la prostrazione di imprese, lavoratori e famiglie dopo 7 anni di “carestia”.

Bene perciò la spinta sull’acceleratore dello sviluppo rappresentato dal consistente taglio dell’Irap, che ha fortemente penalizzato le imprese negli ultimi anni e dagli sgravi per le partite Iva. Bene pure la cancellazione dei contributi, senza pregiudicare la posizione previdenziale dei lavoratori, per chi assume personale a tempo indeterminato. Qualsiasi misura oggi riduca il costo del lavoro è utile e “benedetta”, anche se in questo caso occorre rendere strutturale lo sconto, ridurre il cuneo fiscale e contributivo sull’intera durata di un rapporto di lavoro stabile, se davvero si vuol mantenere fede a quanto promesso nel Jobs act (e cioè che il contratto a tempo indeterminato deve essere la forma di lavoro privilegiata e più conveniente).

Positiva è anche la conferma degli 80 euro per i redditi medio-bassi. E, sebbene il beneficio non sia stato allargato a incapienti e famiglie numerose (come chiesto molte volte su queste colonne) va registrato l’impegno da 500 milioni di euro promessi a favore della famiglia. Ci piace considerarli come un positivo “anticipo” – il saldo lo attendiamo con la delega fiscale – per ristabilire quel minimo di equità a cui hanno diritto i nuclei con figli e che non può essere ulteriormente procrastinato. Sospeso il giudizio sull’operazione “Tfr in busta”: occorrerà valutare quanti lavoratori sceglieranno di riceverlo subito e in che misura ciò spingerà effettivamente i consumi.

Dove invece il quadro della manovra appare tratteggiato in maniera più incerta, in attesa di leggere i testi definitivi, è la parte relativa ai tagli di spesa pubblica: 15 miliardi più o meno equamente divisi tra Ministeri, Regioni, beni e servizi della Pubblica amministrazione, Comuni e Province. C’è il rischio infatti che ciò si traduca non in maggiore efficienza della spesa pubblica, ma semplicemente nella riduzione di prestazioni sanitarie e di servizi a livello locale, proprio mentre la tassazione in questi ambiti va aumentando e pesando sempre più sui cittadini onesti. Così come alto è il rischio che la Commissione europea chieda maggiori sforzi e non si accontenti di una riduzione strutturale del deficit di appena lo 0,1% o di coperture, come quelle previste dalla lotta all’evasione, che potrebbero risultare aleatorie.

Per tentare di far ripartire il Paese, pur restando all’interno delle ferree regole europee, occorreva puntare su tre fattori decisivi: le imprese e il lavoro; le famiglie e le persone in condizione di povertà. Il primo obiettivo sembra centrato in pieno, il secondo solo parzialmente, sul terzo manca qualsiasi iniziativa. Probabilmente, nelle condizioni date, “fare di più” era impossibile. Ma “fare meglio” è un impegno che non finisce stanotte.

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

La Tasi si mangia gli 80 euro di Renzi

Laura Della Pasqua – Il Tempo

Con una mano dà e con l’altra prende. A pochi giorni dall’appuntamento con il pagamento dell’acconto della Tasi, l’imposta sui servizi indivisibili, coloro che hanno avuto il bonus da 80 euro stanno facendo i conti del bluff. Il bonus se ne andrà in fumo quasi tutto. E una volta pagata la prima rata dell’imposta, nemmeno il tempo di riprendere fiato che ecco arriva la legge di Stabilità. Difficile quindi parlare di rilancio dei consumi quando in tasca di chi ha dovuto spendere gran parte degli 80 euro in tasse. I beneficiari del bonus, lo ricordiamo, non sono in una situazione reddituale privilegiata. Il requisito per accedere alla «paghetta» elargita dal premier Renzi, era di percepire un reddito annuo lordo inferiore ai 25.000 euro. Il bonus è scattato con lo stipendio di maggio. Quindi per fine anno chi è stato «beneficiato» da questo «regalo» avrà percepito circa 640 euro.

Il costo medio della Tasi, secondo i calcoli del centro studi della Uil, ammonta a una media di circa 148 euro (74 euro da versare con l’acconto). Ma se si prendono a riferimento le sole città capoluogo l’importo sale a 191 euro medi (96 euro per l’acconto), con punte di 429, un conto più salato dell’Imu in un caso su due. Pertanto circa due terzi del bonus di 80 euro viene assorbito dall’imposta. A questi record si è arrivati perché la media dell’aliquota applicata dai 105 capoluoghi di provincia è pari al 2,63 per mille (superiore all’aliquota massima ordinaria), anche se «ammorbidita» dalle varie detrazioni introdotte dai relativi Comuni. Ci sono almeno 100mila combinazioni diverse di detrazioni ma se la fantasia è soddisfatta non lo è il portafoglio. Giacchè anche a fronte delle detrazioni il salasso rimane. Secondo la simulazione a Roma si pagheranno 391 euro medi, a Firenze 346 euro, a Bari 338 euro, a Foggia 326 euro, a Como 321 euro, a Trieste 309 euro, a Milano 300 euro, a Monza 299 euro e a Pisa 287 euro. Se all’imposta sui servizi poi si aggiungono la Tari (la tassa sui rifiuti) e le addizionali comunali, il bonus non basta più. Facciamo un esempio. Nel caso di un’abitazione di tipo economico A3 (che è di minor pregio), a Roma, tra Tasi, Tari e l’addizionale comunale Irpef, si pagano circa 1.100 euro. La Capitale si colloca al primo posto nella classifica delle città più tassate. Seguono Bari, con 1.079 euro, Napoli con 1.000 euro e Genova, con 961 euro.

Spulciando le delibere approvate dai principali Comuni capoluogo di Regione in materia di Tari, Tasi e addizionale comunale Irpef è emerso che, in quasi tutte le città, l’addizionale comunale ha raggiunto l’aliquota massima dello 0,8% (Roma applica addirittura lo 0,9%). Solo quattro amministrazioni hanno applicato una aliquota inferiore: Bologna (0,7%), L’Aquila (0,6), Aosta (0,3%) e Firenze (0,2%). Nel caso della Tasi in 9 casi stato applicato il valore massimo consentito per le abitazioni principali: 3,3%. La Tari, invece, colpisce soprattutto al Sud. Nonostante il servizio di raccolta dei rifiuti erogato nelle grandi città del Mezzogiorno non sia sempre «impeccabile», per un’abitazione di tipo civile A2, una famiglia di 3 persone residente a Cagliari paga quest’anno 653 euro. A Napoli 522 euro e a Palermo 497 euro. Quindi in questi casi tutto il bonus basta solo a coprire la tassa sui rifiuti.

Se è vero che il costo della Tasi sarà complessivamente leggermente più basso della vecchia Imu, è anche vero che la distribuzione della nuova tassa è meno equa: pagherà di più chi prima era esente o pagava cifre basse e pagheranno molto meno i proprietari di quelle abitazioni con rendite catastali elevate. Questo vuol dire che sono penalizzati proprio coloro che hanno ricevuto il bonus. L’imposta quindi non è stata concepita con una gradualità tale da favorire i proprietari di immobili di categoria medio bassa. Oltre il danno anche la beffa di vedersi prelevati dal fisco gli 80 euro. Dalle simulazioni fatte dalla Uil emerge che per 1 famiglia su 2 il costo della Tasi sarà maggiore dell’Imu nel 2012. La conclusione è che nel 2014 con la Tasi la pressione fiscale delle famiglie, rispetto al 2013, aumenterà. Gli 80 euro serviranno soltanto ad attenuare la stangata ma non saranno certo soldi che il contribuente potrà destinare ai consumi. Pagate queste imposte, in tasca rimane ben poco o nulla degli 80 euro. In queste condizioni i contribuenti dovranno affrontare l’appuntamento con la legge di Stabilità. Renzi promete che non ci saranno nuove imposte ma aveva anche promesso che il bonus sarebbe servito a rilanciare i consumi.

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Per estendere il bonus e ridurre l’Irap servirebbero oltre 6 miliardi di fondi

Enrico Marro – Corriere della Sera

Allargare la platea dei beneficiari del bonus da 80 euro al mese agli «incapienti» costerebbe quasi 4 miliardi. Gli incapienti, cioè coloro che hanno un reddito annuo inferiore a 8 mila euro e che ora sono esclusi dal bonus, sono infatti 4 milioni. Dare a tutti costoro (dipendenti, autonomi, pensionati) 960 euro l’anno significherebbe sborsare, appunto, 3 miliardi e 840 milioni. Aumentare il taglio dell’Irap a favore delle imprese, già ridotta quest’anno del 10%, costerebbe circa 2 miliardi e mezzo per ogni ulteriori 10 punti di riduzione del prelievo. Numeri importanti che giustificano la cautela del presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha spiegato ieri in tv, a Porta a Porta, che spera di allargare la platea, ma ancora non è in grado di garantirlo. Del resto, il primo impegno, ribadito anche ieri sera, è quello di confermare il bonus per chi già ce l’ha, cioè i lavoratori dipendenti con un reddito tra 8 mila e 26 mila euro l’anno, circa 10 milioni di contribuenti. E solo per questo ci vogliono 10 miliardi di euro.

Ma vediamo perché costerebbe così tanto allargare la platea e perché, probabilmente, non ci sarà un’estensione meccanica degli 80 euro, bensì quel «segnale di attenzione» di cui aveva già parlato il governo in occasione del decreto sul bonus, lo scorso aprile. Allora, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, spiegò al Corriere che intervenire anche a favore degli incapienti sarebbe costato «almeno un miliardo in più». Ma l’ipotesi sulla quale si era ragionato prevedeva di dare qualcosa, ma non certo 80 euro, considerando, per esempio, che una parte di coloro che non arrivano a 8mila euro di redditi sono i poveri assistiti con la social card. Per questi ora il governo sta lavorando a un potenziamento del sussidio utilizzando i fondi europei. Delrio, che ha la delega in materia, insieme con Poletti sta studiando la messa a regime e il rafforzamento del Sia, il sostegno all’inclusione attiva avviato dal predecessore di Poletti, Enrico Giovannini, che prevede percorsi personalizzati di inserimento sociale e lavorativo su misura per le famiglie povere e un assegno che può arrivare fino a 400 euro. Sui poveri quindi il governo potrebbe intervenire potenziando questi strumenti.

Non a caso, parlando di un’eventuale estensione del bonus, Renzi si è riferito piuttosto ai pensionati e alle partite Iva. Ma anche qui i numeri sono importanti. I pensionati con un reddito previdenziale tra mille e duemila euro al mese, cioè che grossomodo potrebbero rientrare in una ipotetica estensione del bonus, sono circa 6 milioni e mezzo. Le partite Iva individuali sono 3 milioni e mezzo, con un reddito medio di circa 15 mila euro lordi, secondo una ricerca della Cgil. Anche in questo caso dare 80 euro al mese costerebbe troppo. Ecco perché l’ipotesi di allargamento del bonus che finora è sembrata più realistica è quella, allo studio dei tecnici del governo, che prevede un aumento delle soglie di reddito per le famiglie numerose con un solo stipendio. La soglia per ottenere gli 80 euro potrebbe salire da 26 mila a 31 mila euro con due figli a carico, a 40 mila con tre, a 50 mila con quattro. Una mini-estensione del bonus che costerebbe alle casse pubbliche non più di 200-300 milioni di euro l’anno. Fattibile. Così come appare possibile un nuovo sconto sull’Irap o comunque un taglio del carico fiscale per le imprese rimaste deluse dal mini taglio Irap di aprile.

Andare oltre diventa molto più difficile perché, come ha ammesso Renzi, quest’anno il prodotto interno lordo resterà intorno a zero. E per rispettare il tetto del deficit del 3% bisognerà fare i salti mortali, nonostante la rivalutazione dello stesso Pil che l’Istat ha in corso. Senza contare che il premier, ieri sera, ha aperto alla possibilità di rimuovere il blocco degli stipendi pubblici. Anche qui, però, più che a un rinnovo pieno dei contratti per 3 milioni e mezzo di dipendenti pubblici, che costerebbe 2,1 miliardi solo nel 2015, bisogna pensare a misure limitate (sblocco dei premi, incentivi alla produttività).