sergio rizzo

Enti, fondazioni e authority: il collocamento dei non rieletti PD

Enti, fondazioni e authority: il collocamento dei non rieletti PD

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Di esperienza sul campo ne aveva da vendere. Era lui che dagli schermi di Video Calabria conduceva Calabria Verde, trasmissione d’inchiesta sull’agricoltura calabrese. A Francesco Laratta detto Franco mancava solo un adeguato riconoscimento istituzionale. Mai dire mai: a settembre del 2014 ha avuto un posto nel consiglio di amministrazione dell’Ismea, l’istituto pubblico per i servizi nel mercato agricolo. Trombato alle politiche del 2013, il coordinatore regionale di Areadem, componente del Pd che fa riferimento a Dario Franceschini, è stato uno degli ultimi ex onorevoli del partito di maggioranza a trovare una ricollocazione. Sia pure come semplice consigliere di un ente statale non di primo livello. Non si può lamentare. A causa di un ricambio generazionale senza precedenti il giorno dopo le elezioni ben 165 onorevoli democratici della scorsa legislatura si sono trovati senza seggio.

Considerando le componenti esterne, vedi i radicali che facevano parte del gruppo Pd, o quanti rimasti fuori dal Parlamento per scelta personale che certo non aspirano alla poltroncina di una società pubblica, si riducono a 135. Ma sono comunque un esercito. E chi si aspettava cambiamenti con la nuova stagione politica deve ricredersi. Perché la realtà dei fatti è ben diversa dalle dichiarazioni di principio. Tanto più che nel 2013 è intervenuto un fatto nuovo e non trascurabile: l’impossibilità per gli ex onorevoli di riscuotere il vitalizio prima dei sessant’anni. Così pure in questi due anni si è assistito a una strisciante e metodica opera di risistemazione dei parlamentari bocciati o esclusi dalle liste. E se il termine «riciclati» può apparire in qualche caso esagerato, vero è che una buona metà ha avuto un incarico pubblico o ha intercettato un ruolo legato in qualche modo alla politica.

In sei sono stati ricandidati o rieletti in altri partiti, salvo poi (qualcuno) rientrare nel Pd. Altrettanti hanno avuto incarichi nelle amministrazioni locali, e non parliamo soltanto dei sindaci di Roma (Ignazio Marino) o di Catania (Enzo Bianco): ma anche di Giovanni Lolli, assessore alla Ricostruzione della Regione Abruzzo, e di Alberto Fluvi, capo segreteria dell’assessore al Bilancio della Toscana Vittorio Bugli. Sono per ora tredici, invece, i destinatari di incarichi di partito. E anche qui c’è incarico e incarico, perché una cosa è fare come l’ex senatore Fabrizio Morri il segretario provinciale a Torino o come l’ex deputato Stefano Graziano il presidente del partito in Campania, e un altro conto essere direttore generale del gruppo pd alla Camera, qual è Oriano Giovanelli. In cinque si sono trasferiti al governo con ruoli che vanno da viceministro dell’Economia (Enrico Morando), a consigliere del ministro della Giustizia Andrea Orlando (Guido Calvisi), a capo della segreteria tecnica del sottosegretario alla presidenza con delega ai servizi segreti Marco Minniti. Quest’ultimo è il caso di Achille Passoni, ex senatore di provenienza Cgil, marito della neoeletta senatrice Valeria Fedeli, già sindacalista Cgil e ora vicepresidente di Palazzo Madama.

Ancora. A diciotto ex parlamentari del Pd sono stati attribuiti incarichi in fondazioni, authority, enti e organismi pubblici di vario tipo. Sia pure con enormi differenze fra ruoli simbolici e posti di grande potere. Mario Cavallaro è diventato presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria. Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy. L’ex senatrice e insegnante Marilena Adamo, presidente della Fondazione scuole civiche del Comune di Milano. L’ex segretario della Cisl e già viceministro Sergio D’Antoni, presidente del Coni Sicilia. L’ex deputata Rosa De Pasquale, direttore dell’ufficio scolastico della Toscana: nomina alla quale la Corte dei conti, come ricordato dal Fatto Quotidiano , ha rifiutato la registrazione. L’ex senatore Carlo Chiurazzi, trombato alle Politiche 2013, presidente del Consorzio di sviluppo industriale di Matera. Mariapia Garavaglia, consigliere della Fondazione Arena di Verona. L’ex onorevole Federico Testa, commissario dell’Enea. L’ex ministro Luigi Nicolais, presidente del Consiglio nazionale ricerche: nomina che al pari di quella di Soro ha preceduto di poco le elezioni. Idem per Giovanna Melandri, passata direttamente da Montecitorio alla presidenza del Maxxi. Giovanni Forcieri, che ha preso il suo posto, era presidente dell’Autorità portuale di La Spezia. E su quella poltrona è stato ricollocato senza alcuna difficoltà dopo la breve parentesi parlamentare. Mentre troviamo Luciana Pedoto, laureata in Economia e specializzata in «epidemiologia dei servizi sanitari», ex segretaria di Giuseppe Fioroni ed ex onorevole non rieletta, all’Istituto nazionale di astrofisica. È responsabile di trasparenza e anticorruzione.

Competenze a parte, su cui pure ci sarebbe molto da dire, il punto è il metodo con cui vengono fatte certe scelte. Le società e le aziende pubbliche, per esempio. Pure lì, dove secondo i piani del governo dovevamo assistere a tagli impietosi, si è assistiti all’inesorabile migrazione degli ex. Di Pier Fausto Recchia alla guida di Difesa servizi abbiamo parlato in varie occasioni. Come dell’assunzione a Invitalia di Costantino Boffa dopo selezione ministeriale ad hoc. Poco, invece, si è detto delle nomine della Regione Lazio alle presidenze delle Ipab: all’Istituto Sacra Famiglia è stato collocato Jean Léonard Touadi; a Santa Maria in Aquiro, Massimo Pompili. Oppure della designazione di Sandro Brandolini alla vicepresidenza di Cesena Fiera. O dello sbarco di Maria Leddi al posto di amministratore unico di Ftc holding, serbatoio di partecipazioni del Comune di Torino. E dei tre incarichi all’ex deputato Ivano Strizzolo: presidente dei revisori della Unirelab srl, società del ministero dell’Agricoltura (di cui figura procuratore Silvia Saltamartini, sorella l’ex portavoce alfaniana Barbara Saltamartini al tempo stretta collaboratrice dell’ex responsabile di quel dicastero Gianni Alemanno) nonché sindaco di Istituto Luce e Postecom.

La presidenza di un’altra società delle Poste, la compagnia aerea postale Mistral Air, è toccata a Massimo Zunino. Il quale, uscito dalla Camera, ha costituito anche una società di consulenza, la Klarity innovaction consulting, insieme a due suoi colleghi di partito rimasti anche loro senza seggio. Ovvero, Michele Ventura e Andrea Lulli. Modo alternativo, sembrerebbe, con cui può fruttare la ricca esperienza parlamentare. Un po’ come è capitato a coloro che hanno assunto per strade diverse incarichi «privati» ma non proprio estranei alla storia politica di ciascuno. L’ex ministro Giulio Santagata, prodiano senza se e senza ma, è consigliere delegato di Nomisma, la società di consulenza fondata da Romano Prodi.

Due mesi fa l’ex prefetto e senatore Luigi De Sena è stato cooptato nel consiglio del Colari, la società di smaltimento dei rifiuti che fa capo a Manlio Cerroni, come garante degli accordi con la municipalizzata romana Ama. Per non parlare degli incarichi di curatore fallimentare (Cinzia Capano) o di liquidatore di cooperative sociali (Ezio Zani, subentrato a Soro e poi trombato alle elezioni). E senza contare chi, rieletto, al seggio ha preferito il «privato»: la senatrice Rita Ghedini, ora presidente di Legacoop Bologna.

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Quel pozzo senza fondo degli sperperi nei Comuni

Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella – Corriere della Sera

«Varie, eventuali e generiche». Manca solo questa dicitura, nelle voci dei bilanci dei Comuni italiani. Per il resto c’è tutto. Con legende così fumose che ti chiedi: cosa diavolo c’è sotto? Esempio: «Rimborso anticipazioni di cassa». Cioè? Boh… Quattro miliardi e mezzo di euro. Come l’Imu sulla prima casa. Lo rivela un nuovo sito da oggi online. Dove i cittadini possono, finalmente, confrontare quanto spendono per le stesse cose, dal materiale di cancelleria alle piante da vivaio, gli oltre ottomila municipi italiani. Alleluia! Purché questo lavoro straordinario venga aggiustato con l’obbligo, su troppe voci, di uscire dall’indefinito. È un pozzo senza fondo di informazioni fondamentali, numeri assurdi e curiosità, il sito soldipubblici.mgpf.it. Navighi un po’ e ti poni domande bizzarre: con chi sono in guerra a Micigliano, in provincia di Rieti, per spendere in «liti e patrocinio legale» 356 euro pro capite contro il miserabile centesimo (un cent!) del comune di Pisa o gli zero (zero carbonella) centesimi di altre migliaia di municipi? Oppure: quali animali si sono comprati a Barengo, in provincia di Novara, per spendere 26 euro abbondanti a testa contro i 2 centesimi di Nocera Inferiore? E cos’è questo «global service» che ha fatto scucire al Comune di Spoleto quasi 217 euro per ogni cittadino se a Pavia non hanno tirato fuori una sola monetina?

Il pasticcio dei codici fiscali
In realtà, molti dati vanno presi con le pinze. È ovvio, ad esempio, che il Comune di Longarone non spende un milione e mezzo di soldi pubblici per ogni cittadino: il guaio è che la banca dati originaria, il Siope (Sistema Informativo Operazioni Enti Pubblici) di Bankitalia, non è stato ancora aggiornato di recenti ritocchi. Vedi appunto Longarone, che dopo la fusione con Castellavazzo risulta avere 6 abitanti invece di 5.433. Peggio, la nuova realtà comunale conserva il nome di prima ma con due codici Istat, due codici fiscali… E pasticci simili sono segnalati per altri sei Comuni: Montoro, Fabbriche di Vergemoli, Scarperia, San Piero, Tremezzina e Val Brembilla. Un peccato, certo. Ma secondario rispetto alla massa enorme di numeri che consentono per la prima volta agli abitanti di Portofino o Bergolo, Marsala o Luserna, come dicevamo, di fare dei paragoni. E capire se il loro municipio, rispetto per esempio ai Comuni vicini, è amministrato bene o male. Per poterne poi chiedere conto. Una trasparenza che, rimossi i piccoli errori iniziali grazie alle inevitabili precisazioni di questo o quel municipio, dovrebbe consentire poi un maggiore controllo pubblico dei conti. E di conseguenza non solo contenere le spese ma arginare la corruzione che conta proprio, per prosperare, sul caos totale dei bilanci.

La squadra e le falle del sistema
E dunque evviva Riccardo Luna, il giornalista esperto di start up innovative pubblicamente ringraziato per questo lavoro anche da Matteo Renzi. Evviva l’ équipe di Giovanni Menduni del Politecnico di Milano che basandosi sui dati del Siope ha battezzato il sito soldipubblici.gov.it segnalando con onestà le iniziali discrepanze. Ed evviva Matteo Flora, della «Thefool» di Milano (Monitoraggio, Moderazione, Gestione e Tutela Legale della Reputazione Online) che ha fatto il passo successivo costruendo il portale soldipubblici.mgpf.it per dare la possibilità a tutti di vedere le classifiche generali e pro capite delle varie spese. Certo, il sistema zoppica sulle varie voci dei bilanci. Che differenza c’è tra gli «incarichi professionali esterni» e gli «incarichi professionali»? Peggio ancora, certe caselle sono così generiche, come scrivevamo, da lasciare spazio a ogni interpretazione: «altre spese per servizi», «altri tributi», «altre infrastrutture» e così via. Prova provata della necessità di cambiare le regole definendo una volta per tutte per ministeri, Regioni, Province (finché ci saranno) e Comuni le diciture che possono essere utilizzate. Così da permettere di capire se sotto la dicitura «altri contratti di servizio» c’è una serata di fuochi artificiali, un cenone clientelare o l’appalto per le fognature.

I miliardi «scomparsi»
Torniamo ai 4 miliardi e mezzo dei «Rimborsi anticipazioni di cassa», metà di quanto i Comuni hanno speso nel 2014 per gli stipendi del personale, nove miliardi. Come sono stati impiegati? Non lo sa nessuno, tranne i cassieri municipali. Si tratta infatti di somme loro affidate per pagamenti in contanti dei quali non esistono riscontri immediati. Ci saranno magari il mese successivo, quando si scoprirà se sono stati usati ad esempio per viaggi o formazione professionale. O si capirà, per intuizione, dal rendiconto del bilancio. Ma la classificazione Siope non dice nulla di più. Una follia: la trasparenza esclude zone grigie. Per non dire di altre sovrapposizioni e intrighi che appaiono studiati apposta per non far capire nulla. Ci sono «trasferimenti correnti ad imprese di pubblici servizi» (253 milioni) e poi «trasferimenti correnti ad aziende speciali» (220 milioni), e poi «trasferimenti correnti ad altri enti del settore pubblico» (1,3 miliardi!) e «trasferimenti correnti ad altri» e «trasferimenti in conto capitale ad altri» e «trasferimenti correnti a imprese pubbliche»… Di cosa parliamo? Di cosa?

Le categorie «gemelle»
E cosa distingue i soldi per «Beni di valore culturale, storico, archeologico e artistico» e quelli per le «opere artistiche»? E come vanno distinti i denari spesi per «fabbricati civili a uso abitativo, commerciale e istituzionale» (1,3 miliardi!) e le «locazioni» (389 milioni) e gli «altri beni immobili» (un miliardo e 552 milioni!) e la «manutenzione ordinaria e riparazione di immobili» (752 milioni!) e le «altre spese di manutenzione ordinaria e riparazioni» pari a 571,6 milioni? E che differenza c’è fra «beni di rappresentanza» e i «servizi di rappresentanza»? Non esiste nemmeno la certezza che in quelle voci i Comuni mettano tutti le stesse cose. L’addetto che materialmente compila i mandati ha sì l’obbligo di metterci un codice: ma lo sceglie lui. Lui! E il tesoriere che stacca l’assegno non è tenuto a controllare che sia giusto, ma solo che un codice ci sia. E così sarà fino al prossimo 15 marzo, quando l’obbligo di fattura elettronica per le pubbliche amministrazioni almeno questo problema, Deo gratias, dovrebbe risolverlo.

Le spese dei più piccoli
Eppure, nonostante il guazzabuglio, qualcosa di come gli enti locali spendono i soldi si riesce finalmente a capire, grazie soprattutto al numeretto che gli «hacker» hanno messo accanto a ogni cifra: il valore pro capite, appunto. Quel numeretto dice, ad esempio, che certe dimensioni lillipuziane dei municipi non hanno senso. Il Comune più piccolo d’Italia, Pedesina in Provincia di Sondrio, paga per le indennità del sindaco e dei consiglieri comunali 9.358 euro: tanto quando spende (9.679 euro) alla voce «competenze per il personale a tempo indeterminato», forse un unico impiegato part-time. Fanno 283 euro a testa. Ovvio, con 33 abitanti, un sindaco e 11 consiglieri comunali… Moncenisio di consiglieri ne ha 11 per 34 abitanti, e spende ancora di più: 15.449 euro. Sono 454 euro a persona, che fanno di quel paese torinese il posto dove si stanziano più soldi pro capite per mantenere i pubblici amministratori. E anche per le consulenze: sempre che per «incarichi professionali» si intendano quelle. La spesa pro capite nell’ultimo anno è stata di 955 euro. Per un totale di 32.495 euro. Una cifra modesta, in assoluto. Neppure paragonabile con i 75,1 milioni (28 euro pro capite) di una città come Roma. Ma la dice lunga su quanto l’accorpamento dei Comuni minuscoli, pur nel rispetto delle tradizioni storiche e del diritto di rappresentanza, sia indispensabile per mettere sotto controllo la spesa.

Pro capite a confronto
I confronti, sul pro capite, possono essere micidiali. Gli amministratori locali a Roma costano 7,8 milioni: due euro per abitante. Che salgono a 3 a Milano, 5 a Napoli, 6 a Palermo, 11 a Cosenza, 12 a Siracusa e Caserta, 13 euro a Bolzano, 14 a Messina, 15 a Chieti, 22 a Vibo Valentia, 24 ad Aosta… Per carità, è chiaro che più piccola è una realtà e più lo stesso identico servizio costa. Ma una regolamentazione fissa sui gettoni di presenza decisi a livello nazionale in rapporto anche agli abitanti appare indispensabile: i 498 milioni stanziati nel 2014 per le indennità e i gettoni alle giunte e ai consiglieri comunali potrebbero essere spesi più equamente. Prendiamo una delle voci più grosse? Lo smaltimento dei rifiuti, che costa agli italiani quasi 8 miliardi e mezzo l’anno. Il Comune di Napoli nel 2014 ha sborsato 305 euro per ogni cittadino, Venezia 318: ovvio, in una città dove i turisti sono quotidianamente il triplo degli abitanti la raccolta differenziata è complicatissima. Ma si possono spendere 684 euro pro capite a Porto Cesareo, 760 a Capri, 802 a Caorle? Fermo restando, si capisce, che non sempre un’alta spesa pro capite denuncia una mancanza di efficienza. Prendiamo il trasporto pubblico locale: il Comune dove il costo è più elevato è Milano: 621 euro per abitante, contro i 265 di Roma, i 230 di Napoli, i 263 di Brescia e addirittura gli 85 di Palermo. La qualità del servizio di trasporto nel capoluogo lombardo non è minimamente paragonabile, però, non solo con quella dei capoluoghi siciliano o campano, ma neppure quella di Roma. Dove l’incasso dei biglietti è la metà rispetto a Milano e una società come l’Atac, fosse privata, sarebbe già fallita.

Le spese delle scuole
E i servizi scolastici? A Milano si spendono 33 euro per abitante. Niente, in confronto ai 118 di Basiglio, il Comune più ricco d’Italia, o ai 108 di Maranello, il paese della Ferrari. In confronto ai 21 di Potenza, però, si tratta di un’enormità. Ma anche in rapporto ai 17 di Firenze, agli 11 di Livorno, agli 8 di Catania e Latina, ai 7 di Cagliari, ai 6 di Catanzaro… Onestamente: siamo sicuri che i servizi milanesi, in questo settore, valgano tre volte quelli livornesi? È qui che servono, i confronti. Com’è possibile che Milano nel 2014 per la voce «servizi ausiliari e pulizie» abbia speso 23 euro per abitante e Roma solo 7? Risponderete: la differenza si vede. Ma come la mettiamo con Potenza, che ne ha spesi 103? E Salerno: 120? E Muggia, che di euro ne ha investiti 138, può davvero dimostrare che valeva la pena di stanziare il triplo pro capite di Trieste (44 euro) con la quale confina? È così abissale, la differenza, o c’è qualcosa che non torna?

«Varie e generiche»
Della serie «varie e generiche»: a cosa si riferisce la voce «altri materiali di consumo» che assorbe in totale 518 milioni e vede in testa per numeri assoluti Ragusa e nel pro capite il borgo sudtirolese di Tires? Pennarelli, fotocopiatrici o sci? E come mai alla voce «Mezzi di trasporto» Roma risulta avere speso nell’ultimo anno 77,1 milioni contro 4,2 di Milano? Spese improvvise e non previste? Una cosa è certa. Una volta messa a punto la banca dati online con le precisazioni e le contestazioni di questo e quel Comune, nulla sarà più come prima. Già oggi i cittadini di Pomezia, per dire, hanno il diritto di chiedere: come mai per «carta, cancelleria e stampati» la città spende 1,4 milioni e cioè più di Milano (988 mila), Catania (971 mila) o Roma (769 mila)? E perché, si interrogheranno a Roio del Sangro, il loro Comune per «pubblicazioni, giornali e riviste» sborsa 53 euro pro capite contro i 2 di Trento? E come mai Cittareale ha speso 186 euro pro capite di «derrate alimentari»? Tempi duri, per gli amministratori spendaccioni. Purché non ci si accontenti di questo primo assaggio di trasparenza e si metta mano infine al modo insensato di fare i bilanci. E purché, dopo quelli comunali, vengano messi online, con la stessa chiarezza, i bilanci delle Regioni e dei ministeri. Che al momento, però, sembrano un po’ sordi…

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

L’impossibile impresa di semplificare l’Italia

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Semplificare, semplificare, semplificare. Da anni non sentiamo parlare, da parte di chi sta al governo, che di «semplificazioni». Dal berlusconiano ministero «per la semplificazione normativa» al montiano decreto «semplifica Italia», al renziano dicastero per la «Semplificazione e la pubblica amministrazione». Ma quando i poderosi apparati semplificatori passano dalle parole ai fatti la musica è, ahinoi, assai diversa. Prendete lo «sblocca Italia», un provvedimento appena approvato dal parlamento, che nonostante il proposito di rendere la vita più facile per la realizzazione delle opere pubbliche contiene un guazzabuglio di norme scritte talvolta in modo così astruso da risultare incomprensibili, ne abbiamo la certezza, perfino ai mandarini che devono averle scritte.

Prova ne sia un fatto che in qualunque altro Paese europeo avrebbe dell’incredibile. Lo stesso giorno che la legge di conversione dello «sblocca Italia» viene pubblicata sulla Gazzetta ufficiale , l’11 novembre, ecco che compare sempre sulla medesima Gazzetta un decreto legge intitolato «Nuove norme per le bonifiche dei siti inquinati» che modifica due norme dello stesso «sblocca Italia» reperibile qualche pagina prima. Inutile leggerlo, se non siete ipertecnici: non ci capirete un’acca.

Ma quello che c’è dentro qui importa poco. È il fatto in sé: ricorda da vicino quello che accadde a Natale del 2006, quando si stava approvando la prima legge finanziaria del secondo governo di Romano Prodi. Un altro guazzabuglio condensato in un unico articolo di quasi 1.400 commi, nel quale si scoprì una norma che mirava a tagliare le unghie alla Corte dei conti.

Quando lo seppe, il giorno prima dell’approvazione, Prodi intimò di toglierla dal testo. Ma era stata scritta in modo talmente indecifrabile che la cercarono tutta la notte ma non riuscirono a trovarla. E il giorno dopo, mentre il Parlamento votava la finanziaria con dentro quella irreperibile norma avvelenata, il governo fu costretto a fare in fretta e furia un decreto legge per abrogarla. Pagò il funzionario che era stato inutilmente incaricato di scovarla, rispedito dal Tesoro agli uffici di provenienza. L’autore del comma incriminato era un senatore, Pietro Fuda, eletto in Calabria nella lista appoggiata dai movimenti dei consumatori. In quel momento, per ironia della sorte, aveva l’incarico di presidente della commissione parlamentare per la Semplificazione normativa.

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Abolizione dello scontrino, ennesimo annuncio di un fisco che complica invece di semplificare

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La direttrice dell’agenzia delle Entrate Rossella Orlandi ha annunciato che presto sarà abolito lo scontrino fiscale. I commercianti esulteranno. Le imprese che producono le macchinette per emettere gli scontrini, un po’ meno. I professionisti delle note spese, sulle prime, saranno sconcertati. E molti cittadini che pagano le tasse fino all’ultimo centesimo resteranno invece rabbiosamente interdetti, sospettando che si voglia far sparire l’unico strumento che costringe artigiani e negozianti a compiere il proprio dovere con il Fisco. Niente di tutto questo, ovvio: ci assicurano che è soltanto semplificazione. Dalla carta alla tracciabilità elettronica. Il premier Matteo Renzi non aveva forse promesso di portare l’Italia fuori dal medioevo digitale?

Benissimo, allora.Se non fosse che quando il Fisco parla di cambiare le regole, o peggio ancora accenna a qualche semplificazione, vengono i brividi. Non c’è ministro delle Finanze che da quarant’anni a questa parte non abbia annunciato una riforma fiscale. Con il solo risultato di accrescere gli adempimenti, aumentare la burocrazia e far salire dunque i costi per le imprese e i cittadini e per lo Stato. Quante volte sono cambiate le regole fiscali non lo sa nemmeno chi si accanisce a inondarci di norme e circolari. Corre quindi l’obbligo di ricordare i numeri contenuti in uno studio della Confartigianato, secondo cui nei 2292 giorni intercorsi fra il 29 aprile 2008 e l’8 agosto 2014, periodo durante il quale anche il nome dell’attuale direttrice delle Entrate compariva negli organigrammi dei vertici degli apparati fiscali, sono stati emanati 46 provvedimenti contenenti 691 norme di natura tributaria. Della quali ben 418 hanno complicato la vita a cittadini e aziende, contro le 96 che l’hanno semplificata e le 177 che non hanno avuto particolari effetti burocratici. Negli ultimi sei anni e mezzo il Fisco ha sfornato una complicazione alla settimana: lo sa Rossella Orlandi?

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Il vigile del fuoco rapinatore e l’impiegato «ubriaco fisso», quei casi assurdi del reintegro

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

La mattina entrava in banca vestito da sceriffo con cappello da cowboy e stellone sul petto. Ma non si trovava negli States e non faceva il poliziotto. In quella italianissima banca era solo un impiegato. Così fu licenziato: fece causa ma non ottenne il reintegro. Sfortunato. Fosse capitato con quel giudice di Monza che aveva revocato il licenziamento del dipendente di una ditta che si ostinava a presentarsi tutti i giorni con i pantaloncini corti, sarebbe andata diversamente. Cioè come al solito. Con la bilancia dell’articolo 18 che quando si arriva davanti al magistrato, argomenta l’avvocato giuslavorista Andrea Del Re, pende quasi sempre dalla parte del lavoratore. Anche in casi che davvero non ti aspetti.

Fece scuola quello dell’alcolista cronico che non solo non andava a lavorare, ma nemmeno avvertiva l’azienda. Il giudice lo reintegrò perché «l’assenza dal servizio e l’inosservanza dell’obbligo di comunicazione non possono costituire giustificato motivo soggettivo di licenziamento quando son dovute non già a stati di ubriachezza, bensì a un danno cerebrale costituente l’esito della prolungata assunzione dell’alcol e dei suoi effetti». Siccome era sempre ubriaco non era dunque capace di intendere e volere, quindi non licenziabile. Il celebre giurista Giuseppe Pera la marchiò come la sentenza dell’«ubriaco fisso». Caso per nulla paradossale, percorrendo la lunga galleria degli orrori giudiziari che Del Re ha pubblicato nel saggio collettivo «Art.18: la reintegrazione al lavoro», curato da Massimo Bornengo a Antonio Orazi.

C’è l’infermiere che picchia un paziente e il giudice intima alla clinica di ridargli il posto con la motivazione che «si è trattato di un fatto isolato ed eccezionale in relazione a un paziente particolare», aggiungendo che «l’aver perso per una volta il controllo delle proprie azioni non può giustificare quella che rimane un’estrema ratio». C’è il vigile del fuoco colto a rapinare una banca, sospeso dal servizio e riammesso con il pagamento degli arretrati da un magistrato appassionato di cinema che s’indigna per la decisione ritenendo «vergognoso rovinare prima di una condanna una persona e la sua famiglia per una sostanziale esigenza di immagine, di apparenza dell’istituzione, in assenza di un concreto pericolo in ambiente lavorativo e nella società…». Tanto più ricordando, scrive testualmente nella sentenza, il film «“Rapina a mano armata” di Stanley Kubrick, risalente al lontano 1956 nel quale il protagonista (Sterling Haiden) dice alla fidanzata: “Vedi, nessuno di loro è un vero e proprio criminale, hanno tutti un lavoro e apparentemente conducono una vita normale, ma hanno i loro problemi”».

C’è l’operaio che mostra i genitali ai suoi colleghi e viene reintegrato, «tenuto conto che il gesto esibizionistico era compiuto in assenza di personale femminile, non era stato dettato da istinti sessuali e, pur nella sua volgarità e indecenza, non aveva integrato gli estremi del delitto di atti osceni». E c’è chi, avendo invece molestato due compagne di lavoro «compiendo atti esibizionistici, in particolare esibendo i genitali ad una di loro», si salva dal licenziamento perché il giudice lo considera «provvedimento disciplinare sproporzionato».

Per non parlare del più classico dei classici. Ovvero, del dipendente licenziato perché scoperto a svolgere un secondo lavoro durante le assenze per malattia e regolarmente reintegrato. E grazie a un precedente che ha da poco compiuto ventotto anni. Una sentenza del pretore di Viareggio nella quale si afferma: «È illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore che, in costanza di malattia, ha svolto attività lavorativa ma nessun danno ha arrecato al datore di lavoro, in quanto la suddetta malattia richiedeva oltre che le cure anche la necessità del lavoratore di vivere con familiari e amici e di trovare interesse nell’ambiente esterno, cosicché l’attività svolta era compatibile con lo stato di malattia la cui guarigione non solo non è stata ritardata, ma è stata anche accelerata».

Non è un delitto tagliare del 2%

Non è un delitto tagliare del 2%

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Facciamo davvero fatica, e tanta, a comprendere il lamento delle Regioni dopo che il governo di Matteo Renzi ha chiesto loro di tagliare 4 miliardi. Il sacrificio equivale a circa il 2 per cento di una spesa pubblica regionale che da quando nel 2001 è stato approvato il nuovo Titolo V della Costituzione è andata letteralmente in orbita. In un solo decennio la crescita reale, depurata cioè dell’inflazione, è stata di oltre il 45 per cento. Con una qualità dei servizi che certo non ha seguito lo stesso andamento. I presidenti delle Regioni minacciano ripercussioni sulla Sanità. Argomento cui si ricorre spesso quando viene paventato un giro di vite, nella speranza di conquistare il sostegno dei cittadini. I quali però avrebbero anche diritto di conoscere le cifre.

Nel 2000, prima dell’entrata in vigore del famoso Titolo V che ha esteso in modo scriteriato le autonomie regionali, la spesa sanitaria era di poco superiore a 70 miliardi. Nel 2015 ammonterà invece a 112 miliardi. L’aumento monetario è del 60 per cento, che si traduce in un progresso reale del 22 per cento.Si potrà giustamente sostenere che in quindici anni sono cambiate molte cose: la vita media si è allungata e la popolazione è più anziana. Per giunta, la Sanità italiana è considerata fra le migliori d’Europa, al netto delle grandi differenze territoriali al suo interno che si traducono in un abisso del diritto fondamentale alla salute tra il Nord e il Sud: altro effetto inaccettabile del nostro regionalismo.Resta il fatto che nel 2000 la spesa sanitaria pro capite era di 1.215 euro e oggi è di 1.941, con un aumento monetario del 59,7 per cento e reale del 26,7. La differenza di qualità del servizio è tale da giustificarlo?

Con un documento di qualche settimana fa il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha spiegato che in un anno è riuscito a ridurre di 181 milioni la bolletta sanitaria senza colpo ferire: solo razionalizzando acquisti e spesa farmaceutica. Dal canto suo la Consip, la società statale che gestisce gli acquisti della pubblica amministrazione, ha fatto risparmiare 100 milioni su 320 soltanto con la fornitura centralizzata delle strisce per la misurazione della glicemia, comprate a un prezzo unitario di 19 centesimi mentre prima si andava da un minimo di 45 centesimi a un massimo di un euro e 10. Tanto basta per far capire quanto grasso ci sia ancora nei conti della Sanità. Ma il grasso della Sanità è niente rispetto al resto. Il fatto è che la riforma del Titolo V ha scatenato un terremoto molto più dirompente di quanto non fosse prevedibile a causa della maggiore autonomia concessa alle Regioni. Queste hanno cominciato subito a comportarsi come piccoli Stati indipendenti i cui amministratori, ribattezzati pomposamente «governatori» con la colpevole complicità della stampa, non avevano però il dovere di rispondere agli elettori, visto che i soldi venivano pressoché tutti distribuiti attraverso lo Stato centrale.

Una sindrome dagli effetti sconcertanti, come dimostra la costosissima proliferazione di sedi estere, da Bruxelles al Sudamerica alla Cina: come se ogni Regione dovesse avere una sua politica internazionale. Si è arrivati perfino a creare strutture come il Centro estero per l’internazionalizzazione piemontese che ha come obiettivo quello di «rafforzare il made in Piemonte». Mentre la vicina Regione Lombardia lanciava il progetto «made in Lombardy».Le conseguenze sono state nefaste. Al Nord come al Sud. I rigagnoli di spesa si sono moltiplicati, diventando fiumi in piena. Gli organici sono stati gonfiati a dismisura. Sul totale di 78.679 dipendenti regionali (Sanità esclusa), la Confartigianato ha calcolato esuberi teorici del 31 per cento: 24.396 unità. Ipotizzando un risparmio annuo possibile di 2 miliardi e 468 milioni. Il record spetta al Molise, con esuberi teorici del 75,4 per cento, seguito della Valle D’Aosta (71,2).

Le cronache offrono casi formidabili. Nella Calabria dove ci sarebbero 1.184 dipendenti di troppo, l’ispettore spedito dal Tesoro, come ha raccontato sul Corriere di Calabria Antonio Ricchio, ha scoperto cose turche. Per esempio 1.969 promozioni in un solo anno (il 2005 delle elezioni regionali) da lui ritenute illegittime, al pari degli aumenti di stipendio retroattivi assegnati a 85 impiegati dei gruppi politici. Nel Lazio, invece, per tutti gli anni Duemila si è registrata un’impennata pazzesca del personale dei parchi: nel 2009 erano 1.271. Di cui 99 dirigenti. Per non parlare delle società controllate e partecipate. La Corte dei conti ha appurato che quelle della sola Regione Siciliana occupano 7.300 persone, con una spesa di un miliardo e 89 milioni nel quadriennio 2009-2012 per le buste paga. Nello stesso periodo la Regione aveva versato nelle loro casse un miliardo e 91 milioni, cifra che secondo i giudici contabili comprende anche «il ricorso reiterato e improprio a interventi di mero soccorso finanziario a società prive di valide prospettive di risanamento».

E la politica? I consigli regionali, privati di ogni controllo centrale, hanno rivendicato prerogative pari a quelle del Parlamento nazionale, cominciando dall’autodichìa. Ovvero, l’insindacabilità assoluta su come spendono i soldi. Scandali a parte, è potuto accadere così che il consiglio regionale del Lazio abbia sfornato in meno di 40 anni 40 leggi locali ognuna delle quali ha accresciuto i privilegi retributivi e pensionistici dei consiglieri.Il risultato è che oggi un terzo del bilancio del consiglio laziale se ne va per pagare i vecchi vitalizi. Grazie alle antiche regole mai cambiate c’è pure chi continua a prendere l’assegno a cinquant’anni e dopo una sola seduta.Le Regioni spendono per i vitalizi 173 milioni l’anno. Cifra che sale in continuazione ma che potrebbe essere ridotta di almeno 50 milioni, dice il finora inascoltato rapporto sulla spending review , senza gettare sul lastrico nessuno. Ma su questo, da chi si straccia le vesti per i tagli chiesti dal governo, neppure un sussurro.

Coraggio, tagli senza illusioni

Coraggio, tagli senza illusioni

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Matteo Renzi dice che «sarà la più grande opera di taglio delle tasse mai tentata». Non possiamo che augurargli (e augurarci) successo. Ma abbiamo il dovere di chiedere chiarezza su certi numeri. La manovra da 30 miliardi con riduzione di imposte per 18 sarà finanziata allargando i cordoni della borsa? O ridimensionando in modo deciso e intelligente la spesa pubblica improduttiva, come sarebbe doveroso? Il sospetto che prevalga la prima ipotesi non può essere scartato. Spiega il premier che la spending review prevede tagli per 16 miliardi. Ed è proprio questo il punto più delicato: si ha la sensazione che dietro a quel numero ci sia ben poco.

Alla notizia che Cottarelli avrebbe gettato la spugna, Renzi era rimasto impassibile. Promettendo: «La spending review la faremo anche se lui va via». E aggiungendo: «Abbiamo una strategia». Ma quale fosse non è mai stato chiarito. Il piano che avrebbe dovuto far risparmiare 34 miliardi in tre anni è finito in chissà quale cassetto. Mentre arriva semmai qualche segnale opposto e disarmante. Le famose partecipate, per esempio. Punto qualificante della spending review di Cottarelli era il taglio della pletora di società pubbliche spesso tenute in vita solo per assicurare poltrone a ex politici, amici e sodali. Con il risultato di portarle dalle attuali 8 mila a circa mille, ottenendo risparmi miliardari. Obiettivo sacrosanto condiviso da Renzi in pubbliche dichiarazioni. Intanto però il solito deprecabile andazzo proseguiva. Qualche caso? In agosto la Sogesid, società che nonostante 118 dipendenti nel 2013 ha pagato 380 consulenze spendendo 8,5 milioni e che il governo Monti avrebbe voluto chiudere ritenendola inutile, è stata rianimata e affidata a una vecchia conoscenza: il supercasiniano Marco Staderini.

Un mesetto prima l’ex deputato del Pd Pier Fausto Recchia, rimasto senza seggio, era diventato ad di Difesa servizi: spa inventata dall’ex ministro La Russa fra le feroci contestazioni della sinistra. Oggi, magicamente svanite. Sempre in agosto ecco alla presidenza di Mistral Air, compagnia aerea delle Poste di cui si ipotizzò lo scioglimento in Alitalia, un altro ex onorevole pd cessato dal mandato nel 2013: Massimo Zunino. La storia si ripete. E il verso, lo diciamo con amarezza, sembra sempre lo stesso.

Norme edilizie, invincibile Babele

Norme edilizie, invincibile Babele

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Un problema «formale» l’ha definito il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi. Quale sia la «formalità» così decisiva da far saltare la semplificazione più importante contenuta nel decreto «sblocca Italia», non è dato sapere. L’unica cosa certa è che la norma con la quale si stabiliva che gli 8 mila Comuni italiani avrebbero avuto un regolamento edilizio uguale per tutti è misteriosamente scomparsa nella notte fra lunedì e martedì. Evaporata, volatilizzata, dissolta. Lupi dice che se ne parlerà in sede di conversione del decreto nel Parlamento. Oppure in un altro provvedimento.

Che cosa è successo? Lupi fa capire che ci potrebbe essere stato il solito problema della Ragioneria: per una norma che non ha costi e che farebbe perfino risparmiare. C’è invece chi dice che gli uffici (quali uffici?) avrebbero sollevato un problema di conflitto con le amministrazioni locali, visto che la materia è di competenza regionale. E non manca chi suggerisce che non avendo una norma del genere carattere di urgenza, non si può adottare per decreto: come se non fosse urgente dare a tutti gli italiani la possibilità di avere un permesso edilizio al massimo in 110 giorni, la media europea, anziché il 239, la media italiana.

Perché questo sarebbe successo se quella norma, sulla quale tutti (ma forse solo apparentemente) si erano dichiarati d’accordo, fosse sopravvissuta. Per quel malinteso senso dell’autonomia che sconfina nel grottesco, è successo che ogni Comune si è fatto un regolamento proprio, diverso da quello del paese o della città vicina. Si comincia dall’elemento più banale: il vocabolario. La stessa cosa si può chiamare con termini differenti. La superficie di un’abitazione che a Milano si chiama «pavimentabile», altrove è «calpestabile», oppure «netta». Qualcuno arriva perfino a definire maniacalmente certe disposizioni igieniche, come il bagno che per legge (per legge!) dev’esser piastrellato fino a una certa altezza, o «rivestito di materiale lavabile». Il guazzabuglio di norme comunali è talmente complicato che nello stesso ufficio tecnico municipale c’è chi arriva a interpretare una regola in modo diverso dal suo collega di stanza. Quando addirittura, come nel caso di Roma, ci sono regole diverse da una circoscrizione all’altra.

Prevedibilissime e devastanti le conseguenze. Una burocrazia asfissiante e talvolta senza alcuna certezza, tanto è soggettiva l’interpretazione delle regole. Con tempi indefiniti e costi allucinanti a carico dei cittadini. Che per ogni più piccolo intervento sono costretti a rivolgersi a specialisti e azzeccagarbugli: gli unici capaci a districarsi nella giungla delle norme. Per non parlare del problema di alcuni diritti fondamentali dei cittadini, diseguali da città a città. Si potrebbe aggiungere che questo sistema rappresenta un incentivo formidabile per la corruzione, il che già basterebbe per cambiarlo radicalmente.

Inevitabile il sospetto che siano proprio questi i motivi che hanno finora impedito di metterci mano. Gli apparati burocratici locali sarebbero così felici di perdere tutto questo potere di tracciare norme e regolamenti che viaggiano dagli uffici comunali a quelli regionali in un vortice infinito, senza considerare la quantità di personale che si ritroverebbe improvvisamente senza occupazione? E i consulenti che prosperano grazie alla complicazione dei regolamenti comunali, pensate che accetterebbero volentieri di vedersi privare di una fonte di reddito così generosa?

Per ora si deve prendere atto come il governo di Matteo Renzi, che al suo debutto aveva dichiarato guerra alla burocrazia promettendo semplificazioni a tappeto, ha spedito un’altra palla in tribuna. Del regolamento edilizio comunale unico ne parleranno forse nella legge di Stabilità, se qualche temerario non oserà riproporla in Parlamento. Insomma, campa cavallo. Mentre nel decreto «sblocca Italia» la norma a dir poco controversa che consentirà la proroga delle concessioni autostradali non ha subito al contrario alcun incidente di percorso nelle segrete delle burocrazie ministeriali. Guarda un po’…

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sommersi da una valanga di regole fiscali

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Bravissimi a «incasinare le cose semplici», abbiamo «un sistema fiscale che è quanto di più assurdo, farraginoso e devastante si possa immaginare». Diagnosi pressoché perfetta, quella di Matteo Renzi. Così perfetta che di fronte a questa realtà certe promesse, condite dalla convinzione che «se ci impegniamo le tasse possiamo pagarle con un sms» sembrano fantascienza. Inarrestabile nel fare la pulci alla burocrazia, l’ufficio studi della Confartigianato si è preso la briga di contare le norme in materia fiscale che sono state emanate di volta in volta dai quattro governi che si sono succeduti dal 29 aprile 2008 all’8 agosto 2014. Sono la bellezza di 691, in 46 diversi provvedimenti. Una massa imponente di regole e disposizioni che si sono andate ad aggiungere al mucchio, già inverosimile, di leggi e circolari. E di quelle 691 norme, ben 418 hanno avuto un impatto burocratico sulle imprese, rendendo ancora più complessi gli adempimenti. Il tutto mentre le disposizioni che avrebbero dovuto facilitargli la vita, sempre fiscalmente parlando, si sono fermate a 96. Facendo la differenza fra i due dati, salta fuori un «saldo burocratico», come lo definisce la Confartigianato, di 322. Il che fa concludere che nei 2.292 giorni presi in esame il nostro fisco si è complicato al ritmo di una norma alla settimana. Esattamente, una ogni 7,1 giorni. Sabati, domeniche e feste comandate comprese. E poco importa che la maggioranza delle regole «complicatrici» abbia avuto effetti contenuti, considerando che quelle il cui impatto è considerato tragicamente insostenibile sono «soltanto» 29 su 4.18. Il fatto è che quella «tela di Penelope» capace di rendere il sistema sempre più intricato, lento e costoso hanno continuato imperterriti a tesserla di giorno e smontarla di notte. Se è vero, nei sei anni presi in esame, che per ogni norma di semplificazione ne sono state approvate 4,3 di complicazione.

Il record assoluto è stato conseguito nel 2013, anno per due terzi governato da Enrico Letta. L’organizzazione degli artigiani ha calcolato un «saldo burocratico» di ben 93 norme. Una ogni 3,9 giorni. Al secondo posto il 2012, interamente sotto la responsabilità del governo di Mario Monti, con il «saldo burocratico» arrivato a 70. Vero è che anche l’esecutivo di Silvio Berlusconi ci aveva messo del suo, con un «saldo»paria 142. Ma in tre anni e mezzo. E Renzi? Il governo dell’ex sindaco di Firenze, afferma il dossier della Confartigianato, «ha emanato sette provvedimenti con 75 norme di carattere fiscale di cui 24 semplificano, 11 sono neutre e 40 hanno impatto burocratico sulle imprese». C`è però da dire che le semplificazioni sono quasi tutte concentrate (23 su 24) nel decreto sulle dichiarazioni precompilate esaminato dal Consiglio dei ministri a giugno ma ancora da approvare. Forse domani: vedremo. E se nella valanga abbattutasi dal 2008 sulle imprese potrebbe essere quello il provvedimento con il migliore «saldo burocratico», alla luce dell’andazzo di questi sei anni non possiamo che considerarlo per ora solo un segnale.

La corda è davvero tesa all’inverosimile. Il segretario generale della Confartigianato Cesare Fumagalli sostiene che non c’è da perdere un minuto: «Il gioco di ridurre una tassa e poi aumentarne altre perché serve gettito per coprire le spese sta ammazzando le pecore, tosate già oltre ogni limite. Senza interventi immediati che riducano gli oneri fiscali per le imprese si rischia davvero grosso. Se non ora, quando?». Tornano alla mente le parole con cui il ministro delle Finanze Antonio Gava debuttò in un’audizione parlamentare: «La prima cosa, urgentissima, per potenziare la lotta all’evasione fiscale, è la semplificazione del sistema tributario». Correva l’anno 1987. Sei anni dopo, era il 1993, il suo successore Franco Reviglio firmava il decreto istitutivo di una commissione per la semplificazione della normativa fiscale. Finita nel nulla. Neanche quindici mesi e il primo governo Berlusconi, ministro il «Reviglio boy» Giulio Tremonti, faceva trapelare un progetto superavveniristico. Titolo dell’Ansa del 5 agosto 1994: «Fisco, verso pagamento tasse con bancomat». Rincarava la dose il ministro Augusto Fantozzi, il 24 maggio 1995: «Grosse novità dal ddl semplificazione fiscale››. E nel 2001, mentre gli sportelli automatici delle banche erano in attesa di avvistare il primo contribuente e delle «grosse novità» non c’erano ancora tracce. Tremonti dichiarava: «Grazie al regolamento sulla semplificazione del Fisco in Italia si avranno 190 milioni di atti amministrativi in meno». Da allora non c’è stato governo che non abbia garantito un Fisco più facile e amico dei cittadini e delle imprese. L’ha promesso il centrodestra e l’ha promesso il centrosinistra. L’ha promesso il governo tecnico e l’ha promesso quello delle larghe intese. Ma ondeggiando arditamente tra bancomat, sms e dichiarazioni precompilate alla francese, siamo sempre li. Sempre più sommersi da commi, circolari e regolamenti. Inchiodati a quel 1987, quando la semplificazione era considerata urgentissima. Quando Reagan e Gorbaciov firmavano il trattato sugli euromissili, la Cbs trasmetteva in America la prima puntata di Beautiful, al maxiprocesso di Palermo la cupola di Cosa nostra veniva condannata all’ergastolo.

L’ora dei tagli, 1123 società sono soltanto scatole vuote

L’ora dei tagli, 1123 società sono soltanto scatole vuote

Sergio Rizzo – Corriere della Sera

Carlo Cottarelli ne è perfettamente cosciente: il problema più grosso non è scovare le migliaia di società pubbliche inutili, ma come liberarsene. Venderle? Impossibile trovare qualche pazzo suicida disponibile a farsene carico. Chiuderle, allora? Ne sa qualcosa chi ci ha provato. Valga per tutte l’esempio della Siace, ovvero la Società per l’industria agricola, cartaria editoriale, di proprietà della Regione siciliana. L’hanno messa in liquidazione nel 1985, quando il Verona di Osvaldo Bagnoli vinceva lo scudetto, un commando palestinese sequestrava l’Achille Lauro e Michail Gorbaciov diventava segretario del Pcus. E ancora non ne sono venuti a capo.

In molti casi, allora, la soluzione non potrà che essere quella di accorpare, accorpare e accorpare ancora, prima di liquidare. Per tagliare intanto le poltrone nei consigli di amministrazione. Quindi i posti di lavoro inventati e clientelari. Ma non crediate che siano operazioni semplicissime. Nemmeno per quelle 2.761 società che, dice il rapporto Cottarelli sulle partecipate pubbliche, hanno più amministratori che dipendenti. Come Rete autostrade mediterranee: la quale, udite udite, non è di un ente locale sprecone, e neppure di una Regione spendacciona. Ma del Tesoro. Creata dieci anni fa dal governo di centrodestra per il progetto delle autostrade del mare, gestisce le istruttorie per i contributi dovuti ai tir che viaggiano sulle navi anziché intasare le strade. Ha cinque amministratori e quattro dipendenti, di cui tre a tempo determinato. Più alcuni contratti a progetto. Con una spesa per i compensi degli amministratori che nel 2012 superava di 55 mila euro quella per le retribuzioni del personale. Il solo amministratore delegato Tommaso Affinita, dirigente del Senato che era stato capo di gabinetto dei ministri Agostino Gambino e Pinuccio Tatarella nonché presidente dell’autorità portuale di Bari, percepiva secondo i dati pubblicati dal Tesoro un compenso di 246 mila euro.

E non sarà una passeggiata, purtroppo, neppure mettere mano alle 1.213 società che sono soltanto scatole vuote. Hanno, sì, gli amministratori. Ma nemmeno una segretaria. Il fatto è che se lo Stato centrale controlla 50 gruppi, con 526 società di secondo livello, il resto della faccenda sta tutta in periferia, e ha dimensioni enormi. Ben prima del commissario alla spending review la Corte dei conti ha provato a tracciarne i contorni. Arrivando a un livello di approssimazione che fa venire i brividi, come ha raccontato il procuratore generale Salvatore Nottola in occasione dell’approvazione del rendiconto statale, il 26 giugno scorso. Perché alle 576 società che fanno capo allo Stato ne bisogna sommare altre 5.258 di Regioni, Province e Comuni, più 2.214 «organismi di varia natura». Consorzi, enti, agenzie, che porterebbero il totale a 8.048. Con un dedalo inestricabile di partecipazioni: secondo la Corte dei conti le singole quote azionarie in mano ai soli Comuni sarebbero qualcosa come 33.065. Il condizionale è d’obbligo.

Sentite che cosa scrive Cottarelli nel suo blog: «Si è parlato di ottomila società, consorzi, enti vari partecipati degli enti locali, comuni e regioni soprattutto. Ma sono certo di più», In questa «giungla molto variegata», come il commissario uscente la definisce, c’è davvero di tutto. Perfino, sottolinea, società che vendono «ciò che è già offerto dal mercato» privato. Già. Come l’Enoteca laziale, un ristorante di proprietà della Regione Lazio, dove però certo assessori mangiavano gratis con ospiti e amici: e infatti si è scoperto che aveva accumulato un milione e mezzo di debiti. Ma senza arrivare a questi estremi, sarebbe comunque da chiedersi perché il Tesoro debba controllare una società di consulenza (Studiare Sviluppo, si chiama), o possedere ancora il 90% di Eur spa, immobiliare che ha raccolto l’eredità dell’ente che doveva organizzare l’Esposizione universale del 1942 a Roma. Che ovviamente non si tenne mai, causa seconda guerra mondiale. Proprio qui sta il punto: le Regioni e gli enti locali hanno utilizzato le società partecipate spesso per aggirare le norme statali, come il blocco delle assunzioni, alimentare il consenso o pagare dazi politici. E per lo Stato centrale intervenire su certe situazioni può rivelarsi complicato. Soprattutto quando c’è di mezzo l’autonomia. Dice tutto la vicenda della Sicilia, che fra tutte le Regioni italiane ha il record delle partecipazioni. Le società regionali hanno 7.300 dipendenti e sono costate per il solo personale, nei quattro anni dal 2009 al 2012, un miliardo e 89 milioni. Più 87 milioni per retribuire, nello stesso periodo, una pletora di amministratori: con una spesa media annua, per ogni società, di 768 mila euro. Per non parlare del miliardo e 91 milioni sborsato per farle funzionare, e dei 75 milioni di perdite nei conti economici. Perdite «costanti e rilevanti», affermano i giudici contabili, evidenziate «per tutte le società a capitale interamente pubblico» della Regione. E non succede soltanto in Sicilia se risulta in perdita, secondo Nottola, addirittura un terzo delle imprese controllate dagli Enti locali. Allucinante. Al punto da far sorgere un sospetto. Cioè che sia la loro missione: perdere soldi.