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Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

Privatizzare subito – Editoriale di Carlo Lottieri

di Carlo Lottieri

Da più di vent’anni in Italia è ripetutamente richiamata l’esigenza di operare programmi di privatizzazione, che sottraggano allo Stato il controllo di ampi settori economici e li affidino a soggetti privati. Molte dismissioni hanno pure avuto luogo, anche se tanto resta da fare, ma non sempre è chiaro il vero motivo che deve portare lo Stato a mollare la presa su tante aziende. Questa mancanza di chiarezza nelle idee è premessa a privatizzazioni che, in troppi casi, si rivelano deludenti. Ora potrebbe aprirsi una nuova stagione, simile a quella dei governi dei primi anni Novanta, ma le conseguenze di eventuali cessioni saranno molto diverse sulla base delle ragioni che inducono a privatizzare.
Fino ad ora, infatti, troppe volte la ragione che ha indotto questo o quell’amministratore a privatizzare è stata la semplice esigenza di reperire risorse. Il tal comune mette in vendita alcune farmacie solo allo scopo di avere soldi da destinare alla costruzione di impianti sportivi o biblioteche. A ben guardare, questa non è una privatizzazione, ma una semplice riallocazione delle risorse a disposizione: come quando si cede un immobile per averne un altro. Perfino se il senso primario della privatizzazione fosse quello di reperire capitali da destinare alla copertura del debito (cosa di cui c’è sicuramente bisogno), perfino in quel caso se ci si limitasse a ciò ancora una volta si mancherebbe il bersaglio.
È anche opinabile la tesi di chi sostiene che si deve privatizzare per rendere più efficiente il sistema nel suo complesso. È vero che le imprese private sono mediamente molto più dinamiche, innovative e capaci di soddisfare il pubblico di quanto non siano quelle in mano allo Stato. Ma anche l’argomento dell’efficienza è inadeguato o, meglio, incompleto. Se da un lato privatizzando è possibile ridurre il debito pubblico e favorire lo sviluppo di un’economia più efficiente, dall’altro va ricordato che l’obiettivo fondamentale delle privatizzazioni deve essere quello di allargare gli spazi di libertà. In questo senso ogni privatizzazione è un’amputazione del potere detenuto dall’apparato politico e burocratico. Ed è esattamente per tale motivo che ogni dismissione va accompagnata da una liberalizzazione del settore interessato.
In questo senso sarebbe certamente riformatore quel governo che mettesse sul mercato fino all’ultima azione di Trenitalia e che destinasse gli introiti a ridurre la montagna del debito di Stato. Sarebbe poi facile, in un arco di tempo ragionevole, constatare come la nuova azienda ferroviaria si orienti presto a mutare il proprio stile ed assumere comportamenti più orientati a tagliare i costi inutili, migliorare l’offerta, soddisfare la clientela. Ma i veri risultati arriverebbero solo grazie a un’apertura di mercato che possa vedere più aziende operare in concorrenza tra loro. Il significato più liberale delle privatizzazioni sta dunque nel ridimensionamento del potere pubblico ed è anche per questa ragione che ogni dismissione non è veramente tale se il settore non è aperto alla concorrenza di mercato.
La scelta di trasferire beni e imprese dalle mani di politici e burocrati a quelle di proprietari e imprenditori produce benefici di vario tipo: e certo può aiutare a ridimensionare il debito e migliorare l’efficienza. Ma gli effetti maggiori si hanno quando il cambio di titolarità (dallo Stato ai privati) serve a creare spazi di libertà e a superare situazioni di monopolio legale e privilegio.
Gli effetti economici delle privatizzazioni sono evidenti, ma il punto cruciale è un altro. Nel suo significato più autentico le dismissioni puntano a ricostruire un ordine di diritto e quindi di libertà, anche nella persuasione che solo entro istituzioni legittime e al servizio della società un’economia può crescere in maniera durevole.
L’urgenza di ridefinire il servizio universale

L’urgenza di ridefinire il servizio universale

Alessandro De Nicola – Affari & Finanza

Grande anno il 2015 per le Poste Italiane. L’amministratore delegato Caio ha appena iniziato un tour del Belpaese per spiegarne il piano industriale e la quotazione in borsa della società non dovrebbe farsi attendere troppo. Nelle interviste che il capoazienda sta rilasciando per spiegare il futuro di Poste, egli si pone in termini problematici la questione di come si debba intendere l’obbligo (remunerato) di servizio universale assunto dalla sua impresa in un mondo in cui c’è sempre meno corrispondenza. Posto che non si vuole negare alla vecchina che abita nello sperduto paesello di montagna il diritto a ricevere la cartolina del nipotino in vacanza, si pongono comunque alcuni interrogativi. Sicurezza della consegna o velocità? Che remunerazione del servizio? Per aiutare gli spunti di riflessione, capita a proposito la pubblicazione di un paper dell’Istituto Bruno Leoni, scritto da Giacomo Lev Mannheimer, che cerca di fare il punto della situazione su un piccolo ma non irrilevante monopolio di cui gode Poste Italiane, la notifica degli atti giudiziari.

Il processo di liberalizzazione dell’attività di consegna della posta é cominciato negli anni ’90 ed è ininterrottamente proseguito nel quindicennio successivo. Attualmente le riserve a favore di Poste Italiane non sono molte, in particolare le notificazioni a mezzo posta degli atti giudiziari e degli atti relativi a violazioni del Codice della strada. Entrambe le attività rientrano in quello che viene chiamato “servizio universale riservato”. Quando il dipendente di Poste consegna un atto giudiziario assume la qualifica di “pubblico ufficiale” ma, se ad essere notificato è un ricorso tributario, questo può essere tranquillamente portato a destinazione anche da un operatore privato. Inoltre molte pubbliche amministrazioni che spediscono atti di altra natura – principalmente Comuni e tribunali – già si affidano a società private che hanno scelto attraverso una procedura competitiva.

Già tale bizzarra differenziazione dovrebbe farci chiedere quale sia la differenza tra documenti comunali, atti giudiziari di stampo tributario e gli atti di altri giudizi così rilevante da giustificare un diverso trattamento. Ed in effetti, l’Autorità delle Comunicazioni (AGCOM) ha stabilito nel 2012 che non c’erano ragioni logiche per considerare la consegna di atti giudiziari come un servizio universale né tantomeno da offrire in regime di esclusiva. Secondo l’AGCOM, il regime di monopolio ha la conseguenza di mantenere i prezzi alti rispetto a quelli che scaturirebbero dal gioco delle forze di mercato (concetto in linea con la teoria economica generalmente accettata) e, vista anche l’esistenza di alternative come i messi giudiziari e la PEC, non si capisce perché bisognerebbe precludere ad imprese private, debitamente autorizzate, di operare anche nelle notifiche giudiziarie.

Il servizio universale, peraltro, anche secondo la normativa europea, tendenzialmente é un obbligo che può generare perdite e quindi può essere finanziato dallo Stato. Tuttavia esso va attribuito con procedure di appalto pubblico a chi é in grado di svolgerlo meglio: insomma, l’esatto contrario di quello che succede per le spedizioni di multe e atti giudiziari, assegnati senza gara alle Poste, pur essendo una prestazione che potrebbe essere svolta da concorrenti e per di più profittevole. Insomma, se, come si dice, il disegno di legge sulla concorrenza che il governo dovrebbe presentare nel prossimo futuro contenesse anche l’abolizione di questa riserva, si metterebbe fine ad una situazione che ormai non è più giustificata. Peraltro, l’esempio degli atti giudiziari e delle multe stradali dovrebbe indurre ad una riflessione più ampia, sia sui limiti del servizio universale sia sulle società designate al suo svolgimento.

Ad esempio se pensiamo alla RAI, siamo certi che il servizio pubblico per il quale essa è remunerata con i soldi del contribuente non sia definito in maniera troppo ampia e comunque non potrebbe essere svolto anche dai suoi attuali concorrenti? Nelle telecomunicazioni, poi, il servizio universale, che in teoria l’AGCOM dovrebbe assegnare attraverso una procedura “efficace, obbiettiva, trasparente e non discriminatoria in cui nessuna impresa è esclusa a priori”, è da sempre aggiudicato solo da Telecom Italia addirittura per disposizione di legge (art. 58 del Codice delle Comunicazioni elettroniche), la qual cosa potrebbe essere persino dannosa per quest’ultima società. La stessa abnorme estensione del “mercato tutelato” nel settore elettrico, a scapito di quello libero, esprime una concezione per la quale essendo l’energia un bene primario bisogna rendere la sua fruizione “universale”, proteggendo fasce amplissime di consumatori.

Possiamo fermarci qui: quello di cui ci sarebbe bisogno sarebbe una valutazione complessiva delle genuine necessità imprescindibili dei cittadini, meritevoli di rientrare sotto la denominazione di “servizio universale”, nonché di una liberalizzazione vera dei criteri di scelta degli operatori che tale servizio svolgono e della loro remunerazione. Senza nulla togliere all’Italicum, certamente i cittadini avrebbero più immediato e concreto beneficio da maggiore concorrenza che dal premio elettorale di lista.

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

La stangata delle Poste in vista della privatizzazione

Aldo Fontanarosa – La Repubblica

Su prezzi e tariffe, le intenzioni di Poste Spa sono bellicose. Nei documenti spediti al governo in vista della privatizzazione, che dovrebbe avvenire nel 2015, la società di Francesco Caio delinea una manovra tariffaria dolorosa per le famiglie. Torna intanto la lettera ordinaria che – nei piani di Poste – dovrebbe costare un euro. Arriveranno per davvero le lettere ordinarie? Poste si impegna a consegnare il 90% di queste missive low cost entro massimo 4 giorni dalla spedizione.

C’è poi la lettera prioritaria. Oggi la prioritaria deve arrivare entro un giorno e costa 80 centesimi. Questa è la tariffa base per gli invii fino a 20 grammi di peso. Nei progetti di Poste, la Nuova Prioritaria ci farà spendere 3 euro. Da 80 centesimi a 3 euro: un bel salto in avanti. Colpisce che le Poste vorrebbero farci pagare di più per un servizio peggiore. Nel senso che la vecchia prioritaria giunge a destinazione in una giornata nell’89% dei casi, mentre la Nuova arriverebbe puntuale solo nell’80% degli invii. L’obiettivo di qualità si abbasserebbe.

Eccoci alla famosa raccomandata. Oggi la tariffa base è di 4 euro (sempre che la nostra busta pesi massimo 20 grammi). Nel nuovo schema, la raccomandata salirebbe sia pure di poco a 4 euro e 25 centesimi. Anche qui, però, lo standard qualitativo si abbasserebbe. La vecchia raccomandata – che è tracciata e ci dà la garanzia legale dell’invio – arriva a casa del destinatario in 3 giorni (questo nel 92,5% dei casi). La nuova raccomandata verrebbe consegnata in 4 giorni e solo nel 90% dei casi. Stesso schema: paghi di più per stare peggio.

Sempre più spesso gli italiani evitano la fila all’Ufficio postale e utilizzano il computer. Scrivono la lettera al pc e – grazie al sito delle Poste – la inviano. Le Poste stampano la lettera e la portano a destinazione nella versione fisica, materiale. Anche qui la società di Caio progetta degli aumenti. La ordinaria che nasce online – un’altra novità – costerebbe 70 centesimi. La prioritaria online invece 1,8 euro (contro i 70 cent di oggi). Nessuna variazione per la particolare raccomandata che nasce online, confermata a quota 3,3 euro.

Queste sono, dunque, le intenzioni delle Poste. Che però devono superare l’esame dell’Autorità per le Comunicazioni. Come già nel 2013, spetta all’AgCom approvare la manovra di Poste. Due anni fa, l’Autorità diede semaforo verde con la sua delibera numero 728. E gli aumenti delle tariffe scattarono dal primo dicembre del 2014. Se autorizzati anche solo in parte, i ritocchi daranno una spinta alla privatizzazione di cui hanno discusso ieri – al ministero dell’Economia – l’ad di Poste Francesco Caio, il capo del Dipartimento del Tesoro Vincenzo La Via e il capo della Segreteria Tecnica del ministro Fabrizio Pagani, oltre ai consulenti (advisor) di ministero e società.

Partecipate riluttanti

Partecipate riluttanti

Il Foglio

Il governo sta trovando qualche difficoltà tenere nei ranghi le società a controllo statale riluttanti a seguire gli ordini dell’azionista pubblico, ordini già inseriti negli impegni votati dal parlamento e inviati in Europa. Il caso di Poste lo testimonia. Il nuovo capo azienda, Francesco Caio, nominato dal governo Renzi a maggio, ha invertito i piani predisposti dal predecessore Massimo Sarmi (e benedetti dall’esecutivo Letta). La privatizzazione di Poste tramite quotazione parziale, programmata per fine anno, è da ridiscutere nei tempi e nelle modalità anche per oggettive difficoltà tecniche di un collocamento in Borsa frettoloso. Il ruolo di facilitatore passivo dell’operazione Alitalia-Etihad – di cui il cda di Poste condivide «la logica industriale e di mercato» – sta poi stretto a Caio, che non vuole accollarsi solo gli oneri con il trasferimento di capitale nella sola bad company ma intenderebbe investire nella nuova costituenda compagnia con gli emiratini e i soci italiani. Eventualità che ha irritato le banche creditrici e spiazzato l’esecutivo alla vigilia della risposta alle richieste di chiarimenti della Commissione Ue, sollecitata da Air France-Klm e Lufthansa in conseguenza dell’intervento di Poste nella ricapitalizzazione di Alitalia di fine 2013 in quanto costituirebbe, dicono i critici, aiuti di Stato.

Se le Poste ostentano una logica finanziaria e di discontinuità, alla Rai invece nulla cambia rispetto a qualsiasi novità, risparmio, minima privatizzazione. La cessione di rai Way, la società che gestisce gli impianti di trasmissione, è persa nelle nebbie mentre il piano di accorpamento tra Tg3 e RaiNews24 “spaventa” l’Usigrai, il sindacato interno. Che chiede se «si voglia chiudere il Tg3»: la stessa ipotesi, ma di fusione con il Tg2, non aveva invece sollevato problemi. Siamo sempre lì: un’azienda ferma e un sindacato imbizzarrito che non pagano dazio alla crisi (quella «preoccupante» di un’editoria non ingessata, Napolitano dixit) e non per merito ma ritenendosi immuni e diversi. Il governo non deve concedere altre deroghe se vuole essere preso sul serio in Italia, all’estero e sul mercato.