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Le conseguenze economiche della Brexit

Le conseguenze economiche della Brexit

Il negoziato per la Brexit è solo ai prolegomeni ma già le polemiche infuriano. Più sotto il profilo politiche che sotto quello economico. A metà aprile, sono state esaminate in un convegno alla State University (SUNY) of New York a Buffalo. Del convegno si stanno mettendo on line i paper. Particolarmente, interessante il lavoro introduttivo di Winston W. Chang, intitolato per l’appunto Brexit and its Economic Consequences.

Il procedimento formale della Brexit è già iniziato – afferma lo studio – ma c’è molta incertezza sugli impatti della uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (UE) in termini del futuro economico, politico e sociale del Paese. Il lavoro tratta degli impatti economici. Dopo un breve sunto delle caratteristiche dei trattati europei come materiale sulla cui base esaminare gli argomenti principali dei due campi, il leave ed il remain, lo studio pone l’accento sul fatto che in ultima istanza gli esiti dipendono dalle specifiche delle conclusioni del risultato. Ogni divorzio comunque costa.

I principali argomenti sul tavolo della trattativa riguardano il commercio di beni e servizi, l’agricoltura e la pesca, la regolamentazione finanziaria e l’immigrazione. Il paper delinea differenti scenari di nuovi possibili regimi commerciali, ciascuno dei quali avrebbe diversi impatti sull’economia britannica. Dato che ciascuna delle due parti ha le proprie carte da giocare, il lavoro esamina le varie strategie possibili di Gran Bretagna ed UE. Chang utilizza la teoria dei giochi ed esamina uno cooperativo che tenga conto anche di altri aspetti come la sicurezza reciproca, la difesa, l’ambiente e i guadagni e le perdite potenziali in caso la Gran Bretagna stipuli altri accordi commerciali con Stati che non fanno parte dell’UE.

Occorre aggiungere al paper che tanto la posizione della Gran Bretagna quanto quella dell’Unione europea nell’ambito dell’Omc sono quanto meno anomale e ambigue. La Commissione europea ha in base al Trattato di Roma, le cui ambizioni si limitavano alla creazione di un mercato comune, il compito di negoziare i trattati commerciali internazionali dato che all’epoca per l’Europa dei Sei tali trattati riguardavano essenzialmente la tariffa doganale comune, e i pertinenti contingenti nonché la politica agricola comune (le cui linee principali vennero definite nel 1963). In effetti, si tratta di un espediente per facilitare il lavoro commerciale internazionale. Non è un compito, però, che la Commissione europea (Ce) possa esercitare in autonomia ma solo sulla base di direttive specifiche degli Stati membri (oggi ancora 28, se si considera anche la Gran Bretagna). La Ce ha però sempre esercitato questo diritto come grimaldello per essere considerata come uno Stato (o un super Stato) al pari degli altri Stati membri dell’Omc. Tale privilegio le è stato sinora negato: è ultimo firmatario del Trattato istitutivo dell’Omc, non ha diritto di voto, non paga i contributi all’organizzazione.

Ci sono già frizioni tra la Ce (che il 3 maggio ha chiesto formalmente al Consiglio europeo  dell’Ue l’autorizzazione a negoziare in nome e per conto dell’intera Unione) e gli Stati membri dell’Ue, su come condurre la trattativa, ad esempio sulla lingua. Da quando la Gran Bretagna è entrata nell’Ue nel 1973, l’inglese ha di fatto soppiantato il francese come lingua di lavoro dell’eurocrazia e anche dei negoziati commerciali. Nelle trattativa intra-Ue i diplomatici britannici si sono dimostrati abilissimi e molto preparati. Per quanto riguarda la Brexit, il capo negoziatore è Michel Barnier che agirà per conto e sotto il controllo dei 27 Paesi che restano e che hanno approvato il mandato di negoziato. Barnier non fa parte della Ce: è stato personalmente designato da Juncker con il consenso dei 27 ma si avvarrà dell’indispensabile sostegno tecnico dei servizi della Ce. È solo un caso che l’attuale presidente della Ce non sia inglese: se lo fosse, il corto circuito Ue-Brexit sarebbe stato visibile anche per i non addetti ai lavori.

Brexit, Londra e un paio di confronti fra Italia e Gran Bretagna

Brexit, Londra e un paio di confronti fra Italia e Gran Bretagna

di Massimo Blasoni – Formiche

Non è possibile sapere con esattezza in quale stato verserà l’economia britannica una volta che la Brexit avrà dispiegato nel tempo tutti i suoi effetti. A nove mesi dal referendum popolare che ha sancito la vittoria del Leave e mentre ormai il Governo May sta ultimando gli ultimi passaggi propedeutici all’uscita dall’Unione europea, si può però affermare che non si sono avverate le catastrofiche previsioni formulate dalla Bank of England e da numerosi analisti. I loro allarmismi, che già a suo tempo non avevano convinto gli elettori britannici, non sembrano nemmeno aver suscitato quei sentimenti di paura e incertezza che, come sappiamo, molto spesso condizionano in maniera rilevante i trend economici.

In questo contesto sembra utile attuare un confronto tra le performance più recenti del Regno Unito e quelle dell’Italia, se non altro per renderci conto di quanto la nostra situazione sia decisamente più critica. Nel quarto trimestre del 2016 il Pil del Regno Unito è cresciuto del 2%, il nostro appena dell’1,1%. La nostra crescita annua è stata dell’1% mentre in Gran Bretagna ha registrato un +2% (la più consistente tra tutti i Paesi del G7). Oltremanica la disoccupazione rimane inferiore al 4,8% mentre da noi è all’11,9% (con quella giovanile addirittura al 37,9%).

E se in questo match Italia–Inghilterra recuperiamo quanto a vendite al dettaglio – posto che negli ultimi tre mesi abbiamo registrato incrementi superiori a quelli britannici – rischiamo una penosa debacle quanto a tassazione sull’impresa. Va riconosciuto ai governi inglesi di aver perseguito una rilevante politica di sostegno alle loro imprese. La tassazione nel Regno Unito è stata progressivamente ridotta sino a giungere al 20%. Un peso decisamente inferiore a quello italiano. Se il confronto avviene poi sul total tax rate, cioè tenendo conto anche del peso dei contributi previdenziali, la forbice si allarga: 30,9% nel regno di Sua Maestà contro il nostro 62%.

Resta infine un dato oltremodo significativo: a leggere i giornali sembrerebbe che banche di investimento e multinazionali siano sul punto di traslocare dalla City, eppure dall’inizio dell’anno la Borsa di Londra ha registrato un +3,01%, quella di Milano invece un ben più modesto +1,57%. È la prova che nonostante l’imminente Brexit i mercati continuano a ritenere affidabile l’impegno del governo May per la tenuta di un ambiente favorevole agli investimenti e alla localizzazione delle multinazionali. Possiamo dire lo stesso del governo Gentiloni?

Un’Europa liberale è possibile

Un’Europa liberale è possibile

Questa settimana consiglio la lettura di un libro di Roberto Caporale (con un’introduzione di Paolo Savona): Exeunt: La Brexit e la Fine dell’Europa (Rubettino, pagg. 170, € 13). L’autore è stato ed è un manager di imprese sia a partecipazione statale sia privata. La sua attività gli consente di vedere i problemi dell’Europa con occhi più pratici e più prammatici di quelli abituali nelle aule universitarie.

Il titolo del volume può trarre in inganno. Alla Brexit in quanto tale sono dedicati tre dei cinque capitoli del volume e se ne sviscerano i complessi aspetti giuridici ed economici (senza però entrare in scenari basati su simulazioni econometriche sugli effetti quantificabili dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, UE). È quello che nel lessico accademico anglosassone potrebbe essere chiamato un event study con accento sulle policies e sugli aspetti istituzionali. Il punto centrale non è la fine dell’Europa ma come si può partire per costruire una nuova Europa più snella, più efficace, più dinamica e più equa. Nella quale, soprattutto, ciascuno sia e si senta più libero.

Per molti aspetti quest’opera ricorda Europe Simple Europe Strong di Frank Vibert, della London School of Economics (nonché allora Presidente dell’European Policy Forum). Un testo, pubblicato una quindicina di anni or sono, fondamentale nella letteratura europea ma che non ha trovato un editore disposto a tradurlo in italiano. I che la dice lunga su un’Italia essenzialmente statalista e corporativa.

Nel capitolo del saggio di Roberto Caporale sulla politica dell’armonizzazione in sede UE si afferma che questa ha prodotto «un’incredibile massa di norme europee cui debbono soggiacere produttori e consumatori continentali. […] Esiste da tempo quello che potremmo definire un nuovo genere letterario che descrive la tragica comicità di molti esempi di normativa europea e ne misura chilometricamente l’intrusività.»

La seconda parte del saggio traccia le prospettive che l’UE avrebbe dovuto apprendere dalla Brexit: «Un modello d’Europa desacralizzato ma non per ma non per questo meno “unito” in cui la sovrapposizione di aree di azione collettiva realizza un impianto adattivo con istituzioni forti nel loro ruolo primario di assicurare il rispetto dei principi e delle norme che realizzano uno spazio di mercato libero e aperto.»

Economia e democrazia nell’Unione europea

Economia e democrazia nell’Unione europea

di Giuseppe Pennisi

Per i prossimi tre anni, il tema principale di discussione, e di negoziati, in Europa sarà l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. L’argomento ha un suo sottostante importante: cosa intende l’Ue per democrazia, e per gioco politico democratico. È un argomento che merita di essere scandagliato non solo da politologi, ma anche da economisti poiché è ormai dimostrato – si legga o rilegga l’ultimo libro di Luciano Pellicani, “L’Occidente e i suoi nemici” (Rubbettino, 2016) – che la democrazia è elemento fondante della crescita. L’arresto dello sviluppo in gran parte degli Stati dell’Ue, ormai in corso da circa dieci anni, deve attribuirsi, in buona parte, a quel deficit di democrazia che ha portato la maggioranza dei cittadini del Regno Unito alla Brexit (pur nella consapevolezza dei suoi elevati costi economici) e che serpeggia tra i cavalli di battaglia di numerosi movimenti politici e sociali chiamati anti-sistema e fortemente critici dell’Ue.

Formalmente l’Ue si regge su istituzioni democratiche. Il Parlamento europeo (Pe) è eletto direttamente dal popolo sovrano – con un tasso di partecipazione leggermente superiore al 50% (in linea con quello della media dei Paesi avanzati a economia di mercato) – e i suoi 751 seggi sono ripartiti tra i 28 Stati membri secondo quote definite in trattati ratificati dai Parlamenti nazionali. Il Pe approva la normativa (regolamenti, direttive) secondo una procedura che richiede la partecipazionedei Consigli dei ministri (non eletti direttamente, ma rappresentanti di governi democraticamente eletti).

Il perno della costruzione è la Commissione europea e gli altri funzionari che la compongono, indicati o nominati dai governi, ma che necessitano di ottenere la fiducia del Pe. Sono, in gran misura, ex politici o tecnici, ottimati, convinti di avere la missione, loro assegnata dal Trattato di Lisbona, di andare verso un’ever closer union stimolando accordi irreversibili che vanno, in modo monotematico, in quella direzione. Anzi si tengono distanti dal dibattito quotidiano di confronto politico su questo o su quel tema proprio per non essere distratti dal loro obiettivo che ha passi intermedi alti come la creazione (forse prematura) di un’unione monetaria e anche bassi (come regolamentare la curvatura delle banane e definire, ogni anno, il giorno per cominciare a imbottigliare l’olio d’oliva).

Il nodo di fondo è che in una democrazia ben funzionante non solamente non esistono ottimati, ma si è tutti coinvolti in un dibattito politico quotidiano che è spesso uno scontro, o una serie di scontri, fatti di passione, ma anche – amava ripetere un uomo politico italiano – di sangue e di sterco. È in tale confronto, non solo nel giorno delle elezioni, che i cittadini partecipano e fanno sentire i loro punti di vista, e chi fa realmente politica cerca soluzioni, spesso mediando tra interessi legittimi ma contrapposti. È questo il sale della democrazia, che gli ottimati dell’Ue, accecati dalla missione monotematica che pensano di avere, non conoscono. Sono diventati, quindi, sempre più distanti dai problemi a cui gli europei danno priorità.

Nessun europeo che abbia meno di cinquant’anni è preoccupato di eventuali nuove guerre, in mancanza di un’ever closer union, tra Francia e Germania per il controllo della Ruhr. I cittadini europei sono angosciati, invece, da problemi che gli ottimati (retribuiti, ai gradi alti, con stipendi e prebende pari al doppio del compenso del presidente degli Stati Uniti) non percepiscono: il lavoro loro e dei loro figli in un’Europa che non cresce, la sicurezza personale, l’immigrazione e via discorrendo. Temi sui quali gli ottimati organizzarono forbiti seminari e tentano di arrabattarsi, senza giungere a conclusione. Proprio perché distanti dal confronto-scontro politico quotidiano anche su temi che possono sembrare di quartiere, ma che fanno bella o brutta la vita degli europei.

Da europeo e da convinto europeista mi auguro che, di fronte alla Brexit, gli ottimati aprano gli occhi e si rendano conto che stanno marciando, come nel film di Buñuel, “Le charme discret de la bourgeoisie”, verso un suicidio politico. L’unico suicidio – diceva Winston Churchill – a cui di solito si sopravvive. Per comprenderne i danni.

Da ŒCONOMICUS dell’agosto 2016

L’ignoranza politica e la Brexit

L’ignoranza politica e la Brexit

di Pietro Masci*

Il Regno Unito con il referendum del 23 giugno ha scelto di uscire dall’Unione Europea (UE). Una scelta democratica espressa dal 52% dei votanti con una partecipazione al voto pari al 72% degli aventi diritto al voto.
Il Regno Unito era entrato nell’Unione Europea nel 1972. Nel 1975, gli inglesi indissero un referendum popolare per l’entrata nell’UE, dove il 67% fu a favore con una partecipazione al voto pari al 65%. Dopo oltre 40 anni, gli elettori inglesi hanno cambiato idea. L’instabilità è una prerogativa democratica e merita grande rispetto.
Vale la pena sottolineare che il Regno Unito, dal momento in cui saranno concluse le procedure di ritiro sarà un paese terzo all’Unione Europea.

Cerchiamo di evidenziare gli aspetti principali di questa complessa vicenda: la tradizione inglese dei rapporti con l’Europa; la diffusione nel mondo dell’ignoranza politica, vale a dire la situazione di un pubblico disinformato che costituisce il tema conduttore di questo articolo; le implicazioni per il Regno Unito, e per gli Stati Uniti; quelle per l’Europa e per l’Italia.

Sotto il profilo storico, la partecipazione inglese al progetto europeo, pur promovendo liberismo economico e riduzione del ruolo dello Stato, è stata sempre abbastanza ambigua con numerose eccezioni che hanno indebolito la coesione europea.
Un pilastro della politica estera inglese nel corso dei secoli è stato sempre quello di interessarsi principalmente delle colonie e del commercio internazionale e disinteressarsi delle vicende europee. L’attenzione inglese si è rivolta all’Europa continentale quando nel continente si è manifestata la minaccia di una potenza egemone – Spagna nel XVI secolo, la Francia di Napoleone, la Germania di Hitler- che potesse compromettere gli interessi commerciali globali del Regno Unito. Queste considerazioni storiche riecheggiano nelle affermazioni dei promotori dell’uscita dall’Unione Europea – Farage e Johnson – che sostengono che il Regno Unito ha riconquistato la propria indipendenza e il paese potrà ora esercitare il ruolo mondiale che le compete.

Per quanto riguarda il tema dell’ignoranza politica, recentemente, negli Stati Uniti, è uscito un libro – Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government Is Smarter – che puntualizza il tema dell’ignoranza politica (e direi non solo) negli Stati Uniti e che si applica analogamente ad altri paesi. L’autore – Ilya Somin – studia il collegamento tra l’ignoranza politica e l’influenza sproporzionata dei gruppi di potere, e rivela un grave pericolo per la democrazia.
A proposito di questo libro, nella sua seconda edizione (la prima edizione è stata pubblicata anche in italiano), vi sono molte considerazioni che vanno anche al di là di questo articolo. Tali considerazioni riguardano l’emergere – a livello mondiale – di una classe politica impreparata e senza etica, ideali e scrupoli, ostaggio di grandi interessi economici e finanziari che attraverso le moderne tecniche di propaganda riescono a promuovere i propri interessi. D’altra parte, l’elettorato – sopratutto quello meno sofisticato – si sente trascurato, vede minacce economiche, di sicurezza, terrorismo, immigrazione dai quali non si sente protetto da politici e non ha fiducia nei c.d. esperti visti come un’estensione dei politici spregiudicati. In tali circostanze, altri politici riescono ad interpretare le insoddisfazioni e lavorano per dar loro espressione politica, spesso con scelte politiche radicali. Trump negli Stati Uniti ne è il perfetto esempio. L’ignoranza politica nella quale prosperano politici ugualmente ignoranti e senza scrupoli andrebbe analizzata assieme ad un altro aspetto che sembra consolidarsi – quello della democrazia autoritaria,- fenomeno non limitato esclusivamente ai paesi meno avanzati.
Nel caso del referendum nel Regno Unito, l’ignoranza politica ha giocato un ruolo rilevante, considerato che i dati mostrano che le persone meno istruite hanno votato per lasciare l’Unione Europea. Nè va trascurata la circostanza che la stragrande maggioranza – il 75% – dei giovani tra i 18 e i 24 anni hanno votato a favore di rimanere nell’Unione Europea.
L’ignoranza politica ha battuto la razionalità: i vari sondaggi sul voto e le aspettative dei mercati finanziari che davano al 25% le probabilità che vincesse l’opzione dell’uscita (il giorno prima del referendum le borse erano salite di oltre l’1%). L’uccisione della parlamentare Cox da parte di un esaltato nazionalista non sembra aver avuto alcun impatto sul voto a favore dell’Unione Europea. Quanto ai principali esponenti politici coinvolti nel voto inglese, non mi sembra intravedere un elevato livello di preparazione civica, etica e politica, ma diffusa mediocrità dei personaggi politici protagonisti. Da una parte, Cameron ha fatto errori di calcolo giganteschi. Non solo -come peraltro prevedibile- ha posto in secondo piano gli interessi europei a quelli del suo partito, ma sopratutto non ha compreso l’atteggiamento preoccupato dell’elettorato inglese più fragile, delle paure della classe media che hanno reso possibile la vittoria dell’uscita dall’Unione Europea. Inoltre, Cameron ha invitato il Presidente Obama a parlare a favore del voto per rimanere in Europa e il risultato – come non era tanto difficile prevedere- è stato quello di accentuare l’opposizione del pubblico verso l’Unione Europea. Il leader laburista Corbyn – che in un’alleanza spuria con Cameron avrebbe dovuto presentare un caso cogente per rimanere in Europa ed era ragionevole attendersi che avrebbe portato passione ed entusiasmo – ha brillato per la sua assenza, come se il tema non fosse rilevante per lui e per il suo partito. Il parlamentare Chuka Umunna ha criticato la leadership del signor Corbyn durante la campagna referendaria, dicendo che: “Il nostro attaccante principale, spesso non era in campo, e quando c’era, non è riuscito a mettere la palla in rete.” Una campagna a favore dell’Unione Europea surreale.
Dall’altra parte, Farage e Johnson – i vincitori – hanno basato la campagna su generalizzazioni e imprecisioni, ancorchè presentate sotto il profilo – corretto – della mancanza di partecipazione democratica nel sistema dell’Unione Europea

Quanto alle implicazioni dell’uscita, per il Regno Unito, sotto il profilo economico, perlomeno nel breve termine, gli inglesi dovranno fare i conti con instabilità e incertezza politica (non si sa chi potrebbe essere il leader del Partito Conservatore; se si dovrà andare a nuove elezioni; mentre il Partito Laburista ha di fatto perso il referendum e dubita sulle capacità del suo capo Corbyn) ed economica. Non è da escludere che l’elettorato inglese si renderà conto che il voto non costituisce la ricetta magica che cambia la situazione dalla notte al mattino. Esistono, e sono state presentate al pubblico inglese prima del voto per l’uscita dall’Europa, varie stime di declino del Prodotto Interno Lordo, aumento dei costi per ricorsi a prestiti e possibili misure di austerità. È recentissima la dichiarazione di Standards and Poors che dopo il voto per l’uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito perderà il rating AAA; e quella dell’agenzia Moody che ha abbassato il rating obbligazionario del governo inglese da stabile a negativo alla luce dell’incertezza che esiste in merito agli accordi commerciali che determineranno lo status del Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea.

Viene da domandarsi come potrà la parte più debole dell’elettorato inglese che ha votato per l’uscita -vale a dire persone più anziane, pensionati, lavoratori colletti blu che soffrono la globalizzazione e anche l’immigrazione – far fronte ad una caduta dell’attività economica. C’è da sperare che i fautori dell’uscita abbiano un progetto e un piano al riguardo che non sia solo quello di utilizzare i contributi inglesi al bilancio comunitario, vale a dire 8 miliardi di sterline al netto dello sconto che viene praticato al Regno Unito e degli acquisti dell’Unione Europea nel Regno Unito (Carl Emmerson, Paul Johnson, Ian Mitchell, David Phillips. Brexit and the UK’s Public Finances. IFS Report 116, May 2016). Rimane poi il dubbio che il gruppo maggioritario che ha portato alla vittoria l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costituisca una solida e dinamica forza sociale capace di gestire una transizione che rischia di essere costosa e anche lunga.
Sotto il profilo politico–internazionale, le possibili implicazioni a breve, medio termine e lungo termine, per il Regno Unito, comprendono:
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, o quantomeno una posizione per l’accesso al mercato commune dell’Unione Europea?;Questo punto appare il più importante, considerati gli interessi commerciali inglesi. Al momento si possono intravedere tre possibilità:
– Che il Regno Unito ottenga una posizione speciale analoga a quella della Norvegia- un paese non membro dell’Unione Europea- che ha accesso al mercato comune sottoponendosi alle regolamentazioni dell’Unione Europea e al pagamento di contributi, vale a dire proprio i punti sul quale si è giocato il referendum per l’uscita.
– Che il Regno Unito ottenga un trattamento di accesso al mercato unico limitato, del tipo di quello del Canada.Questo costituirebbe una soluzione possibile, ma da negoziare.
– Che il Regno Unito venga trattato alla stregua dei paesi terzi (ad esempio Russia, Cina, Brasile) e per l’accesso al mercato valgano le regole del World Trade Organization (WTO).
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti?;
• Londra rimarrà un centro finanziario mondiale?
• Altre parti del Regno Unito che hanno votato per restare in Europa- la Scozia e l’Irlanda del Nord- – accetteranno di rimanere parte del Regno Unito, o chiederanno l’indipendenza?
• Quanto a lungo il Regno Unito riuscirà a mantenere il rango di quinta potenza economica mondiale?;
• Chi sosterrà ancora la logica che il Regno Unito sia membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?.
Nè va sottovaluta la circostanza che anche la “Nuova Argentina” di Macri possa continuare a rivendicare le Malvine in un contesto internazionale più favorevole e con un Regno Unito più debole date le incertezze della guida politica.
Inoltre, la Spagna, potrebbe intraprendere con maggiore determinazione l’azione “para retomar el penon de Gibraltar”.
Peraltro, non è da escludere che le azioni contro la “perfida Albione” trovino simpatia e sostegno.

L’esito del referendum lascia il Regno Unito profondamente diviso, senza guida politica, con grandi rischi economici e finanziari, e addirittura ripensamenti (si stanno raccogliendo le firme per un secondo referendum). Insomma, una situazione complessiva d’incertezza che l’ignoranza politica di elettori e politici ha generato.

Per quanto riguarda le implicazioni per gli Stati Uniti, è presumibile che il Regno Unito punterà a rafforzare ulteriormente i legami oltre-Oceano. Sotto il profilo economico, specialmente nel breve periodo, l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non dovrebbe essere significativo per gli Stati Uniti, salvo comportare un apprezzamento del dollaro con effetti non desiderati sulla caduta delle esportazioni ed aumento delle importazioni americane, turbulenze sui mercati finanziari; ritardo dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Per il momento non si ritiene che l’uscita del Regno Unito possa determinare una nuova recessione economica. Si ritiene, tuttavia, che l’impatto dell’uscita del Regno Unito sarà distribuito nel tempo. Sotto il profilo politico, negli Stati Uniti prevale l’impostazione che la relazione speciale tra Stati Uniti e Regno Unito continuerà; che la NATO e l’Europa costituiscono alleati indispensabili. C’è da domandarsi come il Regno Unito – fuori dell’Unione Europea – possa costituire un alleato effettivo sul quale gli Stati Uniti possono fare leva nei riguardi degli Europei continentali (si pensi al tema dei rapporti con la Russia). Pertanto, non è da escludere che una relazione più diretta tra Stati Uniti e Unione Europea – e sopratutto la Germania- venga consolidata. Quanto ai candidati presidenziali americani, Trump celebra il voto degli inglesi per uscire dall’Unione Europea e fa il parallelo con la ribellione contro il sistema che si sta registrando negli Stati Uniti. Clinton, più cautamente, è preoccupata per il clima d’incertezza e critica aspramente l’irresponsabilità di Trump.

Quanto agli scenari per l’Unione Europea, dopo il bagno di sangue finanziario dei prossimi giorni derivante dall’incertezza, ritengo che le prospettive nell’Unione Europea potranno migliorare perchè rimangono nell’Unione coloro che ci credono e desiderano restare. Non sono troppo convinto della fuga di catalani, polacchi, francesi, austriaci e vari altri, perchè i danni – compresa la diffusa incertezza- che il Regno Unito dovrà sostenere saranno significativi e visibili e faranno riflettere seriamente coloro che desiderano uscire dall’Unione Europea, L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farà perdere una spinta significativa verso una maggiore iniziativa individuale e il ruolo dei mercati. Tuttavia, faciliterà la coesione tra i paesi membri – come ad esempio nel campo del coordinamento delle politiche fiscali che il Regno Unito ha sempre osteggiato.
Il referendum inglese ha ricordato le carenze del progetto europeo, soprattutto la limitata democrazia e l’eccesivo intervento dello Stato. Questo è un momento fondamentale per i politici. Appare cruciale che i politici autentici – non quelli che guardano a vantaggi di breve termine- e i leali servitori dello Stato (come il nostro Draghi che sembra destinato a doversi occupare di problemi di colossali dimensioni) – sappiano afferrare le opportunità che l’uscita del Regno Unito presenta; siano in grado di riformare l’Unione Europea in senso più democratico e meno burocratico con una classe dirigenziale e amministrativa e dei c.d. esperti indipendente; siano in grado di ritrovare lo spirito dei Trattati di Roma del 1957, e rigenerare l’Unione Europea mantenendo le diversità che il Vecchio Continente presenta.
I leaders europei che possono far riprendere il cammino dell’Unione Europea sono vari, ma un ruolo primario lo dovrà svolgere la signora Angela Merkel – che peraltro ha già dichiarato che l’uscita del Regno Unito non significa disgregazione e che l’Unione Europea saprà trovare le risposte giuste. D’altro canto, i Presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, hanno dichiarato che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna equivale a “inutilmente prolungare incertezza”.
Mi pare fondamentale che i paesi dell’Unione Europea dimostrino coesione nel come procedere nei negoziati per l’uscita del Regno Unito ed i suoi tempi per ridurre l’incertezza; e nel determinare l’essenziale aspetto dello status futuro del Regno Unito. Chiarezza e determinazione appaiono fondamentali per eliminare le fragilità che possono derivare dal voto inglese ed i tentativi d’imitazione e sconfiggere le predizioni di un effetto domino. Infatti, al di là delle divisioni all’interno del paese, le tradizioni storiche del Regno Unito non possono non suscitare l’idea che l’obiettivo inglese rimane quello di eliminare l’Unione Europea e tornare agli stati-nazione in modo tale da non pagare nessuna conseguenza, sopratutto sotto il profilo economico, finanziario, commerciale e politico dell’uscita dall’Unione Europea.

Per l’Italia – purtroppo in una situazione di fragilità e incertezza – si apre una grande opportunità – di essere – a fianco di Germania e Francia – uno dei pilastri di una “rigenerata Europa”. È sperabile che i politici italiani non riescano nella difficile impresa di essere emarginati e comprendano la lezione che la risposta al referendum inglese è: più democrazia, meno Stato, più politici preparati, responsabili e con valori etici e più indipendenza della classe dirigente. Questa sembra la ricetta per combattere l’ignoranza politica e costruire uno stabile e duraturo sistema democratico europeo.

 

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma