pietro masci

Il mandato di Donald Trump

Il mandato di Donald Trump

di Pietro Masci

Dopo oltre 15 giorni dal voto storico dell’8 novembre, le analisi del voto continuano e si accentuano previsioni e speculazioni sulla nuova amministrazione, anche in relazione alle prime scelte che Donald Trump sta effettuando. L’analisi del voto rimane centrale per capire cosa è accaduto e per orientarsi sulla futura evoluzione politica negli Stati Uniti e del Partito Democratico e di quello Repubblicano e per comprendere le sfide – ma anche le opportunità – alle quali la nuova amministrazione dovrà far fronte e in che misura il Presidente eletto ha un mandato per realizzare il suo programma.

L’insofferenza vince le elezioni

Nell’articolo scritto a ridosso dell’elezione avevo sottolineato che l’esito dell’elezione sarebbe dipeso da tre categorie di elettori: coloro che voteranno Trump senza dirlo; coloro che voteranno per Hillary Clinton controvoglia nel timore di un salto nel vuoto; coloro che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti. Tutte e tre queste tre categorie hanno contributo in modo diverso all’elezione di Trump.

Quanto alla prima categoria, durante la trasmissione maratona di CNN nella notte dell’8 novembre, mentre si osservavano i sorprendenti risultati, un commentatore, Jack Tapper, racconta che durante una sua recente visita in Pennsylvania ha intervistato un pasticciere (di origine italiana). Il pasticciere dice al commentatore: “I see a lot of leaners over here!”  Il commentatore replica stupito: “Leaners? who are the “leaners“? Il pasticciere spiega: “Leaners are those who lean towards you and whisper in your ear so other people cannot hear: I think I am going to vote for Trump this time!”. I “leaners” costituiscono la categoria che potremmo definire dei pendenti o degli esitanti. Infatti, Trump ha battuto Clinton tra i bianchi senza un titolo universitario – la c.d. white working class – di 18 punti percentuali nel New Hampshire, 21 in Colorado, 22 in Arizona, 24 in Wisconsin, 31 in Michigan, e 35 in Missouri. Il margine diventa enorme negli Stati del Sud: 34 punti percentuali in Florida, 40 in North Carolina, 64 in Georgia.

La seconda categoria – coloro che hanno sostenuto Clinton per paura del salto nel vuoto con Trump – non sembra che si sia materializzata. Addirittura, Clinton è andata male con gruppi storicamente favorevoli ai democratici: gli afro-americani non hanno sostenuto Clinton nello stesso numero che avevano appoggiato Obama nel 2008 e nel 2012; i Latinos, che rappresentano circa l’11% dell’elettorato, l’8 novembre, hanno votato per Clinton meno del previsto. Secondo gli exit polls, il Presidente eletto Trump ha ottenuto il 29 per cento dei voti dei Latinos, un dato migliore del 27% ottenuto da Mitt Romney nel 2012. Clinton ha ottenuto solo il 65% dei voti dei Latinos, meno del 71% che il Presidente Barack Obama aveva conseguito quattro anni fa. Inoltre, Clinton non è riuscita ad attrarre i giovani tra 18 e 29 anni : nel 2012 Obama aveva ottenuto il 60% del voto dei Millenials; Clinton ha ottenuto il 55% e Trump il 37%.

Relativamente alla terza categoria, coloro cioè che non hanno votato per disaffezione con il sistema politico, ha votato il 57% circa degli aventi diritto al voto. Un dato in calo rispetto al 58,6% nel 2012 e al 61,6% nel 2008 (il dato più alto degli ultimi 40 anni). Il voto anticipato è cresciuto mentre è crollato quello nel giorno dell’elezione. La partecipazione al voto si è ulteriormente ridotta come reazione a una campagna politica priva di contenuti e negativa. Peraltro, il 4% complessivo dei voti ricevuti dai candidati del Partito Libertario (Gary Johnson) e del Partito Verde (Jill Stein) si può considerare un’ulteriore prova della disaffezione verso i candidati presidenziali principali.

Si può quindi concludere che il risultato finale del voto è stato determinato in una maniera significativa dai pendenti o esitanti, dal basso numero di coloro che hanno votato per Clinton solo per paura di Trump e da coloro che non hanno votato perché indifferenti o insoddisfatti. A decidere l’elezione di Trump sono stati quindi l’insofferenza e la delusione. 

La gestione della campagna

Alcuni eventi significativi possono aver in qualche modo influenzato l’opinione pubblica. Ad esempio le interferenze del FBI che ha archiviato, poi riaperto e infine archiviato di nuovo l’inchiesta sull’utilizzo improprio della posta elettronica della Clinton. Il fattore rilevante che ha favorito la vittoria di Trump resta però la gestione della campagna elettorale. Clinton disponeva di maggiori risorse finanziarie e di un Partito Democratico completamente a sua disposizione ma Trump ha gestito in modo molto più efficace la contesa, sia pure con minori risorse e con un Partito Repubblicano dubbioso sulla sua candidatura. Clinton e la sua macchina elettorale hanno avuto l’arroganza di pretendere che gli Stati che si sono rivelati fondamentali avrebbero comunque votato democratico. Non è stato compreso che non era sufficiente spendere milioni di dollari nella pubblicità televisiva, oppure contare sull’appoggio di varie celebrità della musica e dello spettacolo (ad esempio Beyoncé, Jay Z, Madonna, Jennifer Lopez) e neppure sul sostegno esplicito del Presidente Barack Obama. Erano invece fondamentali la presenza fisica, il contatto con gente che si è sentita abbandonata. Mentre coloro che avrebbero dovuto ottenere l’attenzione diretta di Clinton vedevano la ex-first lady in televisione (magari vicina a qualche celebrità), i sostenitori di Trump affollavano i roboanti, appassionati raduni del candidato repubblicano. 

Alla Clinton sono venuti meno gli Stati della c.d. Rust Belt – la Cintura della Ruggine – anche perché l’organizzazione della sua campagna li ha considerati scontati, e invece nel giorno dell’elezione i sostenitori “garantiti” sono rimasti a casa. Gli esempi più rilevanti si possono verificare in tre Stati (Wisconsin, Michigan e Pennsylvania) tradizionalmente democratici che hanno determinato la vittoria di Trump. Si può infatti affermare che queste  elezioni presidenziali sono state decise da circa 100mila persone su oltre 120 milioni di voti espressi. Secondo gli ultimi conteggi, Trump ha vinto Wisconsin di 0,9 punti percentuali (27.257 voti), Michigan di 0,2 punti (11.837 voti) e Pennsylvania di 1,1 punti (68.236 voti). Se Clinton avesse vinto tutti e tre gli Stati, avrebbe ottenuto 278 collegi elettorali (contro i 260 di Trump) e sarebbe diventata Presidente degli Stati Uniti. In Wisconsin, Clinton è andata una sola volta durante l’elezione e ha perso lo Stato per circa 27.000 voti, consegnandolo ai Repubblicani (non accadeva dal 1984). Clinton ha trascurato anche il Michigan mentre Trump vi ha concentrato gli sforzi nella settimana finale, inclusa la sua presenza nel giorno dell’elezione.  In Pennsylvania, la storia è diversa. Clinton vi ha dedicato più tempo e risorse (mobilitando un esercito di volontari) ma Trump ha fatto meglio, riuscendo a mobilitare gli elettori della classe operaia e rurale e delle piccole città.

In sostanza, la campagna di Clinton non è stata sbagliata ed è stata probabilmente l’unica che si poteva condurre. Indubbiamente, il Partito Democratico conosceva i limiti di Clinton, un candidato che raccoglie molte antipatie, e le difficoltà che avrebbe avuto a vincere le elezioni. Ma né il partito né il Presidente Obama hanno avuto il coraggio di sfidare Clinton che peraltro controllava l’apparato del partito e non ha permesso ad un outsider come Bernie Sanders di emergere.  Trump ha insomma prevalso per i suoi meriti (in condizioni estremamente difficili, osteggiato dal suo stesso partito e dalla stragrande maggioranza dei media) ma anche per la debolezza della sua avversaria.

Le ragioni politiche del voto

Clinton e Trump sono stati i più sgraditi candidati presidenziali nella storia americana. Quali sono le ragioni politiche per le quali un candidato inaffidabile – Trump – con tanti aspetti discutibili ha vinto? L’ immediata risposta è che l’avversario era ugualmente se non più discutibile. Come detto, Clinton è profondamente mal vista da una quota elevata dell’elettorato americano. Quando ha avuto responsabilità nel Congresso e come Segretario di Stato, ha commesso errori colossali (voto a favore della guerra in Iraq, intervento in Libia, gestione della crisi in Siria, tensione dei rapporti con la Russia, gestione della posta elettronica con un server nello scantinato di casa durante il periodo come Segretario di Stato, rapporti con la Fondazione Clinton). Tutte queste circostanze hanno portato molti americani a considerarla inaccettabile. 

Trump, il candidato inaffidabile, ha invece avuto la capacità di ascoltare e dare voce alle frustrazioni di una gran parte di americani – sopratutto la classe lavoratrice bianca- che sono stati dimenticati; ha compreso la rabbia di coloro che si sentono minacciati – a ragione o meno – dall’immigrazione, dalla delocalizzazione, dal terrorismo, dalla tecnologia. Si è presentato come il candidato contro il sistema, colui che si è schierato contro il Partito Democratico, contro i media (sopratutto quelli televisivi) e lo stesso Partito Repubblicano, colui che può riformare un sistema “truccato” che opera contro gli interessi del cittadino. 

Trump è visto come l’outsider, il non-politico che suscita passione ed entusiasmo oltre a dubbi e timori. Clinton ha avuto difficoltà a trasmettere la sua solidarietà e sostegno per i lavoratori, quando contemporaneamente riceve ingenti contributi dalle istituzioni finanziarie che hanno avuto grosse responsabilità nella crisi economica e che hanno determinato tante perdite di posti di lavoro.

D’altra parte, gran parte del dibattito tra i due candidati si è incentrato sul carattere di entrambi e non sulla sostanza delle loro proposte. Gli attacchi di Clinton su Trump non idoneo per la Presidenza erano in gran parte visti come il riconoscimento che Clinton si preoccupava del carattere del suo avversario, ma non della situazione economica e sociale che molti americani soffrono. Dal canto suo Trump colpiva duro e aveva un impatto quando diceva che Clinton non ha fatto nulla nei 30 anni della sua vita politica, mentre lui ha creato milioni posti di lavoro. In tale contesto, Clinton non è riuscita a valorizzare la circostanza che avrebbe potuto essere la prima donna Presidente degli Stati Uniti. Non è stata capace di controllare il voto femminile: pur ottenendo la maggioranza del voto femminile (54% secondo gli exit polls) ha perduto il sostegno del voto femminile non di colore, che si è rivolto per il 53% a favore di Trump.

La coalizione che ha portato Trump alla vittoria non va considerata – come Sanders ha sottolineato – come una coalizione di razzisti e di “deplorables” (deprecabili), anche se tali personaggi non mancano nel panorama che lo sostiene. Il tema unificante è l’insoddisfazione con la classe dirigente e con un sistema che non riconosce i bisogni della gente. Un rigetto del conformismo delle élites che pretendono di dettare agli altri i comportamenti da tenere; degli esperti che perdono indipendenza e si appiattiscono al potere; dei media che hanno speso il tempo discutendo di offese e insulti tra i due candidati, di scandali, slogan, gossip e non dei problemi che riguardano la gente comune e delle rilevanti politiche che i candidati propongono. La vittoria di Trump va quindi interpretata come un voto per il cambio, analogo a quello del 2008 per Obama. Gli elettori – soprattutto quelli che sono alla base della piramide – erano stanchi di vuote promesse e non erano disposti a concedere un terzo mandato – comunque storicamente raro – ad un democratico.

La divisione dell’America

Per verificare visivamente la divisione del Paese basta andare fuori dalle grandi città, osservare le manifestazioni soprattutto studentesche, parlare con la gente e addirittura ascoltare l’appello durante lo show musicale Hamilton, a New York. La tensione, i timori, le paure sono palpabili. La ragione profonda della divisione – a mio avviso – è che il paese del multiculturalismo e delle opportunità per tutti ha creato nel tempo interessi prestabiliti, rendite di posizioni che ora riducono l’uguaglianza delle opportunità.

La circostanza che, a livello nazionale, Clinton ha ottenuto circa due milioni di voti più di Trump (il risultato tuttavia non è ancora definitivo) evidenzia quanto l’elezione presidenziale del 2016 abbia diviso il Paese. Va precisato che l’elezione del Presidente negli Stati Uniti si decide Stato per Stato e non a livello nazionale. Tale circostanza – talvolta dibattuta – è accettata come la soluzione che non penalizza i piccoli Stati. Peraltro, i casi di Presidenti che non hanno vinto il voto popolare a livello nazionale, oltre ai collegi elettorali statali, sono rari (l’esempio più significativo è quello di Al Gore che nel 2000 vinse il voto popolare, ma perse quello elettorale e Bush diventò il 43esimo Presidente degli Stati Uniti). Tuttavia, la mancata vittoria a livello nazionale ha implicazioni sulla legittimità del “mandato” del Presidente di realizzare il programma che ha presentato durante la compagna elettorale.

D’alta parte, Trump ha trascinato il Partito Repubblicano a vincere le elezioni al Senato e alla Camera sicché questo ora controlla la Presidenza e il potere legislativo e potrà introdurre cambi anche radicali (ad esempio nel settore della salute). Inoltre, esiste la chiara opportunità di influenzare in senso conservatore le scelte dei giudici della Corte Suprema. Il Presidente dovrà scegliere un candidato per rimpiazzare Antonin Scalia ed è prevedibile che, data l’età di almeno tre giudici attualmente in carica, nei prossimi 4 anni potrà effettuare altre nomine di giudici alla Corte Suprema che ulteriormente orienterebbero la Corte in senso conservatore. Infine, a livello statale, il Partito Repubblicano ha Governatori in 33 Stati (su 50), il livello più elevato dal 1992 e controlla Camera e Senato in 32 Stati. In tale situazione, la c.d. “tirannia della maggioranza”, che i padri fondatori della Costituzione americana hanno sempre considerata come il peggiore dei mali, è una distinta possibilità che si può verificare ed esacerbare ulteriormente le divisioni. È vero – e democratico – che l’esito delle elezioni ha conseguenze. Tuttavia, varie delle proposte elettorali di Trump sono contradittorie e radicali e se adottate alla lettera rischiano di accentuare la divisione e la polarizzazione dell’America e l’intolleranza.

Il mandato

Il Presidente Trump ha la legittimità e l’autorità necessarie per realizzare il programma che ha presentato durante la campagna elettorale? Potrà adottare i cambi presentati durante la campagna elettorale tra i quali quello di “drain the swamp” (prosciugare la palude), ossia eliminare rapporti e interessi precostituititi – spesso esemplificati dai lobbisti – che assediano le istituzioni e influenzano, determinano e corrompono le decisioni del governo? Si tratta di un tema complesso che qui non può essere certamente esaurito.

Trump non ha un compito semplice e dovrà giostrarsi tra le promesse elettorali e la possibilità di dividere ulteriormente il Paese. Dovrà dimostrare concretamente di occuparsi di tutti gli americani e lavorare con il Congresso (Senato e Camera), con i rappresentanti direttamente eletti dai cittadini e destinati a garantire controlli ed equilibri del sistema democratico, dando all’opposizione l’opportunità di esprimere punti di vista e interessi e pervenire a soluzioni che spesso sono compromessi, come normalmente accade in democrazia. Trump dovrà navigare tra i pesi e contrappesi del sistema americano – che saranno messi alla prova – cercando di rispettare le più importanti promesse elettorali senza cercare di governare in modo autocratico.

Su due obiettivi è probabile che gran parte degli americani sia d’accordo: rinvigorire la crescita economica in modo tale da creare posti di lavoro ed opportunità; ristabilire principi, valori e regole alla base dell’esperimento americano. In tale ottica, il Presidente non potrà operare come il “padrone” di una compagnia privata nemmeno quotata in Borsa, anche se la tentazione esiste. L’eliminazione dei conflitti d’interesse tra Trump Presidente e Trump uomo d’affari è fondamentale anche se – a termine di legge – le cautele da intraprendere per evitare conflitti d’interessi si applicano a tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche ma non al Presidente degli Stati Uniti che è considerato al di fuori di conflitti d’interessi. Come pure è vitale che Trump operi in modo trasparente spiegando le scelte politiche e di personale, evitando soluzioni di sorpresa ed immotivate come è nello spirito dell’uomo di affari. 

Il compito principale del nuovo Presidente nel realizzare in modo coerente e con una visione di lungo periodo le contraddittorie proposte elettorali è quello di compattare il Paese e riportarlo ai valori originari e pertanto prosciugare la palude e ricreare le condizioni per la crescita economica e sociale e la concreta realizzazione del sogno americano. Questo è il vero mandato che dovrà conquistarsi giorno per giorno. In tal senso, Trump ha una grande opportunità e sarà interessante osservare in che modo intende afferrarla. È presumibile che i primi chiarimenti verranno quando il nuovo Presidente avrà completato la sua squadra di governo e sceglierà le politiche ed iniziative che intende avviare. Tuttavia, le iniziative e decisioni di Trump dovranno essere considerate non pregiudizialmente da rigettare, ma andranno valutate alla luce dei valori, principi e regole del sistema americano. Solo facendo tangibilmente riferimento ai principi ispiratori si potrà essere più ottimisti in relazione all’unità del Paese e si potrà assicurare che lo spettacolo delle elezioni presidenziali del 2016 sarà irripetibile.

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

Presidenziali USA: una situazione irripetibile o il segno di una crisi profonda?

di Pietro Masci

Lo scorso 1 novembre due giornalisti, Aaron Williams e Tim Meko, hanno pubblicato un articolo sul Washington Post nel quale spiegano che gli americani preferiscono quasi ogni cosa ai due candidati Presidenziali Hillary Clinton e Donald Trump. Putin, la Corea del Nord e l’Iran sono tra i pochi a situarsi saldamente dietro Clinton e Trump. Il giorno dopo il Club Economico di Washington ha organizzato un dibattito sulle elezioni durante il quale il moderatore ha chiesto: «Se Hillary Clinton sarà eletta presidente, qual è l’evento che l’ha maggiorente favorita?» La risposta è stata unanime: «La scelta dei Repubblicani di candidare Donald Trump». Il moderatore ha fatto la stessa domanda riferita a Donald Trump. Anche in questo caso la risposta è stata unanime: «La scelta del Democratici di candidare Hillary Clinton». Questa situazione di due candidati alla Presidenza americana che raccolgono la disapprovazione del pubblico non è emersa ora. Un paio di mesi fa, una mia cara amica italiana che ha vissuto negli Stati Uniti mi ha inviato una foto che sollecita gli americani a cambiare la residenza in Canada, dato il livello dei due candidati presidenziali. E’ l’equivalente di uno sfottò tra vicini, ma dimostra uno stato d’insoddisfazione.

L’insoddisfacente livello della campagna presidenziale

Come avevo sottolineato alcuni mesi fa su questo sito, il malcontento nei confronti di Clinton e Trump è parte di una più generale frustrazione per i principali candidati alla Presidenza. Quelli repubblicani (Jeb Bush, Carson, Christie, Cruz, Kasich, Rubio) non erano al’altezza e non avevano una proposta convincente. Il Presidente della Camera Paul Ryan – che considero un politico di livello – non ha avuto il coraggio di candidarsi e non è stato in grado di comprendere l’avanzata di un candidato come Trump, per molti versi antitetico ai valori del Partito repubblicano. Trump ha condotto una campagna elettorale fatta di battute (anche pesanti), minacce, offese, mancanza di contenuti e di serie proposte. La rete televisiva NBC ha dimostrato che dall’annuncio della sua candidatura (16 giugno 2015) a oggi ha cambiato 138 posizioni su 23 temi di estrema rilevanza. Quando Trump parla dei cambi che intende introdurre – tra questi una profonda revisione dei trattati commerciali e del concetto stesso di globalizzazione – trasmette l’impressione che si materializzeranno come miracoli in grado di migliorare immediatamente la vita degli americani. Il Partito repubblicano non è stato in grado di comprendere e gestire una situazione nella quale pressoché qualsiasi candidato avrebbe vinto contro una Clinton mal vista da una gran parte degli americani e ha confidato nella circostanza che Trump sarebbe stato sconfitto alle primarie.

Un’analisi analoga vale per il Partito democratico, che non poteva non conoscere gli aspetti negativi della Clinton, che tuttavia ha l’appoggio del Presidente Obama. Elizabeth Warren, senatrice per il Massachusetts e nota per le posizioni contro gli interessi precostituiti, si è defilata. Bernie Sanders, un candidato indipendente non iscritto al partito democratico, è andato allo sbaraglio (e peraltro ha dimostrato con una piattaforma di “sinistra” le difficoltà della Clinton).

Occorreva dare una risposta efficace alla gran parte degli americani insoddisfatti con la situazione economica, l’immigrazione, il terrorismo. In effetti, Trump dà voce alla profonda rabbia di tanti milioni di elettori che vogliono un miglioramento concreto nelle loro vite. Trump interpreta la convinzione di molti americani che il sistema è “truccato”; che i politici non si preoccupano dei cittadini, ma dei loro guadagni. Trump sta ridefinendo il Partito repubblicano, facendo appello agli elettori repubblicani e democratici pronti per una seconda rivoluzione americana. Guarda caso molti degli stessi elettori ai quali si rivolgeva l’indipendente Bernie Sanders, il candidato democratico che parlava di “rivoluzione” ed è battuto da Clinton nelle primarie. In tale contesto, il divario tra l’élite politica e i cittadini è in crescita. La gente si domanda quale motivo spinga entrare in politica invece che in studio legale o in altra attività imprenditoriale. Forse perché la politica permette di guadagnare bene, considerato che i politici decidono le sorti dei ricchi con i quali i politici sono continuamente in contatto e dai quali ricevono contributi finanziari. L’ultimo decennio ha visto l’1 per cento più ricco crescere, il divario tra ricchi e poveri allargarsi, la classe media impoverirsi. In tal senso, la battaglia tra Donald Trump e Hillary Clinton offre un contrasto paradossale. L’outsider Trump si è arricchito nel settore privato e – come lui stesso ammette – “acquistando” favori dai politici ai quali ha offerto vari contributi finanziari. Il politico Hillary Clinton ha ricevuto ingenti contributi finanziari e sembra dimostrare che il percorso attraverso il settore pubblico può ugualmente produrre milioni di dollari. Trump declama che l’America è attraversata da disastri e problemi (spesso non evidenti o non definibili come disastrosi e non corroborati dai dati macro-economici su occupazione, inflazione e livelli salariali). Clinton pensa invece che le cose vadano sostanzialmente bene e che per ridurre le disuguaglianze ci sia solo bisogno di alcuni aggiustamenti.

Molte persone ritengono che le leggi non siano applicate in modo uniforme. L’esempio è che nessuno ha sostanzialmente pagato per le crisi finanziaria degli ultimi anni originata negli Stati Uniti; nessuno è responsabile per le guerre degli ultimi 10-15 anni e per la gestione della politica estera. Trump ha beneficiato di procedure che gli hanno permesso di non pagare le imposte e offende e maltratta chi non è d’accordo; Clinton nei suoi anni nel Congresso e come segretario di Stato ha commesso errori enormi (per i quali si è puntualmente scusata) che hanno favorito l’emergere di seri problemi in Iraq, Libia, Siria, Ucraina nonché il continuo confronto con la Russia. ISIS è cresciuto dopo l’invasione dell’Iraq e il ritiro delle truppe americane (deciso dall’amministrazione Obama) che ha lasciato un vuoto di potere. Inoltre, la Clinton non viene mai incriminata, particolarmente per la gestione secreta della posta elettronica con un server nello scantinato di casa egli anni in cui era Segretario di Stato.

Le negatività di Trump e Clinton

La negatività che i due candidati raccolgono è senza precedenti, come dimostra un articolo di Mike Czuchnicki. Alcuni accusano Clinton di essere una bugiarda congenita e di aver dimostrato di non avere quella capacità di giudizio fondamentale per un Presidente degli Stati Uniti. La difesa di Hillary Clinton è che il suo avversario è peggio. Nel frattempo, Trump sembra essere in lotta contro tutti, compreso sé stesso. L’elenco di coloro che offende è lungo e comprende molti della struttura del Partito repubblicano, alcuni dei quali – ad esempio il senatore e già candidato presidenziale McCain – evitano pubblicamente di sostenerlo. Un recentissimo sondaggio conferma che gli americani sono disgustati dall’attuale funzionamento del sistema attuale e ritengono che il vincitore non sarà in grado di unificare il Paese. E’ probabile che il prossimo Presidente avrà una fortissima opposizione e ostruzionismo da parte del partito avverso, senza considerare la possibilità che il perdente non accetti il risultato delle elezioni. A questo proposito è sufficiente ricordare come, per molto meno, tanto Gary Hart (favorito alle elezioni nel 1984 e scoperto a mentire su una sua relazione extra-coniugale) quanto l’attuale Vice Presidente Joe Biden (candidato democratico alle primarie del 1988 e accusato di aver plagiato un discorso di Neil Kinnock del Partito Laburista inglese) furono costretti ad abbandonare la corsa alla Presidenza.

I media – soprattutto la televisione – hanno responsabilità per come la campagna presidenziale è presentata. Dopo aver facilitato la vittoria di Trump alle primarie perché gli veniva dedicato un eccesso di tempo in video, le televisioni si sono interessate in modo sproporzionato degli scandali di Trump e non si sono preoccupati di dedicare un’attenzione analoga alle rilevanti mancanze di Hillary Clinton. Una ricerca indipendente dell’Harvard Kennedy School’s Shorenstein Center on Media, Politics and Public Policy sottolinea che soprattutto le televisioni hanno dato rilievo agli scandali di Trump e particolarmente al video della conversazione offensiva contro le donne, ma hanno trascurato i problemi di Hillary Clinton come ad esempio quello della gestione della posta elettronica. L’ultima “perla” è costituita dalla circostanza che Donna Brazile – già Presidente ad interim del Comitato nazionale del Partito Democratico e collaboratore della rete CNN – ha passato alla Clinton le domande che sarebbero state fatte ai candidati durante i dibattiti televisivi delle primarie.

La corsa finale

I colpi di scena si susseguono. Ho l’impressione di assistere alla nota trasmissione radiofonica “Tutto il Calcio Minuto per Minuto” con continue interruzioni dai campi con notizie che ribaltano i risultati. L’ultima riguarda la notizia sulle indagini del FBI nei confronti della Clinton e della sua Fondazione. Lo scorso 5 luglio il suo direttore James Comey annuncia che Hillary Clinton non sarebbe stata incriminata per la gestione della posta elettronica. Dieci giorni prima del voto, in una lettera a senatori e membri del Congresso, comunica la riapertura del caso a seguito dell’individuazione di nuove mail rilevanti per l’inchiesta. Infine, a meno di 48 ore dal voto, ha riconfermato la decisione di non incriminare Clinton.  Inoltre, il FBI sta indagando se i donatori alla Fondazione Clinton (che nel giro di pochi anni ha accumulato miliardi di dollari) abbiano ricevuto considerazioni particolari dal Dipartimento di Stato quando era in carica Hillary Clinton. Non solo. Il FBI ha pubblicato gli atti della grazia che il Presidente Bill Clinton (a fine mandato il Presidente degli Stati Uniti può graziare cittadini che sono stati condannati o accusati di crimini) ha concesso nel 2001 a favore di Marc Rich, un gestore di fondi d’investimento e altre attività finanziarie – fuggito in Svizzera e morto nel 2013 – accusato di evasione fiscale, frode, collusione con il crimine organizzato. A questo si aggiunga che un numero significativo di persone che ha già votato vuole cambiare il proprio voto (in alcuni Stati e in determinate circostanze coloro che hanno votato in anticipo possono infatti chiedere di rivotare). Un’ulteriore sorpresa è poi scoprire che, dopo una campagna di slogan, Donald Trump si sta in questi ultimi giorni presentando al pubblico con uno stile completamente diverso, con più sostanza, presidenziale e con la moglie Melania che anticipa come il suo ruolo di first lady sarà quello di combattere il bullismo, soprattutto quello online.

In questo contesto non poteva mancare il ruolo del mercato. Da quando è venuta fuori la notizia della riapertura dell’inchiesta su Hillary Clinton e sono quindi aumentate le probabilità di un’elezione di Trump, l’indicatore di borsa Dow Jones è sceso di oltre l’1,6 per cento. A proposito, uno studio di Justin Wolfers e Eric Zitzewitz (University of Michigan and NBER Dartmouth College and NBER) sembra sostenere che il mercato abbia più timore che Trump diventi Presidente che non che la Federal Reserve alzi i tassi d’interesse. Normalmente Wall Street è a favore dei repubblicani, ma non questa volta. La circostanza che Clinton ha sempre sostenuto Wall Street non appare insignificante.

Insomma, gli americani devono scegliere (come si dice con un’espressione caratteristica) tra il diavolo che conoscono e l’altro sconosciuto. Oltretutto l’8 novembre l’elettorato americano voterà anche per l’elezione di 469 suoi rappresentanti (34 per il Senato e 435 per la Camera) e l’esito di questa consultazione avrà un impatto fondamentale sulle prospettive di governo nazionale almeno per i prossimi due anni.

Del resto gli altri due candidati per la Presidenza degli Stati Uniti non appaiono essere in grado di costituire un’alternativa a Trump e Clinton. Il candidato del Partito Libertario Gary Johnson presumibilmente sottrarrà consensi ai repubblicani ma non sembra avere la statura e la sostanza necessaria. Stesso discorso vale per il candidato del Partito Verde Jill Stein, che presumibilmente penalizzerà i democratici. In aggiunta, il sistema americano non permette a questi due candidati – anche per la loro bassa rappresentatività – di avere accesso alla televisione e portare il loro messaggio al vasto pubblico. Sono entrambi condannati all’insuccesso.

L’esito finale

L’esito della contesa presidenziale è molto incerto, anche se i sondaggi a livello nazionale attribuiscono ancora un piccolo margine di vantaggio a Clinton (46,6% contro il 44,8% di Trump) per quanto riguarda il voto popolare. Tuttavia l’elezione dipende dai risultati ottenuti nei singoli Stati che conferiscono i c.d. voti elettorali. Per diventare Presidente occorre infatti raggiungerne 270 e Clinton resta ancora il candidato favorito (216 contro i 164 di Trump) anche se il suo margine va riducendosi negli Stati in bilico (che ne attribuiscono altri 158). Per vincere, il candidato repubblicano dovrebbe infatti aggiudicarseli tutti e strappare alla Clinton almeno uno Stato tradizionalmente a maggioranza democratica. I sondaggi non riescono comunque a identificare facilmente ex ante tre categorie di elettori che risulteranno comunque decisive: coloro che voteranno Trump senza dirlo, coloro che voteranno controvoglia Clinton perché temono il salto nel vuoto determinato da una vittoria di Trump, coloro infine che si asterranno dal voto perché non intendono essere complici di un sistema che mostra crepe evidenti.

Conclusione

Come mai in una grande democrazia come quella degli Stati Uniti, dove un certo numero di controlli ed equilibri esistono per promuovere i migliori ed evitare risultati non democratici e dove le persone hanno l’ultima parola, due personaggi così negativi riescono a diventare i candidati alla Presidenza degli Stati Uniti? Ci sono due possibili risposte: o questo è un evento casuale che non potrà ripetersi oppure è un segnale che qualcosa è sbagliato nel sistema statunitense e deve essere riparato. Sono orientato verso la seconda risposta. Ma, allora, chi potrà riparare il sistema? Forse la generazione dei c.d. Millenials oppure quella ancora successiva troverà una soluzione.

Nell’anno in cui i Cubs di Chicago hanno vinto per la prima volta, dopo 108 anni, le World Series di Baseball, è pressoché certo che per la prima volta sarà Presidente degli Stati Uniti o una donna oppure uno sconosciuto totale. Però è solo la vittoria dei Chicago Cubs che appare degna di essere celebrata. Chi diventerà Presidente degli Stati Uniti non sembra essere in grado di ricompattare il Paese e far fronte ai problemi giganteschi dell’America e dell’intero pianeta.

Dopo le elezioni sarà così cruciale verificare se, e in che misura, le tre categorie di elettori sopra menzionati – insoddisfatti e critici dell’attuale situazione, quelli che voteranno uno o l’altro dei candidati senza una grande convinzione o gli astenuti – costituiranno una forza compatta in grado di riportare il sistema americano ai valori, ai principi e alle regole originarie che il lento accumularsi nel tempo di posizioni di rendita e privilegi sta rendendo vuoti e retorici.

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

La Riforma della Costituzione Italiana e il Referendum

di Pietro Masci

Esperto di politiche pubbliche e docente dell’Istituto Studi Europei.


Introduzione e Sommario

Il 22 settembre scorso sono state definite le domande per il referendum costituzionale di modifica della Costituzione italiana che si terrà il 4 dicembre. Gli elettori italiani sono chiamati ad approvare o respingere la riforma costituzionale, che prevede un significativo cambiamento nella struttura del Senato ed altre modifiche relative al funzionamento dello Stato ed i rapporti con le Regioni.
Il referendum non prevede un quorum, vale a dire che non ci sarà bisogno di un numero minimo di votanti per considerarne valido l’esito. Il voto referendario prevede “si” per l’approvazione della riforma e “no” per il rifiuto della riforma.
Il referendum riguarda numerosi temi abbastanza complessi e tecnici e con molte implicazioni e appare difficile definire un testo dei quesiti chiaro, esplicativo, esauriente ed allo stesso tempo neutrale. Al di là delle varie giustificazioni e interpretazioni che le parti sostengono in merito ai quesiti, è sufficiente leggere il testo che sarà sottoposto agli elettori – riportato qui di seguito – per concludere che i quesiti soddisfano il requisito della chiarezza, ma non quello della neutralità. Il Movimento 5 Stelle ha presentato ricorso.

Quesiti referendari:

o “Disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario”
o “Riduzione nel numero del parlamentari”
o “Il contenimento dei costi del funzionamento delle istituzioni”
o “Soppressione del CNEL”
o “Revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”.

Il presente articolo intende rispondere alle seguenti domande:

• quale sono le conseguenze della proposta di riforma costituzionale sul sistema giuridico-politico?;
e
• quale è l’impatto della proposta riforma costituzionale sulla crescita economica del Paese?

Per verificare le due domande, l’articolo segue un percorso noto in letteratura che involve qualità delle istituzioni, governance, corruzione, decadimento istituzionale e riduzione delle opportunità e della crescita economica (Dixit, A. 2009. Governance Institutions and Economic Activity. The American Economic Review, 99(1), 3-24). Il metodo d’analisi utilizza la letteratura in materia e l’esperienza nel funzionamento dei sistemi politici di vari paesi e sopratutto Italia e Stati Uniti che conosco meglio.

L’analisi delle conseguenze che la riforma della Costituzione italiana soggetta a referendum potrà avere sul sistema giuridico-politico e la c.d. governance- vale a dire le tradizioni e le istituzioni attraverso i quali è esercitato il potere – fa riferimento a come la riforma proposta influenza alcuni principi fondamentali: il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico e particolarmente il tema della superiorità dei principi, valori e regole inseriti nella Carta Costituzionale; il ruolo della maggioranza in un regime democratico; la stabilità; il collegamento tra eletti nelle istituzioni ed elettori; la riduzione dei costi dell’apparato statale. In tale contesto, l’analisi considera come la riforma intacchi principi fondamentali per il funzionamento democratico: l’esigenza di c.d. pesi e contrappesi – checks and balances – che servono a tutelare la minoranza ed evitare la dittatura della maggioranza, e la c.d. rule of law (nota 1) , cruciale per il corretto funzionamento di una democrazia e per la sua sostenibilità (Gosalbo-Bono Ricardo. 2010. The Significance of the Rule of Law and its Implications for the European Union and the United States. University of Pittsburgh Law Review, ISSN: 0041-9915, Vol: 72, Issue: 2).

L’articolo considera poi le misure della governance utilizzate dalla Banca Mondiale e applicate ai vari paesi -inclusa la corruzione – e come la carenza di regole efficaci che disciplinano gli aspetti fondamentali della vita politica riduca la qualità delle istituzioni ed il livello della governance e faciliti la corruzione e il ruolo del denaro in politica determinando una spirale di decadimento istituzionale, politico e sociale ed economico. In tale contesto, l’articolo si sofferma sulle possibili conseguenze economiche della riforma costituzionale proposta.

Le conclusioni s’incentrano sulla necessità che un sistema giuridico-politico mantenga la qualità dell’assetto istituzionale e riesca ad identificare gli incentivi che facciano emergere e premino comportamenti virtuosi e permettano un corretto funzionamento delle istituzioni. In tal senso, l’elezione diretta dei rappresentanti costituisce un elemento essenziale al funzionamento democratico e concorrenziale, permette il controllo degli eletti e fornisce legittimità a tutto il sistema.

La Proposta di Riforma Costituzionale e alcuni Principi Fondamentali

a. Il ruolo della Costituzione nell’ordinamento giuridico.

La Costituzione – sotto qualsiasi latitudine- rappresenta il testo fondamentale del sistema giuridico-politico di un paese, dove emergono i valori, i principi e le regole ai quali l’ordinamento giuridico s’ispira. Per tale ragione, la Costituzione e le sue modifiche non possono che essere un testo largamente condiviso, raggiunto con compromessi che coinvolgono le varie forze politiche.

La Costituzione italiana – nata dopo la Seconda Guerra Mondiale e la Resistenza- costituisce la legge fondamentale, influenzata principalmente dalle culture cattolica e socialista e dall’esperienza fascista. La Costituzione rappresenta il risultato di un lavoro lungo e di un largo

consenso nonchè di compromessi, proprio perchè stabilisce valori, principi e regole condivisi per alcuni dei quali esiste anche una diversa impostazione (e pertanto è spesso necessario un compromesso).

L’argomento che talvolta viene utilizzato per giustificare la modifica della Costituzione s’incentra sulla circostanza che sono trascorsi circa 70 anni dalla sua approvazione, i tempi sono cambiati e pertanto la Carta Costituzionale deve adattarsi. In proposito, si trascura la circostanza che valori, principi e regole non sono temporanei, ma di lungo periodo. In ogni caso, l’età della Costituzione non fa venir meno, anzi rafforza, il requisito fondamentale per le modifiche: un vasto consenso. La Costituzione degli Stati Uniti risale al 1789 – ed è stata modificata solo 27 volte – e i principi e valori ispiratori rimangono intatti e in essi gli americani si riconoscono.

La letteratura della scuola di public choice, che spiega il processo politico secondo le regole dell’economia, è unanime sul punto dell’esigenza di un vasto accordo per l’adozione di regole costituzionali (Buchanan, James M., and Gordon Tullock. 1962. The Calculus of Consent. Ann Arbor: University of Michigan Press).

b. Il ruolo della maggioranza in un regime democratico.

Le proposte modifiche della Costituzione italiana – sottoposte a referendum- sono intese a garantire la stabilità governativa, nel senso di durata e capacità di prendere decisioni da parte dell’Esecutivo e della maggioranza, sopratutto eliminando l’equivalenza di Camera e Senato – il c.d. bicameralismo perfetto- che, secondo l’attuale Costituzione, hanno identici compiti e poteri (ad esempio, entrambe le Camere votano la fiducia all’Esecutivo e approvano tutte le leggi). Il Senato delineato nella riforma non voterà la fiducia all’Esecutivo; avrà un numero limitato di competenze sulle quali legifererà insieme alla Camera (ad esempio riforme costituzionali, tutela delle minoranze linguistiche, referendum, enti locali e politiche europee).

In tal senso, la riforma costituzionale proposta modifica un principio fondamentale iscritto nella Carta Costituzionale, vale a dire l’equivalenza tra Camera e Senato che costituisce uno dei capisaldi di pesi e contrappesi del sistema giuridico-politico italiano. L’equivalenza tra le due Camere – peraltro analoga a quella che esiste negli Stati Uniti dove Camera e Senato entrambe approvano le stessi leggi – fu adottata dai costituenti a garanzia di un più sicuro funzionamento democratico dell’iter legislativo. Il bicameralismo perfetto può allungare i tempi delle decisioni e favorire il mantenimento di posizioni di rendita. Tuttavia, il bicameralismo perfetto riduce il potere dell’Esecutivo e costituisce una garanzia per la minoranza nella definizione di leggi e regolamenti contro lo strapotere della maggioranza. Tale meccanismo costituisce un principio fondamentale che può essere modificato solo con un ampio consenso delle forze politiche (nota 2) (D. Argondizzo. 2013. 1945-1947 Il bicameralismo in Italia tra due modelli mancati: Congresso USA e Stortinget, Quaderni della Rivista Il Politico, n. 59, Soveria Mannelli, Rubbettino).

Ulteriore importante implicazione della riforma è il ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza nell’approvazione di leggi e regolamenti. Infatti, l’Esecutivo in carica e la maggioranza potranno predisporre disegni di legge – attuativi del “programma di Governo” – da approvare dalla Camera che è allineata all’Esecutivo. Tale circostanza riduce le iniziative legislative parlamentari (che dovrebbero scaturire dalle esigenze che i cittadini rappresentano ai propri rappresentanti) che già sono pari solo al 20% delle iniziative complessive ed evidenziano il distacco tra istituzioni ed elettori, anche perchè i rappresentanti che siedono al Parlamento hanno principalmente rapporti con le segreterie dei partiti piuttosto che con gli elettori del territorio che dovrebbero rappresentare (Associazione OpenPolis. 2015. Premierato all’Italiana. Osservatorio sulle leggi nella XVII Legislatura. Edizioni OpenPolis, Roma).

Altra implicazione – non secondaria – è che gli incarichi nella Pubblica Amministrazione e nelle c. d. Agenzie indipendenti siano attribuiti ad individui che raccolgono la fiducia della maggioranza al potere, senza aver riguardo alla conoscenza ed esperienza nel settore specifico e alla capacità di svolgere con efficacia ed integrità la funzione ricoperta. La prima implicazione di tali nomine è che i “nominati” avranno l’inclinazione ad emettere normative secondo gli interessi e le direttive del potere politico (Cochrane, John, 2015. The Rule of Law in the Regulatory State, prepared for The Foundation of Liberty: Magna Carta After 800 Years, Hoover Institution Conference, June). La seconda implicazione è che, naturalmente, le nomine dipendono dall’Esecutivo in carica e possono essere modificate dal successivo Esecutivo con un’impostazione diversa. Queste due circostanze accentuano l’instabilità istituzionale e la certezza e durata delle regole.

Pertanto, le modifiche costituzionali – associate al premio di maggioranza alle elezioni per la Camera in vigore a partire dal luglio 2016 (il c.d. Italicum, vedi in seguito e nota 7) – eliminano il bicameralismo perfetto ritenuto da molti causa di inefficienze e lentezze, attribuendo all’Esecutivo ed alla maggioranza un ruolo preponderante nelle decisioni. L’Esecutivo deciderebbe i tempi e la sostanza dei lavori dell’unica assemblea legislativa rilevante, la Camera, peraltro con maggioranza allineata all’Esecutivo. Il ruolo egemonico dell’ Esecutivo nell’approvazione delle leggi va contro le regole che risalgono alla teoria della divisione dei poteri secondo la quale l’Esecutivo ha il compito di eseguire le leggi approvate dal Parlamento.
Inoltre, l’Esecutivo svolge attività “legislativa”, attraverso la Pubblica Amministrazione e le Agenzie indipendenti che emettono provvedimenti con sostanza di legge senza un effettivo controllo del potere legislativo (il Parlamento). Tale circostanza viola il principio della rule of law(nota 3) e rischia di instaurare la rule by law con il ruolo dominante dell’Esecutivo e della maggioranza, che produce la c.d. ”tirannia della maggioranza” che potrebbe sfociare nell’autoritarismo autocratico e plebiscitario. Tali situazioni di potere esclusivamente basato sull’espressione popolare si manifestano in vari paesi (ad esempio, Turchia di Erdogan; Russia di Putin; e Venezuela di Chavez che ora sta attraversando con Maduro una crisi di gigantesche proporzioni), dove vige il concetto della rule by law e non della rule of law . In tale proposito, Diamond Larry and Marc F. Plattner Editors. 2015. Democracy in Decline, John Hopkins University Press.

c. La stabilità

La riforma costituzionale sottoposta al referendum parte da un concetto di stabilità peraltro ampiamente diffuso –la governabilità – che come sopra accennato si riferisce alla stabilità dell’Esecutivo ed alla sua capacità di durare e prendere decisioni. Il concetto di stabilità di un ordinamento giuridico non può essere esclusivamente fondato sulla circostanza che l’Esecutivo sia in carica e produca norme. Elemento di maggior rilevanza è che un sistema giuridico-politico funzioni attraverso i c.d. pesi e contrappesi e secondo regole e procedure certe e prevedibili. In altre parole, è la qualità della governabilità, non la governabilità che ha rilievo.

Negli Stati Uniti, le modifiche costituzionali, come pure le leggi ordinarie, sono difficili da realizzare proprio perché, malgrado gli Stati Uniti siano una Repubblica Presidenziale, il potere è diffuso e il sistema è permeato da checks and balances – tra i quali come indicato sopra la parità di Camera e Senato e la circostanza che solo un membro del Congresso può proporre un disegno di legge accentuando il rapporto tra eletti ed elettori (nota 4) – che riducono il potere del Presidente e della maggioranza e tutelano la minoranza (si pensi, ad esempio, alla difficoltà ad approvare leggi sull’immigrazione). In proposito, spesso si ricorda un aneddoto significativo. Le deliberazioni che portarono alla definizione della Costituzione degli Stati Uniti furono tenute in gran segreto e molti cittadini – curiosi e ansiosi di cosa si stesse decidendo- si riunirono fuori della Independence Hall, in Filadelfia, dove si svolgevano le riunioni per scrivere la Costituzione. Si racconta che una donna, la signora Elizabeth Powell (che sembra fosse un’amica di George Washington), preoccupata, chiese a Benjamin Franklin, “Dottore, che cosa abbiamo, una repubblica o una monarchia?” Senza esitazioni, Franklin rispose: “Una Repubblica, signora, se sarete capaci di conservarla”. Questo aneddoto attesta l’importanza centrale che rivestono pesi e contrappesi nella Costituzione statunitense.

Uno dei temi centrali e ricorrenti del dibattito politico negli Stati Uniti è quello del c.d. divided Government – il Governo diviso (nota 5) . Tale situazione dipende principalmente dalla circostanza che non solo non è infrequente che il partito del Presidente non è quello che ha la maggioranza nel Congresso (Camera e Senato), ma anche quando Presidente e maggioranza nel Congresso sono dello stesso partito, i parlamentari debbono rispondere agli elettori nel territorio che li ha eletti e non agli ordini del partito. In tale contesto, il raggiungimento di un accordo per approvare le leggi è complicato, spesso richiede compromessi, altre volte le proposte non riescono a diventare leggi proprio per i pesi e contrappesi che esistono nel sistema e che sono soprattutto a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento democratico.

A tale proposito, le attuali elezioni presidenziali negli Stati Uniti sono un esempio molto interessante da esaminare. Uno dei candidati – Donald Trump – sostiene, che una volta eletto Presidente, introdurrà cambi radicali (ad esempio, denuncierà gli accordi commerciali, costruirà il muro tra Stati Uniti e Messico; e così via). Tuttavia, questi cambi proposti sembrano non tener conto delle regole del gioco che prevedono l’accordo del Congresso che approva le leggi e che è tutt’altro che scontato.
Il sistema statunitense ha costruito gli anti-corpi – i pesi e contrappesi – che evitano situazioni autocratiche, o come viene chiamata la Presidenza Imperiale, e la tirannia della  maggioranza (nota 6). Il sistema si muove secondo cadenze e procedure prevedibili, regolate dalla legge alla quale tutti sono sottoposti e dove la maggioranza deve confrontarsi con la minoranza. La chiarezza istituzionale, vale a dire la trasparenza delle regole del gioco, costituisce il meccanismo che garantisce la stabilità, e la prevedibilità dell’evoluzione del sistema e sostanzialmente la sua legittimità, credibilità e sostenibilità.

Tra decisionismo e bilanciamento dei poteri, il sistema statunitense favorisce il secondo meccanismo. Questo non significa che il sistema sia perfetto, efficiente, funzioni sempre e in ogni circostanza, e non presenti difetti (le attuali elezioni presidenziali sono un buon esempio in proposito). Esistono vari elementi distortivi come quello del ruolo del denaro nella politica, ed il mantenimento di posizioni di rendita, ma alla lunga i checks and balances a tutela della minoranza, della rule of law e del funzionamento della democrazia, riducono i pericoli di dittature e tirannie mascherate dal consenso popolare (De Tocqueville Alexis. 2016. De la Démocratie en Amérique: Édition Intégrale Tome I + II, Create Space Independent Publishing Platform) e hanno dato risultati molto positivi per oltre 200 anni in termini di sviluppo economico e sociale.

L’accentramento di forti poteri all’Esecutivo, anche derivanti da un “mandato popolare”, o da elezioni che producono una certa maggioranza, non solo costituisce un pericolo per la democraticità del sistema, ma non è efficiente e può essere dannoso alla stessa stabilità. Un Esecutivo forte, ancorchè legittimato dal voto popolare, può prendere decisioni che però possono essere sconfessate dal successivo Esecutivo forte che ha anch’esso la legittimazione popolare, ma un’impostazione diversa dal precedente Esecutivo.
In proposito, al di là del merito della decisione, si può esaminare il caso della candidatura di Roma per le Olimpiadi del 2024 presa dall’Esecutivo a livello centrale con il sostegno della Giunta e del Consiglio di Roma, all’epoca allineati con l’Esecutivo a livello centrale. La decisione, però, era controversa e con varie opposizioni. La vittoria del Movimento 5 Stelle nelle recenti elezioni per Giunta e Consiglio della città di Roma ha portato al rifiuto di partecipare alle Olimpiadi determinando incertezza, spese effettuate e non recuperabili, perdita d’impegni, investimenti e credibilità.

Inoltre, non è da escludere lo scenario di una minoranza, nell’ambito della maggioranza, capace di esercitare un potere di veto con effetti nocivi sulle decisioni con situazioni di richiesta di contropartite di qualsiasi genere.

In altre parole, il decisionismo può essere sconfessato dal successivo decisionismo di segno opposto e determinare instabilità, vale a dire quella situazione che si sarebbe voluto eliminare. In aggiunta, il decisionismo basato su vittorie elettorali contingenti può essere solo apparente, non esclude lotte interne alla maggioranza con effetti paralizzanti e non assicura la durata e la tenuta dell’Esecutivo.
Un ruolo preponderante dell’Esecutivo e della maggioranza non elimina l’incertezza e può generare cicli d’impegni e succesivi rifiuti che sono la caratteristica dell’instabilità.

d.  Il collegamento tra elettori ed eletti

Il popolo è sovrano, come recitano molte costituzioni. Le istituzioni elettorali costituiscono una condizione necessaria e sufficiente per la pratica e il consolidamento della democrazia. Senza regole elettorali per l’elezione del potere esecutivo e di quello legislativo, la democrazia rappresentativa non è praticabile. Le regole determinano la natura del Governo che emerge dal voto, le modalità in cui il pubblico può verificare la responsabilità degli eletti nella gestione del potere e favoriscono il senso d’inclusione del cittadino (Mala Htun and G. Bingham Powell, Jr. Editors. 2013. Political Science, Electoral Rules, and Democratic Governance. Report of the Task Force on Electoral Rules and Democratic Governance. American Political Science Association (APSA)).

In Italia, l’evoluzione del sistema elettorale, dopo l’entrata in vigore della Costituzione nel 1946, ha portato ad un progressivo indebolimento del rapporto tra elettori ed eletti (nota 7) e la circostanza – sopra riportata- del basso livello d’iniziative legislative parlamentari rappresenta un significativo indicatore dello scollamento che esiste tra elettori ed eletti.
La riforma costituzionale soggetta al referendum parte da una corretta, ma non nuova, intuizione che una delle due Camere (il Senato) debba avere una rappresentatività su base regionale (Mangiameli Stelio Editore. 2012. Il regionalismo italiano tra tradizioni unitarie e processi di federalismo. Contributo allo studio della crisi della forma di stato in Italia, Giuffre). Tuttavia, l’attuazione nega l’intuizione ed accentua la prevalenza eccessiva della maggioranza, come discusso sopra, e la carenza di rappresentatività delle realtà regionali in quanto il futuro Senato sarebbe composto da membri prescelti indirettamente e senza un rapporto diretto con il territorio. In effetti, i rappresentanti destinati a ricoprire il ruolo di senatore sono selezionati dalle Assemblee regionali; svolgono le proprie funzioni a titolo individuale; e possono ricoprire nello stesso tempo la carica di consigliere regionale o di sindaco- senza vincolo di mandato. Tali rappresentanti, pertanto, tenderanno ad esprimere le posizioni del partito che li ha nominati e non gli interessi territoriali che dovrebbero tutelare. Riprendendo il parallelo con gli Stati Uniti, il 17° emendamento – adottato nel 1911 dalla Camera dei Rappresentanti e ratificato da tre- quarti degli Stati nel 1913- ha stabilito l’elezione diretta dei senatori che prima erano scelti dalle Assemblee legislative dei vari stati. Negli Stati Uniti a nessuno verrebbe in mente di tornare al sistema che le Assemblee legislative dei vari stati dell’Unione designino i senatori federali. Gli estensori della riforma costituzionale italiana soggetta a referendum non hanno considerato rilevante questa fondamentale esperienza storica (Friedman, Joseph S. 2009. The Rapid Sequence of Events Forcing the Senate’s Hand: A Reappraisal of the Seventeenth Amendment, 1890-1913. March. CUREJ: College Undergraduate Research Electronic Journal, University of Pennsylvania).

In aggiunta, la riforma – con la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione – prevede una riduzione dell’autonomia delle regioni, soprattutto in campo finanziario e organizzativo e in una serie di “competenze concorrenti”, cioè materie delle quali potevano occuparsi, nello stesso tempo, stato e regioni. Con la riforma, molte competenze torneranno in maniera esclusiva allo Stato. In tal senso, la riforma comporta una centralizzazione del potere e un de-potenziamento significativo dell’autonomia legislativa delle Regioni costituzionalmente riconosciuta. Senza considerare che la riforma determina un vuoto normativo in quanto le Regioni a statuto speciale sono escluse, fino a una futura revisione degli statuti attraverso nuove leggi costituzionali d’intesa con le Regioni interessate.
La riforma rinforza l’idea di una concorrenza politica che s’incentra sui partiti e non sui candidati, e non garantisce il funzionamento di un regime genuinamente democratico che coinvolga l’elettore.

Sulla base dell’esperienza del Senato degli Stati Uniti – composto di 100 parlamentari- 2 per ogni Stato, in l’Italia si sarebbe potuto pensare ad un Senato composto da 60 a 80 parlamentari, 3 o 4 per ciascuna regione, direttamente eletti. Si sarebbe così compiutamente realizzata l’idea di accrescere la rilevanza di ciascuna regione, indipendentemente dalla sua popolazione che è invece la caratteristica della Camera dei Deputati.

Anche se può non essere immediatamente comprensibile, la diversità delle regioni italiane è un patrimonio da preservare ed arricchire e non da ridurre (Putman Robert D. 1994. Making Democracy Work: Civic Traditions in Modern Italy. Princeton University Press; Phillips Katherine W. 2014. How Diversity Makes Us Smarter. Scientific American October).

e. Il contenimento dei costi

L’attività politica e il funzionamento di un sistema democratico costituiscono un costo che il cittadino sostiene. Il finanziamento privato dell’attività politica – e in generale il ruolo del denaro in politica – deve essere limitato e trasparente e non ostacolare la concorrenza democratica. Il finanziamento pubblico della politica– a carico del cittadino che paga le tasse – per il mantenimento del sistema democratico non deve creare spechi, inefficienze e rendite (Zamora Kevin Casas and Daniel Zovatto. 2015. The Cost of Democracy: Campaign Finance Regulation in Latin America. Latin American Initiative, Brookings Institution).

L’eliminazione del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro (CNEL) – un organismo riconosciuto dalla Costituzione – costituisce una soluzione indubbiamente positiva per ridurre i costi dell’apparato statale ed eliminare Enti che esercitano funzioni scarsamente rilevanti. Il CNEL è generalmente considerato un “ente inutile”, che non e mai stato messo in condizione di svolgere efficacemente la sua funzione di organo indipendente di consulenza tecnica per il Parlamento.

La diminuzione del numero dei parlamentari (i senatori passano da 315 a 100) può essere altresì considerata positiva nell’ottica di un risparmio per il funzionamento dell’ordinamento. Tuttavia, il minor costo – peraltro opinabile e che comunque appare non significativo – comporta lo scadimento della rappresentatività territoriale, accentua il decisionismo della maggioranza, e presenta il rischio d’instabilità determinata da decisionismi nel tempo che si annullano tra di loro.
Peraltro i costi derivanti dall’attuazione dell’eventuale modifica della Costituzione e dai possibili ricorsi giurisdizionali –principalmente tra Stato e Regioni- rimangono un’incognita.

La riduzione dei costi della gestione dello Stato è da valutare positivamente. Tuttavia, il risparmio finanzario non compensa il “costo” ingente di ridurre o eliminare importanti principi fondamentali, come abbiamo visto sopra. Peraltro il contenimento dei costi si sarebbe potuto conseguire in vari altri modi, ad esempio riducendo ulteriormente il numero dei senatori (a 60 o 80), diminuendo il numero dei rappresentanti alla Camera (ad esempio dagli attuali 630 a 435 come nel caso degli Stati Uniti che ha una popolazione 6 volte quella dell’Italia) ed eliminando 2/5 dei giudici della Corte Costituzionale (i giudici costituzionali passerebbero da 15 a 9 come nel caso della Corte Suprema degli Stati Uniti).

Qualità delle Istituzioni, Governance, Corruzione e Crescita Economica

La governance – come detto, le modalità di esercizio del potere – presenta vari aspetti operativi come la scelta e il rimpiazzo del Governo; l’utilizzo del potere; la capacità del Governo di adottare e realizzare politiche pubbliche; il rispetto dei cittadini e delle istituzioni che regolano le interazioni tra i cittadini. La Tavola 1, qui di seguito, sottolinea alcuni indicatori di Governance – elaborati dalla Banca Mondiale per il periodo 2008-2015 – per vari paesi avanzati (nota 8).

Tavola 1- Indicatori di Governance

tavola1

Sources: EIU, 2015; World Bank, 2015; The World Economic Forum, 2015; Transparency International, 2015; The Heritage Foundation, 2015.

 

La Tavola 1 mostra in modo molto evidente che l’Italia, in molti indicatori (ad esempio quello dell’accountability, quello dell’effettività del Governo), occupa posizioni lontane da quelle dei paesi avanzati .

Per quanto riguarda la corruzione – definita dalla Banca Mondiale “l’abuso dell’ufficio pubblico per gudagni privati” – la ricerca con verifiche empiriche ha sostanzialmente confermato che quando la governance e le istituzioni non funzionano, lobbies, denaro e corruzione hanno buon gioco ad impossessarsi dei meccansmi decisionali e dirigerli nel proprio interesse e la governance è ulteriormente indebolita (Kaufmann, Daniel. 2005. Myths and Realities of Governance and Corruption. Global Competitiveness Report 2005-06 (October 2005): pp. 81-98). Un elevato livello di corruzione significa che il potere pubblico è esercitato per guadagni privati (ad esempio attraverso opere pubbliche, politiche, regolamentazione) di modo che lo Stato è ”catturato” da intesssi privati che esercitano un ruolo “estrattivo” delle risorse pubbliche (Acemoglu, Daron and James Robinson. 2012. Why Nations Fail, Crown Business).

Grafico 1 – Indicatori di Corruzione nelle Principali Economie

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) - World Bank Governance Indicators 2015

Estimate of governance (ranges from approximately -2.5 (weak) to 2.5 (strong) governance performance) – World Bank Governance Indicators 2015

Il Grafico 1 mostra, per il periodo 1996-2015, gli indicatori delle prestazioni dei vari paesi in materia di corruzione – che variano tra -2.5 (debole) e +2.5 (forte) – e si può facilmente visualizzare la modesta posizione dell’Italia affiancata alla Grecia.
La Tavola 1 ed il Grafico 1 mostrano che la situazione della governance e corruzione in Italia è pericolosa non solo per un corretto funzionamento democratico, ma anche per per lo sviluppo economico. In realtà, lobbies, denaro e corruzione s’intrecciano e determinano comportamenti diretti a premiare interessi particolari non sempre allineati con l’interesse generale e con la crescita economica (Kuhner Timothy K. 2014. Capitalism v. Democracy Money in Politics and the Free Market Constitution, Standford University Press). La situazione per l’Italia non è migliore in materia d’indicatori della rule of law, vedi nota 1 e Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2016. Washington, D.C. The World Justice Project.

I dati italiani su governance e corruzione (uno degli indicatori della governance) testimoniano altresì lo slegamento tra eletti ed elettori e l’alienazione dei cittadini elettori che si sentono estranei e non partecipi al sistema giuridico-politico. Ogni Governo dovrebbe seriamente preoccuparsi di migliorare i parametri della governance.

La riforma costituzionale sottoposta al referendum comporterà – se approvata – il ruolo dominante della maggioranza e dell’Esecutivo, una riduzione di pesi e contrappesi e un affievolimento della rule of law e presumibilmente produrrà un ulteriore distacco di molti elettori dalla politica. Pertanto, non è improbabile che lobbies, denaro e corruzione avranno un peso maggiore e che si formi un gruppo di potere e di sostegno finanziario che determinerà le sorti di molte iniziative. Di conseguenza, gli indicatori della governance non solo rischiano di non migliorare, ma addirittura di peggiorare.

Sotto il profilo delle implicazioni economiche, la ricerca, attraverso verifica empirica, sostanzialmente concorda che una democrazia partecipativa e istituzioni autorevoli e legittime- piuttosto che governi autocratici – particolarmente in società che presentano diversità e divisioni (etniche, linguistiche, geografiche, e altre divisioni) – hanno un impatto positivo sullo sviluppo economico (Rodrik Dani. 2000. Participatory Politics, Social Cooperation, and Economic Stability. The American Economic Review Vol. 90, No. 2, Papers and Proceedings of the One Hundred Twelfth Annual Meeting of the American Economic Association (May), pp. 140-144). Istituzioni democratiche riducono l’impatto negativo che corruzione e denaro nel processo politico esercitano sulla crescita evonomica (Drury, A.C., Krieckhaus, J. and Lusztig, M., 2006. Corruption, democracy, and economic growth. International Political Science Review, 27(2), pp.121-136).
L’impatto della riforma costituzionale sopposta a referendum sulla crescita economica dipenderà dalla “qualità” delle istituzioni che usciranno se la riforma costituzionale sarà confermata dal referendum (Venard Bertrand. 2013. Institutions, Corruption and Sustainable Development. Economics Bulletin, 33 (4), pp.2545-2562).

Naturalmente previsioni economiche in generale e nello specifico debbono essere caute. Tuttavia, dalle considerazioni sviluppate più sopra, appare probabile che la riforma costituzionale sottoposta al referendum avrà un impatto negativo sulla “qualità” delle istituzioni e sul loro funzionamento e di conseguenza implicazioni non favorevoli per la crescita economica italiana.

Ulteriori Considerazioni

Nessun ordinamento giuridico e sistema politico è perfetto e ogni decisione comporta uno scambio – trade-off – tra principi, valori ed obiettivi.

In un sistema sostanzialmente funzionante come si può considerare quello degli Stati Uniti, il sistema dei checks and balances è una garanzia per la minoranza, anche se costituisce un meccanismo che rallenta i cambi e tende a proteggere rendite di posizione.
Recentemente – con un’ interpretazione estensiva della Corte Suprema – negli Stati Uniti è stata introdotta la possibiltà di contributi finanziari illimitati ed anonimi a partiti e candidati. Tale possibilità accentua il ruolo che il denaro e le lobbies già esercitano sul processo politico e sta corrompendo il sistema e minando la concorrenza e il funzionamento democratico e il rapporto tra eletti ed elettori (come le attuali elezioni presidenziali stanno evidenziando).
Tuttavia, il mantenimento di checks and balances a tutela della minoranza, il rispetto del principio della rule of law, nonchè l’elezione diretta dei rappresentanti rimangono capisaldi per assicurare il corretto funzionamento del sistema democratico e in qualche modo limitare il ruolo di lobbies e denaro nella politica e la corruzione.

Inerente al meccanismo di pesi e contrappesi, è che la neccessità di ampio consenso – auspicato particolarmente per modifiche a principi, valori e regole – può comportare compromessi non salutari per l’ordinamento democratico – i c.d. “inciuci”- che determinano o perpetuano privilegi e rendite di posizione.
Altro pericolo è che i rappresentanti possono non rispondere alle esigenze degli elettori che rappresentano.
Lo stretto collegamento tra elettori ed eletti consente in principio agli elettori di sanzionare i comportamenti degli eletti.

Peraltro, il continuo corretto funzionamento democratico dipende molto dalla libertà di giudizio ed integrità dei parlamentari nel rappresentare gli interessi nazionali (Deputati) e territoriali (Senato) a cui corrisponde un senso diffuso di onestà nella società e di controlli sull’attività governativa. In tale ottica, è importante che nel disegnare un sistema politico e le istituzioni rappresentative si stabiliscano gli incentivi che permettano che i pregi sopra menzionati emergano e vengano valorizzati; che si svolga una concorrenza delle idee; e che il meccanismo sia capace di generare controlli e sanzioni.

In definitiva, appare fondamentale che gli eletti siano espressione diretta degli elettori e dipendano dagli elettori per il mantenimento della loro posizione. Ciò consente un migliore controllo democratico dell’elettore nei confronti dei suoi rappresentanti che può svolgere un ruolo significativo anche in presenza di interventi finanziari nella politica.

Conclusioni

Per quanto riguarda la prima domanda – quale sono le conseguenze politico-giuridiche della proposta riforma costituzionale? – la riforma costituzionale sottoposta al referendum – se approvata- ridurrà pesi e contrappesi e rinforzerà il ruolo predominante della maggioranza e dell’Esecutivo. Presumibilmente, ciò produrrà una concentrazione del potere, ed ulteriore distacco di molti cittadini dalla politica.

Per quanto riguarda la seconda domanda – quale è l’impatto per la crescita economica del Paese? – l’impatto economico della proposta di riforma costituzionale dipenderà principalmente dalla “qualità” delle istituzioni che risulterebbero in caso la riforma fosse approvata. La proposta riforma costituzionale – se approvata – consentirà l’accentramento di un potere rilevante nell’Esecutivo e può determinare conseguenti cicli d’instabilità e peggioramento della qualità istituzionale e della governance. In tale contesto lobbies, denaro e corruzione influenzeranno molti iniziative con negative ripercussioni sulla crescita economica del Paese.

In conclusione, le argomentazioni di quest’articolo permettono di giungere alla conclusione che esiste un collegamento tra i vari aspetti esaminati e sopratutto tra l’esigenza di un largo consenso per modifiche costituzionali ed il controllo dell’elettore sugli eletti. In tale prospettiva, sembra ragionevole pensare che una riforma costituzionale “migliorata” potrebbe aumentare la probabiltà di un effetto positivo sulla crescita economica.
Appaiono ragionevoli modifiche nel senso dell’elezione diretta dei senatori su base regionale (3 o 4 senatori per ogni regione) – che sostanzialmente equivale ad un sistema uninominale che bilancerebbe il sistema di più di un candidato eletto nei singoli collegi elettorali per la Camera; opportuni correttivi per un più efficiente funzionamento dell’approvazione delle leggi, senza però intaccare in maniera significativa l’uguaglianza di funzioni delle due Camere.
Tale impostazione consentirebbe quel largo consenso necessario quando si modificano principi e regole alla base dell’ordinamento; e permetterebbe di compattare il paese e fornire nuovo slancio, invece di dividerlo. Purtroppo, l’impressione è che la campagna referendaria non è basata sulla sostanza dei cambi e le implicazioni, sopratutto a medio e lungo termine. Insomma, il Paese sta perdendo un’ennesima occasione per ammodernarsi seriamente.


Note
(1) La definizione del concetto rule of law è ampia e complessa. Il World Justice Project (WJP) computa annualmente il punteggio e la graduatoria dei vari paesi, vedi Agrast, M., Botero, J., Ponce, A. 2016. World Justice Project Rule of Law Index 2015. Washington, D.C. The World Justice Project. In prima approssimazione, per rule of law s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti.
(2) Il referendum sulla legge di modifica della Costituzione si rende necessario perchè la legge è stata approvata con una maggioranza semplice e non con quella dei 2/3 che costituisce la misura dell’ampio consenso.
(3) Per rule of law – vedi nota 1- s’intende che tutti i membri della società sono soggetti alla legge – incluso l’Esecutivo- e che la legge dipende da principi e valori comuni e prestabiliti. Per rule by law s’intende ogni atto del Governo che impone certi comportamenti in modo arbitrario e discriminatorio.
(4)Ad eccezione della legge di Bilancio che è proposta dal Presidente
(5) Nell’accezione anglo-sassone per Government – Governo- s’intende tutto l’apparato che gestisce lo Stato e comprende l’Esecutivo (la Presidenza), il Congresso, e il Sistema giudiziario.
(6) Esistono molte conferme dell’operatività di pesi e contrappesi nel sistema americano, sicchè non è necessaria l’elezione di Donald Trump alla Presidenza per un’ulteriore verifica.
(7) Dopo la nascita della Repubblica Italiana, nel 1946 fu approvata la legge proporzionale che, salvo piccole modifiche, ha regolato lo svolgimento delle elezioni politiche italiane fino al 1993.Per l’elezione della Camera dei deputati, il territorio nazionale era suddiviso in 32 circoscrizioni plurinominali assegnatarie di un numero di seggi variabile a seconda della popolazione; ogni elettore aveva a disposizione un massimo di quattro voti di preferenza. Il sistema elettorale per il Senato della Repubblica prevedeva correttivi in senso maggioritario, mantenendo un carattere ampiamente proporzionale. La legge Mattarella, in vigore fra il 1993 e il 2005, introdusse un sistema elettorale ibrido: a.maggioritario uninominale a turno unico per i tre quarti dei seggi del Senato e i tre quarti dei seggi della Camera; b.ripescaggio proporzionale dei più votati fra i candidati non eletti per l’assegnazione del rimanente 25% dei seggi del Senato; c. proporzionale con liste bloccate e soglia di sbarramento al 4% per il rimanente 25% dei seggi della Camera. Nel 2015, per l’elezione della Camera dei Deputati, è stato approvato un nuovo sistema elettorale attualmente vigente – l’«Italicum» – operativo a partire dal 1º luglio 2016, che prevede un meccanismo proporzionale con sbarramento al 3% e premio di maggioranza, (o di governabilità). La lista vincitrice può ottenere fino a 340 deputati, corrispondenti al 54% dei seggi della Camera, qualora abbia ottenuto almeno il 40% dei consensi a livello nazionale; ove tale circostanza non si verifichi, il premio di governabilità è attribuito dopo un ballottaggio fra le due liste più votate. Il numero dei seggi assegnati a ciascun partito è determinato sulla base dei suffragi ottenuti sul territorio nazionale. Le candidature sono presentate all’interno di venti circoscrizioni regionali, suddivise complessivamente in 100 collegi plurinominali, a ciascuno dei quali spetta un numero prefissato di seggi compreso fra tre e nove. Fanno eccezione i nove collegi uninominali delle circoscrizioni Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige. Ogni elettore, nell’ambito della lista prescelta, ha due voti di preferenza per candidati che non siano i capilista. In ogni collegio, nel limite dei seggi spettanti in proporzione a ciascun partito, sono eletti i capilista e i candidati che hanno conseguito il maggior numero di preferenze.
(8) Per una critica degli indicatori di governance, vedi Thomas, M.2010. What do the Worldwide Governance Indicators Measure? European Journal of Development Research 22, 31-54.


Bibliografia essenziale

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L’ignoranza politica e la Brexit

L’ignoranza politica e la Brexit

di Pietro Masci*

Il Regno Unito con il referendum del 23 giugno ha scelto di uscire dall’Unione Europea (UE). Una scelta democratica espressa dal 52% dei votanti con una partecipazione al voto pari al 72% degli aventi diritto al voto.
Il Regno Unito era entrato nell’Unione Europea nel 1972. Nel 1975, gli inglesi indissero un referendum popolare per l’entrata nell’UE, dove il 67% fu a favore con una partecipazione al voto pari al 65%. Dopo oltre 40 anni, gli elettori inglesi hanno cambiato idea. L’instabilità è una prerogativa democratica e merita grande rispetto.
Vale la pena sottolineare che il Regno Unito, dal momento in cui saranno concluse le procedure di ritiro sarà un paese terzo all’Unione Europea.

Cerchiamo di evidenziare gli aspetti principali di questa complessa vicenda: la tradizione inglese dei rapporti con l’Europa; la diffusione nel mondo dell’ignoranza politica, vale a dire la situazione di un pubblico disinformato che costituisce il tema conduttore di questo articolo; le implicazioni per il Regno Unito, e per gli Stati Uniti; quelle per l’Europa e per l’Italia.

Sotto il profilo storico, la partecipazione inglese al progetto europeo, pur promovendo liberismo economico e riduzione del ruolo dello Stato, è stata sempre abbastanza ambigua con numerose eccezioni che hanno indebolito la coesione europea.
Un pilastro della politica estera inglese nel corso dei secoli è stato sempre quello di interessarsi principalmente delle colonie e del commercio internazionale e disinteressarsi delle vicende europee. L’attenzione inglese si è rivolta all’Europa continentale quando nel continente si è manifestata la minaccia di una potenza egemone – Spagna nel XVI secolo, la Francia di Napoleone, la Germania di Hitler- che potesse compromettere gli interessi commerciali globali del Regno Unito. Queste considerazioni storiche riecheggiano nelle affermazioni dei promotori dell’uscita dall’Unione Europea – Farage e Johnson – che sostengono che il Regno Unito ha riconquistato la propria indipendenza e il paese potrà ora esercitare il ruolo mondiale che le compete.

Per quanto riguarda il tema dell’ignoranza politica, recentemente, negli Stati Uniti, è uscito un libro – Democracy and Political Ignorance: Why Smaller Government Is Smarter – che puntualizza il tema dell’ignoranza politica (e direi non solo) negli Stati Uniti e che si applica analogamente ad altri paesi. L’autore – Ilya Somin – studia il collegamento tra l’ignoranza politica e l’influenza sproporzionata dei gruppi di potere, e rivela un grave pericolo per la democrazia.
A proposito di questo libro, nella sua seconda edizione (la prima edizione è stata pubblicata anche in italiano), vi sono molte considerazioni che vanno anche al di là di questo articolo. Tali considerazioni riguardano l’emergere – a livello mondiale – di una classe politica impreparata e senza etica, ideali e scrupoli, ostaggio di grandi interessi economici e finanziari che attraverso le moderne tecniche di propaganda riescono a promuovere i propri interessi. D’altra parte, l’elettorato – sopratutto quello meno sofisticato – si sente trascurato, vede minacce economiche, di sicurezza, terrorismo, immigrazione dai quali non si sente protetto da politici e non ha fiducia nei c.d. esperti visti come un’estensione dei politici spregiudicati. In tali circostanze, altri politici riescono ad interpretare le insoddisfazioni e lavorano per dar loro espressione politica, spesso con scelte politiche radicali. Trump negli Stati Uniti ne è il perfetto esempio. L’ignoranza politica nella quale prosperano politici ugualmente ignoranti e senza scrupoli andrebbe analizzata assieme ad un altro aspetto che sembra consolidarsi – quello della democrazia autoritaria,- fenomeno non limitato esclusivamente ai paesi meno avanzati.
Nel caso del referendum nel Regno Unito, l’ignoranza politica ha giocato un ruolo rilevante, considerato che i dati mostrano che le persone meno istruite hanno votato per lasciare l’Unione Europea. Nè va trascurata la circostanza che la stragrande maggioranza – il 75% – dei giovani tra i 18 e i 24 anni hanno votato a favore di rimanere nell’Unione Europea.
L’ignoranza politica ha battuto la razionalità: i vari sondaggi sul voto e le aspettative dei mercati finanziari che davano al 25% le probabilità che vincesse l’opzione dell’uscita (il giorno prima del referendum le borse erano salite di oltre l’1%). L’uccisione della parlamentare Cox da parte di un esaltato nazionalista non sembra aver avuto alcun impatto sul voto a favore dell’Unione Europea. Quanto ai principali esponenti politici coinvolti nel voto inglese, non mi sembra intravedere un elevato livello di preparazione civica, etica e politica, ma diffusa mediocrità dei personaggi politici protagonisti. Da una parte, Cameron ha fatto errori di calcolo giganteschi. Non solo -come peraltro prevedibile- ha posto in secondo piano gli interessi europei a quelli del suo partito, ma sopratutto non ha compreso l’atteggiamento preoccupato dell’elettorato inglese più fragile, delle paure della classe media che hanno reso possibile la vittoria dell’uscita dall’Unione Europea. Inoltre, Cameron ha invitato il Presidente Obama a parlare a favore del voto per rimanere in Europa e il risultato – come non era tanto difficile prevedere- è stato quello di accentuare l’opposizione del pubblico verso l’Unione Europea. Il leader laburista Corbyn – che in un’alleanza spuria con Cameron avrebbe dovuto presentare un caso cogente per rimanere in Europa ed era ragionevole attendersi che avrebbe portato passione ed entusiasmo – ha brillato per la sua assenza, come se il tema non fosse rilevante per lui e per il suo partito. Il parlamentare Chuka Umunna ha criticato la leadership del signor Corbyn durante la campagna referendaria, dicendo che: “Il nostro attaccante principale, spesso non era in campo, e quando c’era, non è riuscito a mettere la palla in rete.” Una campagna a favore dell’Unione Europea surreale.
Dall’altra parte, Farage e Johnson – i vincitori – hanno basato la campagna su generalizzazioni e imprecisioni, ancorchè presentate sotto il profilo – corretto – della mancanza di partecipazione democratica nel sistema dell’Unione Europea

Quanto alle implicazioni dell’uscita, per il Regno Unito, sotto il profilo economico, perlomeno nel breve termine, gli inglesi dovranno fare i conti con instabilità e incertezza politica (non si sa chi potrebbe essere il leader del Partito Conservatore; se si dovrà andare a nuove elezioni; mentre il Partito Laburista ha di fatto perso il referendum e dubita sulle capacità del suo capo Corbyn) ed economica. Non è da escludere che l’elettorato inglese si renderà conto che il voto non costituisce la ricetta magica che cambia la situazione dalla notte al mattino. Esistono, e sono state presentate al pubblico inglese prima del voto per l’uscita dall’Europa, varie stime di declino del Prodotto Interno Lordo, aumento dei costi per ricorsi a prestiti e possibili misure di austerità. È recentissima la dichiarazione di Standards and Poors che dopo il voto per l’uscita dall’Unione Europea, il Regno Unito perderà il rating AAA; e quella dell’agenzia Moody che ha abbassato il rating obbligazionario del governo inglese da stabile a negativo alla luce dell’incertezza che esiste in merito agli accordi commerciali che determineranno lo status del Regno Unito dopo l’uscita dall’Unione Europea.

Viene da domandarsi come potrà la parte più debole dell’elettorato inglese che ha votato per l’uscita -vale a dire persone più anziane, pensionati, lavoratori colletti blu che soffrono la globalizzazione e anche l’immigrazione – far fronte ad una caduta dell’attività economica. C’è da sperare che i fautori dell’uscita abbiano un progetto e un piano al riguardo che non sia solo quello di utilizzare i contributi inglesi al bilancio comunitario, vale a dire 8 miliardi di sterline al netto dello sconto che viene praticato al Regno Unito e degli acquisti dell’Unione Europea nel Regno Unito (Carl Emmerson, Paul Johnson, Ian Mitchell, David Phillips. Brexit and the UK’s Public Finances. IFS Report 116, May 2016). Rimane poi il dubbio che il gruppo maggioritario che ha portato alla vittoria l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea costituisca una solida e dinamica forza sociale capace di gestire una transizione che rischia di essere costosa e anche lunga.
Sotto il profilo politico–internazionale, le possibili implicazioni a breve, medio termine e lungo termine, per il Regno Unito, comprendono:
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con l’Unione Europea, o quantomeno una posizione per l’accesso al mercato commune dell’Unione Europea?;Questo punto appare il più importante, considerati gli interessi commerciali inglesi. Al momento si possono intravedere tre possibilità:
– Che il Regno Unito ottenga una posizione speciale analoga a quella della Norvegia- un paese non membro dell’Unione Europea- che ha accesso al mercato comune sottoponendosi alle regolamentazioni dell’Unione Europea e al pagamento di contributi, vale a dire proprio i punti sul quale si è giocato il referendum per l’uscita.
– Che il Regno Unito ottenga un trattamento di accesso al mercato unico limitato, del tipo di quello del Canada.Questo costituirebbe una soluzione possibile, ma da negoziare.
– Che il Regno Unito venga trattato alla stregua dei paesi terzi (ad esempio Russia, Cina, Brasile) e per l’accesso al mercato valgano le regole del World Trade Organization (WTO).
• Come e quando il Regno Unito avrà un trattato di libero scambio con gli Stati Uniti?;
• Londra rimarrà un centro finanziario mondiale?
• Altre parti del Regno Unito che hanno votato per restare in Europa- la Scozia e l’Irlanda del Nord- – accetteranno di rimanere parte del Regno Unito, o chiederanno l’indipendenza?
• Quanto a lungo il Regno Unito riuscirà a mantenere il rango di quinta potenza economica mondiale?;
• Chi sosterrà ancora la logica che il Regno Unito sia membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU?.
Nè va sottovaluta la circostanza che anche la “Nuova Argentina” di Macri possa continuare a rivendicare le Malvine in un contesto internazionale più favorevole e con un Regno Unito più debole date le incertezze della guida politica.
Inoltre, la Spagna, potrebbe intraprendere con maggiore determinazione l’azione “para retomar el penon de Gibraltar”.
Peraltro, non è da escludere che le azioni contro la “perfida Albione” trovino simpatia e sostegno.

L’esito del referendum lascia il Regno Unito profondamente diviso, senza guida politica, con grandi rischi economici e finanziari, e addirittura ripensamenti (si stanno raccogliendo le firme per un secondo referendum). Insomma, una situazione complessiva d’incertezza che l’ignoranza politica di elettori e politici ha generato.

Per quanto riguarda le implicazioni per gli Stati Uniti, è presumibile che il Regno Unito punterà a rafforzare ulteriormente i legami oltre-Oceano. Sotto il profilo economico, specialmente nel breve periodo, l’impatto dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea non dovrebbe essere significativo per gli Stati Uniti, salvo comportare un apprezzamento del dollaro con effetti non desiderati sulla caduta delle esportazioni ed aumento delle importazioni americane, turbulenze sui mercati finanziari; ritardo dell’aumento dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve. Per il momento non si ritiene che l’uscita del Regno Unito possa determinare una nuova recessione economica. Si ritiene, tuttavia, che l’impatto dell’uscita del Regno Unito sarà distribuito nel tempo. Sotto il profilo politico, negli Stati Uniti prevale l’impostazione che la relazione speciale tra Stati Uniti e Regno Unito continuerà; che la NATO e l’Europa costituiscono alleati indispensabili. C’è da domandarsi come il Regno Unito – fuori dell’Unione Europea – possa costituire un alleato effettivo sul quale gli Stati Uniti possono fare leva nei riguardi degli Europei continentali (si pensi al tema dei rapporti con la Russia). Pertanto, non è da escludere che una relazione più diretta tra Stati Uniti e Unione Europea – e sopratutto la Germania- venga consolidata. Quanto ai candidati presidenziali americani, Trump celebra il voto degli inglesi per uscire dall’Unione Europea e fa il parallelo con la ribellione contro il sistema che si sta registrando negli Stati Uniti. Clinton, più cautamente, è preoccupata per il clima d’incertezza e critica aspramente l’irresponsabilità di Trump.

Quanto agli scenari per l’Unione Europea, dopo il bagno di sangue finanziario dei prossimi giorni derivante dall’incertezza, ritengo che le prospettive nell’Unione Europea potranno migliorare perchè rimangono nell’Unione coloro che ci credono e desiderano restare. Non sono troppo convinto della fuga di catalani, polacchi, francesi, austriaci e vari altri, perchè i danni – compresa la diffusa incertezza- che il Regno Unito dovrà sostenere saranno significativi e visibili e faranno riflettere seriamente coloro che desiderano uscire dall’Unione Europea, L’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea farà perdere una spinta significativa verso una maggiore iniziativa individuale e il ruolo dei mercati. Tuttavia, faciliterà la coesione tra i paesi membri – come ad esempio nel campo del coordinamento delle politiche fiscali che il Regno Unito ha sempre osteggiato.
Il referendum inglese ha ricordato le carenze del progetto europeo, soprattutto la limitata democrazia e l’eccesivo intervento dello Stato. Questo è un momento fondamentale per i politici. Appare cruciale che i politici autentici – non quelli che guardano a vantaggi di breve termine- e i leali servitori dello Stato (come il nostro Draghi che sembra destinato a doversi occupare di problemi di colossali dimensioni) – sappiano afferrare le opportunità che l’uscita del Regno Unito presenta; siano in grado di riformare l’Unione Europea in senso più democratico e meno burocratico con una classe dirigenziale e amministrativa e dei c.d. esperti indipendente; siano in grado di ritrovare lo spirito dei Trattati di Roma del 1957, e rigenerare l’Unione Europea mantenendo le diversità che il Vecchio Continente presenta.
I leaders europei che possono far riprendere il cammino dell’Unione Europea sono vari, ma un ruolo primario lo dovrà svolgere la signora Angela Merkel – che peraltro ha già dichiarato che l’uscita del Regno Unito non significa disgregazione e che l’Unione Europea saprà trovare le risposte giuste. D’altro canto, i Presidenti del Consiglio, Commissione e Parlamento europeo – Donald Tusk, Jean-Claude Juncker e Martin Schulz, rispettivamente – e Mark Rutte, il primo ministro dei Paesi Bassi, che detiene la presidenza di turno dell’Unione europea, hanno dichiarato che qualsiasi ritardo per l’uscita della Gran Bretagna equivale a “inutilmente prolungare incertezza”.
Mi pare fondamentale che i paesi dell’Unione Europea dimostrino coesione nel come procedere nei negoziati per l’uscita del Regno Unito ed i suoi tempi per ridurre l’incertezza; e nel determinare l’essenziale aspetto dello status futuro del Regno Unito. Chiarezza e determinazione appaiono fondamentali per eliminare le fragilità che possono derivare dal voto inglese ed i tentativi d’imitazione e sconfiggere le predizioni di un effetto domino. Infatti, al di là delle divisioni all’interno del paese, le tradizioni storiche del Regno Unito non possono non suscitare l’idea che l’obiettivo inglese rimane quello di eliminare l’Unione Europea e tornare agli stati-nazione in modo tale da non pagare nessuna conseguenza, sopratutto sotto il profilo economico, finanziario, commerciale e politico dell’uscita dall’Unione Europea.

Per l’Italia – purtroppo in una situazione di fragilità e incertezza – si apre una grande opportunità – di essere – a fianco di Germania e Francia – uno dei pilastri di una “rigenerata Europa”. È sperabile che i politici italiani non riescano nella difficile impresa di essere emarginati e comprendano la lezione che la risposta al referendum inglese è: più democrazia, meno Stato, più politici preparati, responsabili e con valori etici e più indipendenza della classe dirigente. Questa sembra la ricetta per combattere l’ignoranza politica e costruire uno stabile e duraturo sistema democratico europeo.

 

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

di Pietro Masci*

Con il voto del 15 marzo in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio – dopo che avevano votato Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada, Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Hawaii, Idaho, Washington DC, Wyoming – oltre la metà  degli stati ha espresso le sue preferenze.

Nel campo repubblicano, Donald Trump ha finora ottenuto 678 delegati, Ted Cruz 423, Marco Rubio (che ha sospeso al sua campagna presidenziale dopo la sconfitta nel suo stato, la Florida) 164, John Kasich 143.

Nel campo democratico, Hillary Clinton ha finora ottenuto 1614 delegati, Bernie Sanders 856. I voti comprendono 573 c.d. super-delegati (scelti dal partito), 467 dei quali si sono schierati per Clinton e 26 per Sanders.

I delegati necessari per ottenere la nomina del partito repubblicano sono 1237 e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 1134. Pertanto Trump (ottenendo circa il 50% dei delegati ancora disponibili), Cruz (ottenendo circa il 75% dei delegati disponibili) e teoricamente anche Kasich possono raggiungere il numero di delegati necessario per ottenere la nomina del partito repubblicano come candidato alla Presidenza.

Nel caso del partito democratico, i delegati necessari per ottenere la nomina sono 2383, e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 2295. Pertanto la nomina è alla portata di Clinton, ma è piu’ difficile da raggiungere per Sanders.

L’elemento comune ai due partiti è che tutti i candidati attualmente in corsa hanno dichiarato che intendono arrivare ai rispettivi Congressi che si terranno il 18-21 luglio a Cleveland per i repubblicani,e il 25- 28 luglio a Filadelfia per i democratici. Cio’ significa che i candidati non ritengono chiusa la corsa alla nomina –malgrado il chiaro vantaggio rispettivamente di Trump e Clinton. Si apre la possibilità  – maggiormente per i repubblicani, ma anche per i democratici – di arrivare ai Congressi senza che nessun candidato abbia raggiunto un numero di delegati sufficiente ad assicurare la nomina.

Tale situazione è legata all’incertezza che circonda i candidati  principali.

Trump deve fare i conti con l’insofferenza di gran parte dell’apparato del partito repubblicano che osteggia la sua candidatura. Mitt Romney – il candidato republicano che si era presentato nel 2012 contro Obama – ha affermato che Trump è un “truffatore”. Addirittura, Romney ha dichiarato che esiste una competizione tra “Trumpismo” e “Republicanismo” e che il Trumpismo è associato a caratteristiche che non appartengono al Partito Repubblicano (razzismo, misogenia, bigotteria, volgarità e violenza). Altri autorevoli rappresentanti del partito repubblicano si muovono tra due opzioni: fermare Trump prima del Congresso di Cleveland (ed in tale prospettiva Cruz emerge, anche se con una certa riluttanza, come il candidato del partito), o addirittura creare un terzo partito. A tali impostazioni, Trump risponde che se si tenterà di fermare la sua nomina al Congresso, si rischia di scatenare sommosse.

Quanto a Clinton, esistono due circostanze che possono influenzare la sua nomina: la presenza dei c.d. super-delegati designati dal partito che potrebbero determinare la scelta del candidato presidenziale a suo favore, rafforzando l’immagine di un sostegno da parte dell’apparato, ma non dei cittadini. Tuttavia, l’aspetto piu’ significativo è la possibilità che Clinton venga rinviata a giudizio per l’utilizzo – durante il periodo nel quale era Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Obama – di un sistema privato di posta elettronica e pertanto non potrà partecipare come candidato.

Il processo del voto americano per l’elezione del Presidente è molto lungo, pieno di sorprese e stavolta come non mai. Durante il percorso, la maggioranza dei candidati si perde (ad esempio i candidati repubblicani erano inizialmente 17); coloro che rimangono si modificano, si affinano, articolano meglio il loro messaggio. La campagna presidenziale negli Stati Uniti consente di analizzare a fondo le posizioni dei candidati – ed il loro passato – e verificare l’impatto che determinate proposte ha sulle diverse componenti della popolazione (ad esempio l’elettorato femminile, quello etnico, incluso i c.d. latinos) oltre che nei diversi stati.

Però, il rischio rimane che si verifichi – o si accentui – la polarizzazione e che non emerga un candidato in grado di unire il paese. Le divisioni aumentano con la recente nomina da parte del Presidente Obama di Merrick Garland come giudice della Corte Suprema per sostituire il conservatore Antonin Scalia. La maggioranza dei senatori repubblicani, che controllano il Senato che decide sulle nomine, ha già affermato che non prenderà  in considerazione la nomina di Garland.

Gli Americani comunque si rendono conto della grande importanza di queste elezioni e stanno accorrendo numerosi a votare, come mai in passato, ad eccezione del 2008 (elezione del Presidente Obama, ugualmente storica). Tuttavia, rispetto al 2008, la situazione si è ribaltata: sono i repubblicani che accorrono più numerosi alle urne nelle primarie.

In tale contesto, Trump e Sanders – in modi diversi – stanno portando nuovi elettori alla politica. Sanders attrae i giovani – i c.d. Millenials – e una parte di coloro che sono stati penalizzati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e finanziaria. Trump richiama gli indipendenti che preferiscono come rappresentanti persone comuni e con esperienza e non i politici; gli attuali c.d. Reagan democrats – i democratici di Reagan (elettorato democratico che negli anni 80’ voto per Reagan) – vale a dire i colletti blu, lavoratori che incontrano varie difficoltà economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione e dall’emigrazione. Questo fenomeno è complesso e non è unidirezionale, ma trasversale nel senso che anche Trump attrae i giovani e anche Sanders attrae i democratici di Reagan e gli indipendenti; e indica che Trump e Sanders sono apprezzati da cittadini che non presentano significative differenze e che sono rimasti, in passato, ai margini della politica e probabilmente non hanno votato.

Una parte significativa dell’elettorato percepisce di essere danneggiata dall’emigrazione; dagli accordi commerciali di libero scambio che accellerano la de-localizazzione delle imprese; e dalla crisi economica e finanziaria. Molti americani sono impauriti dal terrorismo e delusi dall’incerta politica estera del governo, sopratutto nel Medio Oriente. Inoltre, mentre circolano numerosi studi economici, e sociali che descrivono la situazione drammatica degli emigranti e dei rifugiati, non si trova un’analoga attenzione sopratutto sotto il profilo economico e politico verso quei segmenti della popolazione che hanno pagato – e pagano – per gli eventi sopra indicati.

Alcuni analisti identificano nella rabbia la caratteristica comune di questi elettori. In effetti, una buona parte dei cittadini americani che si dirigono verso Trump e Sanders sono delusi e arrabbiati (la tentazione di utilizzare un altro aggettivo piu’ colorito e’ grande) per i bassi salari, la disoccupazione o l’occupazione parziale, i bassi salari, le disuguaglianze, l’insicurezza,  l’incapacita’ degli Stati Uniti di operare con efficacia sulla scena internazionale; e ritengono i politici e gli apparati burocratici i maggiori responsabili.

Mark Muro and Siddharth Kulkarni del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution pongono in relazione la rabbia crescente di una quota importante dell’elettorato Americano con la caduta dell’impiego nell’industria manifatturiera negli ultimi 35 anni. Il grafico che segue visualizza il declino dell’impiego nel manifatturiero negli Stati Uniti determinato principalmente da de-localizzzione, globalizzzione, e automazione.

graficoUSA

Trump e Sanders prestano attenzione a questa parte dell’elettorato e rappresentano le novità nella politica americana. Sanders parla apertamente che il denaro compra le elezioni; propone il finanziamento pubblico dei partiti (un’affermazione che equivale a una bestemmia negli Stati Uniti); non rinnega le parole positive che negli anni 80’ ha avuto nei confronti di Fidel Castro e Ortega (pur riconoscendo che sono due dittature da non imitare).Trump polemizza aspramente e con un linguaggio espressivo con la television, la stampa, e i partiti. Peraltro il comportamento vistoso e le affermazioni e immagini iperboliche di Trump, se da una parte accentuano l’opposizione dell’apparato del Partito Repubblicano, dall’altra gli garantiscono il sostegno dei cittadini che si ribellano all’inazione dei “politici“. La principale ragione del sostegno a Trump è: “non è un politico e ci si puo’ fidare di lui”. Anche se non nella stessa misura, anche Sanders – senatore indipendente, non democratico, del Vermont – è percepito come un outsider.

I principi di questi due candidati sono certamente diversi: Trump s’ispira alla competizione aspra; Sanders alla realizzazione di opportunità per tutti. Tuttavia, le loro posizioni non sono completamente all’opposto, come si potrebbe credere (e per inciso questa è la ragione per la quale l’apparato del Partito Repubblicano ritiene che Trump snaturi il partito). Entrambi si oppongono alle guerre (ma Trump dichiara che aumenterà le spese militari); entrambi sono contrari al ruolo del denaro nella politica e alla decisione della Corte Suprema che consente contributi illimitati e anonimi (anche se Trump è meno specifico di Sanders su questo tema); entrambi si oppongono agli accordi di libero scambio. Trump e Sanders divergono sostanzialmente sulle politiche dell’emigrazione. Trump ripetutamente dichiara che con lui gli Stati Uniti faranno sempre affari vantaggiosi in ogni campo (e sopratutto nel commercio con paesi come Cina, Messico, Corea) e torneranno grandi e vincitori; incessantemente proclama che costruirà un muro al confine tra Stati Uniti e Messico (e il Messico pagherà  il costo della costruzione); deporterà gli immigrati illegali; e apertamente afferma che non consentirà ai mussulmani di entrare, almeno per un certo tempo, negli Stati Uniti. Sanders, invece, intende introdurre una nuova legge sull’immigrazione e permettere agli illegali che sono negli Stati Uniti (oltre 11 milioni) di poter perseguire la cittadinanza americana, naturalmente pagando le imposte.

Se eletto, Trump dichiara che eliminerà le riforme di Obama, inclusa la legge sulla copertura assicurativa per le malattie; e annullerà gli ordini esecutivi dell’attuale Presidente (ad esempio quello con il quale è stato ratificato l’accordo nucleare con l’Iran). D’altra parte, Sanders propone di aggiustare le disparità attraverso la tassazione fortemente progressiva.

Trump e Sanders sono accomunati dal non dipendere dai contributi dei grandi gruppi d’interessi che accentua l’indipendenza dei due candidati: Trump finanzia la campagna presidenziale con i suoi soldi; Sanders con milioni di piccoli contributi.

A proposito della base che appoggia Trump e Sanders, viene in mente Ralph Nader- un ottantenne attivista politico di sinistra e autore concentrato nell’area della protezione del consumatore, dell’ambiente e della democrazia effettiva – che nel 2000 si presento’ alle elezioni presidenziali come terzo candidato. La presenza di un candidato di sinistra come Nader tolse voti al candidato democratico Gore e non gli consenti – più del pasticcio della conta dei voti in Florida – di vincere l’elezione presidenziale contro Bush. Nel 2014, Nader ha scritto un libro – Unstoppable: The Emerging Left-Right Alliance to Dismantle the Corporate State – L’inarrestabile alleanza della destra e della sinistra contro lo stato corporativo al servizio delle grandi imprese. Nel libro, Nader s’incentra sulla reazione del pubblico americano – di destra e sinistra – contro l’apparato di potere. Le aree di comune interesse di destra e sinistra sono principalmente le politiche in tema ambientale, energetico, industrial-farmaceutico e militare, determinate dallo strapotere delle grandi imprese che controllano le scelte dei politici. Nader sostiene che è nell’interesse dei cittadini di diverse etichette politiche ad unirsi nella lotta contro lo stato corporativo che, se lasciato incontrollato, sarebbe portato a ignorare la Costituzione, eliminare i diritti fondamentali e le libertà del popolo Americano.

L’intuizione di Nader di un’alleanza tra destra e sinistra – che può apparire tanto improbabile – si può realizzare in un confronto a novembre tra Trump e Clinton. In effetti, nel caso la competizione presidenziale sia tra Trump e Clinton – che sembra lo scenario più probabile – non è affatto inconcepibile che i sostenitori di Sanders durante le primarie votino per Trump nell’elezione di novembre piuttosto che per Clinton, riversando verso Hillary l’avversione contro l’apparato dei partiti, i politici senza passione e autenticità. Cominciano a circolare interviste e piccole inchieste che sembrano confermare che il passaggio di elettori da Sanders sconfitto nelle primarie al candidato presidenziale Trump rappresenti una possibilità concreta. E la strategia della campagna di Trump – piena di generalità e slogans e con poche specifiche indicazioni delle politiche proposte – sembra perseguire l’obiettivo di attrarre vecchi e nuovi elettori insoddisfatti.

Queste considerazioni fanno sorgere una riflessione: può Trump vincere l’elezione presidenziale sostanzialmente con i soli voti dei “bianchi” (religiosi sopratutto evangelisti, conservatori, libertari, indipendenti, e insoddisfatti, vecchi e nuovi)? Le affermazioni di Trump sul muro al confine con il Messico e gli attacchi ai mussulmani – intercalati da rassicurazioni del tipo: “ho tanti amici ispanici e mussulmani” – non sembrano spianare la strada per costruire una larga e diversa coalizione e per evitare una spaccatura nel Paese.

D’altro canto, se la strategia di Trump non funzionasse, e Clinton venisse eletta, sarebbe in grado la prima donna Presidente degli Stati Uniti di superare il significativo clima di sfiducia che comunque l’accompagna?  E creare coesione tra le diverse componenti del Paese?

La domanda di fondo rimane la stessa: sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti in grado di ricompattare il paese? Naturalmente, la risposta a tale interrogativo ha implicazioni non solo per la politica interna, ma anche per la politica estera degli Stati Uniti.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma