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Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

Le elezioni Usa, a metà del ciclo delle Primarie

di Pietro Masci*

Con il voto del 15 marzo in Florida, Illinois, Missouri, North Carolina e Ohio – dopo che avevano votato Iowa, New Hampshire, South Carolina, Nevada, Alabama, Alaska, Arkansas, Georgia, Massachussets, Minnesota, Oklahoma, Tennessee, Texas, Vermont, Virginia, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Hawaii, Idaho, Washington DC, Wyoming – oltre la metà  degli stati ha espresso le sue preferenze.

Nel campo repubblicano, Donald Trump ha finora ottenuto 678 delegati, Ted Cruz 423, Marco Rubio (che ha sospeso al sua campagna presidenziale dopo la sconfitta nel suo stato, la Florida) 164, John Kasich 143.

Nel campo democratico, Hillary Clinton ha finora ottenuto 1614 delegati, Bernie Sanders 856. I voti comprendono 573 c.d. super-delegati (scelti dal partito), 467 dei quali si sono schierati per Clinton e 26 per Sanders.

I delegati necessari per ottenere la nomina del partito repubblicano sono 1237 e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 1134. Pertanto Trump (ottenendo circa il 50% dei delegati ancora disponibili), Cruz (ottenendo circa il 75% dei delegati disponibili) e teoricamente anche Kasich possono raggiungere il numero di delegati necessario per ottenere la nomina del partito repubblicano come candidato alla Presidenza.

Nel caso del partito democratico, i delegati necessari per ottenere la nomina sono 2383, e i delegati ancora disponibili nelle prossime primarie sono 2295. Pertanto la nomina è alla portata di Clinton, ma è piu’ difficile da raggiungere per Sanders.

L’elemento comune ai due partiti è che tutti i candidati attualmente in corsa hanno dichiarato che intendono arrivare ai rispettivi Congressi che si terranno il 18-21 luglio a Cleveland per i repubblicani,e il 25- 28 luglio a Filadelfia per i democratici. Cio’ significa che i candidati non ritengono chiusa la corsa alla nomina –malgrado il chiaro vantaggio rispettivamente di Trump e Clinton. Si apre la possibilità  – maggiormente per i repubblicani, ma anche per i democratici – di arrivare ai Congressi senza che nessun candidato abbia raggiunto un numero di delegati sufficiente ad assicurare la nomina.

Tale situazione è legata all’incertezza che circonda i candidati  principali.

Trump deve fare i conti con l’insofferenza di gran parte dell’apparato del partito repubblicano che osteggia la sua candidatura. Mitt Romney – il candidato republicano che si era presentato nel 2012 contro Obama – ha affermato che Trump è un “truffatore”. Addirittura, Romney ha dichiarato che esiste una competizione tra “Trumpismo” e “Republicanismo” e che il Trumpismo è associato a caratteristiche che non appartengono al Partito Repubblicano (razzismo, misogenia, bigotteria, volgarità e violenza). Altri autorevoli rappresentanti del partito repubblicano si muovono tra due opzioni: fermare Trump prima del Congresso di Cleveland (ed in tale prospettiva Cruz emerge, anche se con una certa riluttanza, come il candidato del partito), o addirittura creare un terzo partito. A tali impostazioni, Trump risponde che se si tenterà di fermare la sua nomina al Congresso, si rischia di scatenare sommosse.

Quanto a Clinton, esistono due circostanze che possono influenzare la sua nomina: la presenza dei c.d. super-delegati designati dal partito che potrebbero determinare la scelta del candidato presidenziale a suo favore, rafforzando l’immagine di un sostegno da parte dell’apparato, ma non dei cittadini. Tuttavia, l’aspetto piu’ significativo è la possibilità che Clinton venga rinviata a giudizio per l’utilizzo – durante il periodo nel quale era Ministro degli Esteri sotto la Presidenza di Obama – di un sistema privato di posta elettronica e pertanto non potrà partecipare come candidato.

Il processo del voto americano per l’elezione del Presidente è molto lungo, pieno di sorprese e stavolta come non mai. Durante il percorso, la maggioranza dei candidati si perde (ad esempio i candidati repubblicani erano inizialmente 17); coloro che rimangono si modificano, si affinano, articolano meglio il loro messaggio. La campagna presidenziale negli Stati Uniti consente di analizzare a fondo le posizioni dei candidati – ed il loro passato – e verificare l’impatto che determinate proposte ha sulle diverse componenti della popolazione (ad esempio l’elettorato femminile, quello etnico, incluso i c.d. latinos) oltre che nei diversi stati.

Però, il rischio rimane che si verifichi – o si accentui – la polarizzazione e che non emerga un candidato in grado di unire il paese. Le divisioni aumentano con la recente nomina da parte del Presidente Obama di Merrick Garland come giudice della Corte Suprema per sostituire il conservatore Antonin Scalia. La maggioranza dei senatori repubblicani, che controllano il Senato che decide sulle nomine, ha già affermato che non prenderà  in considerazione la nomina di Garland.

Gli Americani comunque si rendono conto della grande importanza di queste elezioni e stanno accorrendo numerosi a votare, come mai in passato, ad eccezione del 2008 (elezione del Presidente Obama, ugualmente storica). Tuttavia, rispetto al 2008, la situazione si è ribaltata: sono i repubblicani che accorrono più numerosi alle urne nelle primarie.

In tale contesto, Trump e Sanders – in modi diversi – stanno portando nuovi elettori alla politica. Sanders attrae i giovani – i c.d. Millenials – e una parte di coloro che sono stati penalizzati dalla globalizzazione e dalla crisi economica e finanziaria. Trump richiama gli indipendenti che preferiscono come rappresentanti persone comuni e con esperienza e non i politici; gli attuali c.d. Reagan democrats – i democratici di Reagan (elettorato democratico che negli anni 80’ voto per Reagan) – vale a dire i colletti blu, lavoratori che incontrano varie difficoltà economiche e sociali derivanti dalla globalizzazione e dall’emigrazione. Questo fenomeno è complesso e non è unidirezionale, ma trasversale nel senso che anche Trump attrae i giovani e anche Sanders attrae i democratici di Reagan e gli indipendenti; e indica che Trump e Sanders sono apprezzati da cittadini che non presentano significative differenze e che sono rimasti, in passato, ai margini della politica e probabilmente non hanno votato.

Una parte significativa dell’elettorato percepisce di essere danneggiata dall’emigrazione; dagli accordi commerciali di libero scambio che accellerano la de-localizazzione delle imprese; e dalla crisi economica e finanziaria. Molti americani sono impauriti dal terrorismo e delusi dall’incerta politica estera del governo, sopratutto nel Medio Oriente. Inoltre, mentre circolano numerosi studi economici, e sociali che descrivono la situazione drammatica degli emigranti e dei rifugiati, non si trova un’analoga attenzione sopratutto sotto il profilo economico e politico verso quei segmenti della popolazione che hanno pagato – e pagano – per gli eventi sopra indicati.

Alcuni analisti identificano nella rabbia la caratteristica comune di questi elettori. In effetti, una buona parte dei cittadini americani che si dirigono verso Trump e Sanders sono delusi e arrabbiati (la tentazione di utilizzare un altro aggettivo piu’ colorito e’ grande) per i bassi salari, la disoccupazione o l’occupazione parziale, i bassi salari, le disuguaglianze, l’insicurezza,  l’incapacita’ degli Stati Uniti di operare con efficacia sulla scena internazionale; e ritengono i politici e gli apparati burocratici i maggiori responsabili.

Mark Muro and Siddharth Kulkarni del Metropolitan Policy Program della Brookings Institution pongono in relazione la rabbia crescente di una quota importante dell’elettorato Americano con la caduta dell’impiego nell’industria manifatturiera negli ultimi 35 anni. Il grafico che segue visualizza il declino dell’impiego nel manifatturiero negli Stati Uniti determinato principalmente da de-localizzzione, globalizzzione, e automazione.

graficoUSA

Trump e Sanders prestano attenzione a questa parte dell’elettorato e rappresentano le novità nella politica americana. Sanders parla apertamente che il denaro compra le elezioni; propone il finanziamento pubblico dei partiti (un’affermazione che equivale a una bestemmia negli Stati Uniti); non rinnega le parole positive che negli anni 80’ ha avuto nei confronti di Fidel Castro e Ortega (pur riconoscendo che sono due dittature da non imitare).Trump polemizza aspramente e con un linguaggio espressivo con la television, la stampa, e i partiti. Peraltro il comportamento vistoso e le affermazioni e immagini iperboliche di Trump, se da una parte accentuano l’opposizione dell’apparato del Partito Repubblicano, dall’altra gli garantiscono il sostegno dei cittadini che si ribellano all’inazione dei “politici“. La principale ragione del sostegno a Trump è: “non è un politico e ci si puo’ fidare di lui”. Anche se non nella stessa misura, anche Sanders – senatore indipendente, non democratico, del Vermont – è percepito come un outsider.

I principi di questi due candidati sono certamente diversi: Trump s’ispira alla competizione aspra; Sanders alla realizzazione di opportunità per tutti. Tuttavia, le loro posizioni non sono completamente all’opposto, come si potrebbe credere (e per inciso questa è la ragione per la quale l’apparato del Partito Repubblicano ritiene che Trump snaturi il partito). Entrambi si oppongono alle guerre (ma Trump dichiara che aumenterà le spese militari); entrambi sono contrari al ruolo del denaro nella politica e alla decisione della Corte Suprema che consente contributi illimitati e anonimi (anche se Trump è meno specifico di Sanders su questo tema); entrambi si oppongono agli accordi di libero scambio. Trump e Sanders divergono sostanzialmente sulle politiche dell’emigrazione. Trump ripetutamente dichiara che con lui gli Stati Uniti faranno sempre affari vantaggiosi in ogni campo (e sopratutto nel commercio con paesi come Cina, Messico, Corea) e torneranno grandi e vincitori; incessantemente proclama che costruirà un muro al confine tra Stati Uniti e Messico (e il Messico pagherà  il costo della costruzione); deporterà gli immigrati illegali; e apertamente afferma che non consentirà ai mussulmani di entrare, almeno per un certo tempo, negli Stati Uniti. Sanders, invece, intende introdurre una nuova legge sull’immigrazione e permettere agli illegali che sono negli Stati Uniti (oltre 11 milioni) di poter perseguire la cittadinanza americana, naturalmente pagando le imposte.

Se eletto, Trump dichiara che eliminerà le riforme di Obama, inclusa la legge sulla copertura assicurativa per le malattie; e annullerà gli ordini esecutivi dell’attuale Presidente (ad esempio quello con il quale è stato ratificato l’accordo nucleare con l’Iran). D’altra parte, Sanders propone di aggiustare le disparità attraverso la tassazione fortemente progressiva.

Trump e Sanders sono accomunati dal non dipendere dai contributi dei grandi gruppi d’interessi che accentua l’indipendenza dei due candidati: Trump finanzia la campagna presidenziale con i suoi soldi; Sanders con milioni di piccoli contributi.

A proposito della base che appoggia Trump e Sanders, viene in mente Ralph Nader- un ottantenne attivista politico di sinistra e autore concentrato nell’area della protezione del consumatore, dell’ambiente e della democrazia effettiva – che nel 2000 si presento’ alle elezioni presidenziali come terzo candidato. La presenza di un candidato di sinistra come Nader tolse voti al candidato democratico Gore e non gli consenti – più del pasticcio della conta dei voti in Florida – di vincere l’elezione presidenziale contro Bush. Nel 2014, Nader ha scritto un libro – Unstoppable: The Emerging Left-Right Alliance to Dismantle the Corporate State – L’inarrestabile alleanza della destra e della sinistra contro lo stato corporativo al servizio delle grandi imprese. Nel libro, Nader s’incentra sulla reazione del pubblico americano – di destra e sinistra – contro l’apparato di potere. Le aree di comune interesse di destra e sinistra sono principalmente le politiche in tema ambientale, energetico, industrial-farmaceutico e militare, determinate dallo strapotere delle grandi imprese che controllano le scelte dei politici. Nader sostiene che è nell’interesse dei cittadini di diverse etichette politiche ad unirsi nella lotta contro lo stato corporativo che, se lasciato incontrollato, sarebbe portato a ignorare la Costituzione, eliminare i diritti fondamentali e le libertà del popolo Americano.

L’intuizione di Nader di un’alleanza tra destra e sinistra – che può apparire tanto improbabile – si può realizzare in un confronto a novembre tra Trump e Clinton. In effetti, nel caso la competizione presidenziale sia tra Trump e Clinton – che sembra lo scenario più probabile – non è affatto inconcepibile che i sostenitori di Sanders durante le primarie votino per Trump nell’elezione di novembre piuttosto che per Clinton, riversando verso Hillary l’avversione contro l’apparato dei partiti, i politici senza passione e autenticità. Cominciano a circolare interviste e piccole inchieste che sembrano confermare che il passaggio di elettori da Sanders sconfitto nelle primarie al candidato presidenziale Trump rappresenti una possibilità concreta. E la strategia della campagna di Trump – piena di generalità e slogans e con poche specifiche indicazioni delle politiche proposte – sembra perseguire l’obiettivo di attrarre vecchi e nuovi elettori insoddisfatti.

Queste considerazioni fanno sorgere una riflessione: può Trump vincere l’elezione presidenziale sostanzialmente con i soli voti dei “bianchi” (religiosi sopratutto evangelisti, conservatori, libertari, indipendenti, e insoddisfatti, vecchi e nuovi)? Le affermazioni di Trump sul muro al confine con il Messico e gli attacchi ai mussulmani – intercalati da rassicurazioni del tipo: “ho tanti amici ispanici e mussulmani” – non sembrano spianare la strada per costruire una larga e diversa coalizione e per evitare una spaccatura nel Paese.

D’altro canto, se la strategia di Trump non funzionasse, e Clinton venisse eletta, sarebbe in grado la prima donna Presidente degli Stati Uniti di superare il significativo clima di sfiducia che comunque l’accompagna?  E creare coesione tra le diverse componenti del Paese?

La domanda di fondo rimane la stessa: sarà il prossimo Presidente degli Stati Uniti in grado di ricompattare il paese? Naturalmente, la risposta a tale interrogativo ha implicazioni non solo per la politica interna, ma anche per la politica estera degli Stati Uniti.

*Esperto di politiche pubbliche, residente negli Stati Uniti; docente Istituto Studi Europei, Roma

Usa, boom dell’occupazione

Usa, boom dell’occupazione

Mario Platero – Il Sole 24 Ore

Se qualcuno dubita ancora della forza del modello americano per rilanciare l’economia dia un’occhiata ai risultati di ieri: un tasso di disoccupazione al 5,9%, un livello che non si vedeva dal 2008 e 248.000 nuovi occupati per il mese di settembre. È difficile dunque ignorare le parole del Presidente Barack Obama che ieri ha lanciato l’ennesima provocazione transatlantica, attaccando soprattutto il modello tedesco, ma, indirettamente tutte le rigidità che, a partire da quelle per il mercato del lavoro, imbrigliano l’economia: «Gli Stati Uniti – ha detto – hanno ridato lavoro a più persone che l’Europa, il Giappone e ogni altra economia avanzata messe insieme». E nonostante i dati di ieri, insieme a un inatteso miglioramento del disavanzo commerciale, diano sicurezza per la tenuta della ripresa, l’amministrazione non si ferma, preme per un ulteriore rilancio del settore manifatturiero e per un rafforzamento di alcuni dati per l’occupazione che potrebbero essere migliorati, come il salario minimo e il tasso della partecipazione al mercato del lavoro, sceso ancora dal 62,8 al 62,7%, il minimo in 35 anni e molto al di sotto del 66% di prima della grande recessione.

Per questo Obama preme su nuove iniziative pubbliche/private, per questo ha già lanciato vari centri per l’eccellenza nel manifatturiero avanzato e ieri ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari in aiuti federali e fondi privati per creare un “Integrated Photonics Manufacturing Institute” che sarà coordinato dal Dipartimento della Difesa. Oggi inoltre si celebra il National Manufacturing Day. Il presidente andrà a Princeton in Indiana, per visitare gli impianti della Millennium Steel. In tutto 16.000 imprese del settore manifatturiero apriranno i cancelli al pubblico e alle autorità sia nazionali che locali a riprova di una forte coesione per avanzare lungo la stessa strada.

Questo per dire che ha ragione Mario Draghi quando avverte che la politica monetaria da sola non basta per rilanciare la crescita e che ci vogliono drastiche riforme strutturali. Che non si dimentichi però l’importanza di lanciare misure di stimolo e di agire anche sul fronte fiscale. È stata questa ricetta con tre ingredienti essenziali, incluso un disavanzo pubblico che era balzato al 10% del Pil prima di arretrare (contro ogni previsione di ostinati economisti nostrani) fra il 3% e il 4% per il 2014, che ha consentito all’America di fare quello che ha fatto. E ricordiamo oltre ai dati di ieri sull’occupazione un tasso di crescita corretto al 4,6% per il secondo trimestre di quest’anno. E la Fed? Difficile che la politica monetaria cambi prima della metà dell’anno prossimo. Janet Yellen ha chiarito che per lei oggi sono più importanti indicatori come il salario minimo e il tasso di partecipazione al lavoro che, come abbiamo visto, sono ancora fuori dalle medie storiche. La ripresa dunque continuerà. Non necessariamente ai ritmi del secondo trimestre, ma la crescita dell’economia e dell’occupazione andranno avanti per il futuro prevedibile.

Ci sembra giusto chiudere con una rivendicazione del Presidente alla New Foundation della Northwestern University di Evanston in Illinois, dove ha fatto partire giovedì la sua campagna per le elezioni di metà mandato. «Ecco i fatti – ha detto Obama – quando sono stato eletto le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l’economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati, la più lunga crescita di posti di lavoro nel settore prima della nostra storia. Non si sono state tante offerte di lavoro sul mercato quante ce ne sono oggi dal 2001». Dalla perdita di 800.000 posti di lavoro al mese alla creazione di 10 milioni di posti di lavoro in 5 anni. Non c’e’ bisogno di arrivare a questi estremi, ma, senza dover rievocare per l’ennesima volta Shumpeter ieri ne abbiamo avuto la conferma: flessibilità, mobilità e ristrutturazioni aiutano qualunque economia che voglia restare industriale avanzata, non solo l’americana.