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Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Pennisi: «Negli Usa un lavoro a tempo è un’occasione per crescere»

Giulia Cazzaniga – Libero

Ha lavorato negli Stati Uniti, alla Banca Mondiale, è stato dirigente generale ai ministeri del Bilancio e del Lavoro e docente di economia alla Johns Hopkins University e della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione. Oggi Giuseppe Pennisi è presidente del board scientifico del centro studi ImpresaLavoro e insegna all’Università Europea di Roma.

Pennisi, dai dati sembra che i contratti in Europa stiano prendendo un’altra direzione rispetto a quella che il governo ha messo sotto la lente della Riforma. Aumentano i contratti in somministrazione. Come lo spiega?
«L’Europa sta prendendo una strada molto diversa rispetto a quella intrapresa dal governo italiano. Occorre una premessa: non credo affatto che il diritto del lavoro e la sua regolamentazione abbiano effetti sull’occupazione, mai si è verificato nel mondo. Trovo il dibattito italiano su articolo 18 e contratto a tutele crescenti stucchevole, a dire il vero».

Perché?
«Sono stato io stesso promotore in passato delle tutele crescenti, ma il modello è sensato bisogna stare attenti. L’interpretazione di questo contratto infatti può essere: ti assumo, ma prima che la tutela sia troppo elevata prendo un altro lavoratore al tuo posto che mi costa meno».

Gli imprenditori le risponderebbero: se la persona è valida non lo licenzieremo.
«Vero, ma i dati sui contratti in somministrazione dimostrano una prassi che ho riscontrato fin dal tempo in cui lavoravo in Banca Mondiale. Negli Stati Uniti il lavoro somministrato da agenzia è la prassi. Viene addirittura preferito il contratto temporaneo, perché si è tutelati dall’agenzia e perché si affrontano nuove sfide in continuazione. In Giappone, ai tempi del boom, ricordo il colloquio con il rettore di un’università molto importante. È un anneddoto, ma spiega bene il mio pensiero. Lui mi raccontò che tutti i professori erano contrattualizzati soltanto per un anno e che in 35 anni di professione non aveva visto nessun licenziato: il sistema funzionava perfettamente e dava al Paese un valore aggiunto sulla formazione che permetteva di crescere in produttività e competitività. Mettersi alla prova in continuazione, ecco il segreto per vincere le sfide della vita».

In Italia non abbiamo mai avuto una cultura del lavoro simile, pensa sia stata questa la fonte della crisi?
«No, io imputo la maggior parte dei problemi di oggi all’entrata nell’euro: non eravamo pronti e già avevo previsto che avrebbe creato disoccupazione e disagio sociale. Non si può pensare che dovendo sottostare ai parametri di Maastricht saremmo diventati più produttivi. Per inciso, studi recenti dimostrano che ogni volta che l’Italia è arrivata al pareggio di bilancio è sempre seguito un periodo di rallentamento dell’occupazione e della crescita economica. Chiedo quindi: ne vale dawero la pena? Sarebbe poi dovuto cambiare il comportamento di molti, dalle famiglie alla classe politica, perché le conclusioni fossero diverse».

Ovvero?
«In Germania – non posso prevedere se sia arrivato anche per questo Paese il momento di uno “stop” – per salvare la Volkswagen fecero leggi che non avevano il nome del ministro che le creò bensì il nome del capo del personale dell’azienda. A tutto il Paese sembrava che una perdita industriale del genere sarebbe stato un po’ come per noi perdere il Colosseo. I sindacati all’interno dell’azienda sono la vera forza dell’impianto industriale tedesco».

Usa, boom dell’occupazione

Usa, boom dell’occupazione

Mario Platero – Il Sole 24 Ore

Se qualcuno dubita ancora della forza del modello americano per rilanciare l’economia dia un’occhiata ai risultati di ieri: un tasso di disoccupazione al 5,9%, un livello che non si vedeva dal 2008 e 248.000 nuovi occupati per il mese di settembre. È difficile dunque ignorare le parole del Presidente Barack Obama che ieri ha lanciato l’ennesima provocazione transatlantica, attaccando soprattutto il modello tedesco, ma, indirettamente tutte le rigidità che, a partire da quelle per il mercato del lavoro, imbrigliano l’economia: «Gli Stati Uniti – ha detto – hanno ridato lavoro a più persone che l’Europa, il Giappone e ogni altra economia avanzata messe insieme». E nonostante i dati di ieri, insieme a un inatteso miglioramento del disavanzo commerciale, diano sicurezza per la tenuta della ripresa, l’amministrazione non si ferma, preme per un ulteriore rilancio del settore manifatturiero e per un rafforzamento di alcuni dati per l’occupazione che potrebbero essere migliorati, come il salario minimo e il tasso della partecipazione al mercato del lavoro, sceso ancora dal 62,8 al 62,7%, il minimo in 35 anni e molto al di sotto del 66% di prima della grande recessione.

Per questo Obama preme su nuove iniziative pubbliche/private, per questo ha già lanciato vari centri per l’eccellenza nel manifatturiero avanzato e ieri ha annunciato lo stanziamento di 200 milioni di dollari in aiuti federali e fondi privati per creare un “Integrated Photonics Manufacturing Institute” che sarà coordinato dal Dipartimento della Difesa. Oggi inoltre si celebra il National Manufacturing Day. Il presidente andrà a Princeton in Indiana, per visitare gli impianti della Millennium Steel. In tutto 16.000 imprese del settore manifatturiero apriranno i cancelli al pubblico e alle autorità sia nazionali che locali a riprova di una forte coesione per avanzare lungo la stessa strada.

Questo per dire che ha ragione Mario Draghi quando avverte che la politica monetaria da sola non basta per rilanciare la crescita e che ci vogliono drastiche riforme strutturali. Che non si dimentichi però l’importanza di lanciare misure di stimolo e di agire anche sul fronte fiscale. È stata questa ricetta con tre ingredienti essenziali, incluso un disavanzo pubblico che era balzato al 10% del Pil prima di arretrare (contro ogni previsione di ostinati economisti nostrani) fra il 3% e il 4% per il 2014, che ha consentito all’America di fare quello che ha fatto. E ricordiamo oltre ai dati di ieri sull’occupazione un tasso di crescita corretto al 4,6% per il secondo trimestre di quest’anno. E la Fed? Difficile che la politica monetaria cambi prima della metà dell’anno prossimo. Janet Yellen ha chiarito che per lei oggi sono più importanti indicatori come il salario minimo e il tasso di partecipazione al lavoro che, come abbiamo visto, sono ancora fuori dalle medie storiche. La ripresa dunque continuerà. Non necessariamente ai ritmi del secondo trimestre, ma la crescita dell’economia e dell’occupazione andranno avanti per il futuro prevedibile.

Ci sembra giusto chiudere con una rivendicazione del Presidente alla New Foundation della Northwestern University di Evanston in Illinois, dove ha fatto partire giovedì la sua campagna per le elezioni di metà mandato. «Ecco i fatti – ha detto Obama – quando sono stato eletto le imprese americane licenziavano al ritmo di 800 mila persone al mese. Oggi le aziende stanno assumendo 200 mila americani al mese. Negli ultimi quattro anni e mezzo l’economia americana ha creato 10 milioni di nuovi occupati, la più lunga crescita di posti di lavoro nel settore prima della nostra storia. Non si sono state tante offerte di lavoro sul mercato quante ce ne sono oggi dal 2001». Dalla perdita di 800.000 posti di lavoro al mese alla creazione di 10 milioni di posti di lavoro in 5 anni. Non c’e’ bisogno di arrivare a questi estremi, ma, senza dover rievocare per l’ennesima volta Shumpeter ieri ne abbiamo avuto la conferma: flessibilità, mobilità e ristrutturazioni aiutano qualunque economia che voglia restare industriale avanzata, non solo l’americana.

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Dagli Usa all’Italia aspettando la vera ripresa

Fabrizio Galimberti – Il Sole 24 Ore

Prima c’era la crisi finanziaria, poi la Grande recessione, poi la crisi da debiti sovrani, ora i tremori geopolitici da Ucraina, Gaza e Medio Oriente… Non c’è pace per l’economia mondiale e diventa difficile discernere, nella nebbia del ciclo, il ruolo dei fattori strutturali, congiunturali e politico-militari.
L’analisi deve partire dagli Stati Uniti, e non solo perché sono tuttora – ma di poco – la più grossa economia del mondo. Nella costellazione delle economie gli Usa sono ancora la stella polare, che segna la direzione del ciclo internazionale. E questo sia per fattori reali – l’assorbimento dell’export diretto verso il più grande mercato del pianeta – che per fattori di fiducia – il mondo guarda all’America per confortarsi e ignorare i tristi epigoni di una supposta “stagnazione secolare” che dovrebbe invischiare le economie avanzate.

Allora, qual è lo stato di salute dell’economia americana? Buono, grazie. Gli Usa furono colpiti da una recessione diversa dal solito, una recessione che riguardava i fondi e non i flussi, una recessione da eccesso di debito che aveva incrinato i bilanci, specie delle famiglie. Questa balance sheet recession – recessione da bilancio – richiede una terapia lunga, ché il solo modo di uscirne è quello di raddrizzare il bilancio riducendo il debito, cioè risparmiando di più e consumando di meno. Una terapia ammirabile e nobile dal punto di vista della singola famiglia, ma che, praticata su vasta scala, toglie carburante alla caldaia dell’economia. Ora, tuttavia, i bilanci delle famiglie sono stati risanati, il debito è tornato a livelli fisiologici e la ricchezza, grazie ai tassi d’interesse bassi che sostengono il valore delle obbligazioni, all’effervescenza dei mercati azionari che continuano a macinare record e alla ripresa dei prezzi delle case, è a livelli tali da confortare i consumi. C’era però un problema in questa vicenda. Per contenere la recessione lo Stato si era doverosamente sostituito al settore privato nello spendere e nello spandere, e i deficit risultanti avevano poi costretto il settore pubblico a tirare anch’esso la cinghia.

La lentezza della ripresa americana è dipesa proprio da questo “uno-due”: sia le famiglie che lo Stato avevano un problema di risanamento del bilancio, e sia le une che l’altro dovevano faticosamente risalire la china del deficit andando cauti nella spesa. Ma, come per i conti delle famiglie, anche i conti pubblici negli Stati Uniti hanno mostrato rapidi miglioramenti e le previsioni dei saldi per l’anno in corso continuano a migliorare: il deficit federale viene visto oggi al 2,9% del Prodotto interno lordo. Sgombrato il campo, quindi, dalla fatica del risanamento dei bilanci, l’evoluzione dell’economia viene a dipendere dalle forze spontanee del ciclo, che negli Stati Uniti continuano a essere vive e vitali: il progresso tecnico non si arresta, la fucina dell’innovazione è sempre accesa, le condizioni monetarie sono permissive ed è ampia la disponibilità di lavoro e di capitale. La Borsa americana è fin troppo contenta (e naturalmente, spuntano come funghi le cassandre che annunciano “il grande crollo del 2014”), ma in fondo riflette, pur con qualche esagerazione, l’evoluzione dei profitti che sono, in quota di Pil, vicini ai livelli massimi del dopoguerra.

“L’altra metà del cielo” – i Paesi emergenti – sono in realtà più della metà, ché quest’anno c’è stato lo storico sorpasso: hanno oltrepassato il 50% dell’economia mondiale. Dietro a questo sorpasso ci sono quei fattori fondamentali che, fortunatamente, continuano a spingere la crescita: voglia di crescere, catch-up delle tecnologie, disponibilità di manodopera a basso costo, abbraccio dei valori di mercato e gradi di libertà delle politiche monetarie e di bilancio.

Cruciale è il ruolo della Cina, i cui problemi sono di una varietà che tutti vorrebbero avere: problemi da troppa crescita. Il rallentamento in corso nell’economia del Celeste impero – si fa per dire: dal +10% al +7/7,5% – non è segno di crisi incipiente: è un desiderabile scalar di marcia da una velocità di crociera insostenibile. Un giorno la Cina avrà una vera crisi, ma sarà dovuta a ragioni politiche, a una rivendicazione di libertà civili che mancano all’appello, adesso che le libertà economiche sono state in gran parte conquistate. Ma per adesso non ci sono grossi ostacoli a una crescita che si sta spostando verso la domanda interna e la faretra delle politiche economiche ha dentro molte frecce che possono essere utilizzate per sostenere l’espansione.

Per restare in Asia, quali sono le prospettive del Giappone? In un certo senso, la situazione giapponese ha alcune analogie con quella dell’Italia. La “terza freccia” all’arco del governo guidato da Shinzo Abe – le riforme strutturali, che avrebbero dovuto seguire le due frecce di politiche monetarie e di bilancio espansionistiche – stentano a carburare, come succede in Italia, dove purtroppo anche le prime due frecce non sono state di supporto alla crescita. Ma l’impressione è che la “Abenomics” costituisce un cambiamento di regime irreversibile e il Giappone ha una buona probabilità di tornare a crescere.

E in Europa? C’è, se pure su scala più modesta rispetto all’Italia, la stessa discrasia fra indicatori di fiducia e indicatori reali. Ma recentemente – e in questo caso la spiegazione è più geopolitica che economica – anche gli indicatori di fiducia mostrano segni di ripensamento. Segni specialmente evidenti in Germania, più vicina e più esposta alle preoccupanti vicende in Ucraina.

In conclusione, l’economia internazionale sta subendo i contraccolpi delle tensioni: fra rumor di sciabole e conflitti sanguinosi, l’economia segna il passo, anche se i fattori di crescita rimangono intatti. L’Italia – che il passo lo segna da molti anni – potrà vedere una vera ripresa solo se il resto del mondo riprende il cammino.

Tutto il resto è fuffa

Tutto il resto è fuffa

Giorgio Mulé – Panorama

Mettetevi nei panni di Joe, un americano in vacanza a Roma. Negli States essere ricco non è un reato; possedere due case non fa di un cittadino il perfetto obiettivo del fisco; avere messo soldi da pane non lo fa somigliare a un evasore fiscale. Joe è un marziano ai nostri occhi. Atterra a Fiumicino e scopre che l’Italia deve rinviare le sue previsioni di bilancio per ricalcolare il Prodotto interno lordo. Accipicchia, o meglio woooow!, pensa: gli italiani si sono rimessi in moto e stanno superando la crisi. Ecco, dear friend, le cose stanno un po’ diversamente: ce l’ha presente Johnny Stecchino nel bellissimo movie di Robeno Benigni? Beh sì, insomma noi ricalcoleremo il nostro Pil alla luce delle previsioni di Cosa nostra su tre settori: andamento del mercato della droga, della prostituzione e del contrabbando.

Tutto perfettamente illegale. Joe, it’s not a joke, non si scherza affatto: aumenteremo il nostro Pil, avremo pure big benefici nei conti pubblici. Manco fa in tempo a smettere di ciondolare la testa di qua e di là, farfugliando qualcosa che somiglia a un intraducibile «what the fuck…››, che gli capita di leggere la proposta di un signore che conosce bene perché ha conquistato gli States con i megastore Eataly. Mister Oscar Farinetti, renziano della prima ora, è quel che si dice un ambasciatore dell’Italia nel mondo. Già in predicato di fare il ministro, dà la sua ricetta per mettere a posto la spesa previdenziale: «Ci vuole una bastonata: tetto massimo di 3.000 euro netti, bastano e avanzano per vivere» sentenzia. E quelli che prendono di più, cioè i 600mila italiani che hanno versato contributi per 40 anni? La risposta è facile, caro Joe, basterebbe ricordarsi come si traduce in americano «cazzi loro» però va bene anche «what the fuck. ..».

Passata la pagina di economia dove il suo connazionale Bob Wilt, presidente del colosso Alcoa, annuncia la chiusura definitiva dello stabilimento di Portovesme in Sardegna con 455 lavoratori a spasso perché, dear italians, «le ragioni di fondo che rendevano non competitivo l’impianto non sono purtroppo cambiate», il nostro Joe decide che è tempo di lasciarsi alle spalle tanta mestizia e rigenerare lo spirito con una visita alla Casa di Augusto in occasione del bimillenario della morte dell’imperatore. È obbligatorio prenotare, al centralino parlano anche in inglese. Wonderful. Peccato che dopo 10 minuti d’attesa, Joe viene invitato a richiamare «tra qualche giorno» perché la Soprintendenza deve fissare ancora le regole per le visite. D’altronde hanno avuto sono duemila anni per farlo. Ci risiamo col bisbiglio: «What the fuck…» lasciamo Joe al suo disgusto e concentriamoci un momento su di noi.

La realtà dell’Italia è esattamente quella che avete letto, se non peggio. E allora, visto che s’ode di nuovo la rumba degli annunci, sarà il caso di mettere in fila le priorità. Sono due: lavoro e giustizia. Si lasci perdere la fuffa, si eviti l’effetto grigliata mista mettendo sul fuoco provvedimenti dall’indiscusso valore mediatico ma dalla scarsissima possibilità di vedere la luce. L’Italia riparte se si mette mano in profondità in quei due settori con il concorso di tutti perché, come per le riforme istituzionali, rappresentano un terreno comune dove le forze politiche responsabili possono e devono incontrarsi. Lavoro e giustizia hanno priorità assoluta: da lì passano sviluppo, competitività e credibilità, soprattutto nei confronti degli investitori esteri. ll resto, come direbbe Obama, è horseshit.