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Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

Marin: “Al Senato una mozione a tutela di tutti i pensionati”

di Marco Marin*

L’Inps ha evidenziato le condizioni drammatiche in cui vivono i pensionati italiani: 11,5 milioni di loro percepiscono infatti pensioni inferiori a 750 euro al mese. Una cifra, questa, ben al di sotto del livello minimo di sopravvivenza che un Paese civile dovrebbe garantire a chi ha lavorato una vita. Proprio per questo ho provveduto a depositare una mozione al Senato, a mia prima firma, insieme ai senatori del gruppo di Forza Italia, per tutelare i pensionati. Ricordando bene come il governo Renzi non lo abbia invece fatto quando si è trattato di dare la giusta rivalutazione alle loro pensioni. Lo dichiara il senatore di Forza Italia Marco Marin. La nostra mozione vuole impegnare infatti il Governo a dare piena attuazione alla sentenza 70/2015 della Corte Costituzionale, prevedendo il rimborso completo di tutti i pensionati. Chiediamo inoltre che le modifiche annunciate per favorire la flessibilità in uscita avvengano senza penalizzare i lavoratori con riduzioni del trattamento pensionistico e l’aumento delle pensioni per i soggetti disagiati. Infine, riteniamo doveroso ridurre il livello di tassazione sulle pensioni, che è tra le più alte d’Europa. A differenza del premier abusivo, noi pensiamo alle cose concrete nell’interesse degli Italiani.

*Senatore di Forza Italia, vicepresidente della Commissione Istruzione pubblica e Beni culturali

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

Damiano: “Agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”

di Cesare Damiano*

Il nostro obiettivo è cambiare la riforma Fornero. E il tema essenziale è quello della flessibilità in uscita: la nostra parola d’ordine è “agli anziani la pensione, ai giovani il lavoro”. Il sistema previdenziale ha bisogno di molte correzioni, in parte dovute a veri e propri errori, come nel caso delle ricongiunzioni, causato da una scelta sbagliata del Governo Berlusconi. Modifiche vanno anche apportate per quanto riguarda i lavori usuranti e i lavoratori precoci, riconoscendo che le attività manuali e più faticose hanno bisogno di un riconoscimento particolare perché la loro aspettativa di vita è mediamente più breve.

Nel prossimo Documento di Economia e Finanza che verrà presentato dal Governo ad aprile, dovrà esserci traccia del tema della previdenza: in caso contrario sarebbe disatteso l’impegno del premier Renzi di fare del 2016 l’anno della flessibilità.

*Presidente della Commissione Lavoro della Camera

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

Furlan: “Sistema sostenibile, ora rivedere la Fornero”

di Annamaria Furlan*

Cambiare la legge Fornero sulle pensioni è oggi una priorità se vogliamo davvero dare lavoro ai giovani ed aprire una prospettiva nuova nel paese. Per questo occorre uscire da un dibattito astratto, fatto di annunci e promesse di intervento, aprendo un tavolo serio di confronto tra il Governo e le parti sociali, poprio per evitare  che questo tema così delicato diventi terreno di populismi e strumentalizzazioni politiche. È indispensabile ripristinare una flessibilità nell’accesso alla pensione, a partire dall’età minima di 62 anni, oppure attraverso la possibilità di combinare età e contributi. Si tratta di una esigenza urgente che riguarda migliaia di persone, soprattutto chi fa un lavoro usurante e faticoso, con una aspettativa di vita purtroppo differente rispetto ad altre professioni. Se pensiamo poi alle donne, sono state profondamente penalizzate dalla riforma, sia nel settore pubblico che in quello privato, visto che non si è tenuto in minimo conto il lavoro di cura e di assistenza anche ai familiari disabili che tante donne nel nostro paese svolgono nell’arco della loro vita.

I lavori non sono tutti uguali. Questo è stato l’errore grave della riforma Monti-Fornero che con un colpo di accetta ha azzerato il futuro di tanti lavoratori e pensionati. Noi conosciamo la situazione difficile dei conti pubblici. Tuttavia non è vero che non ci sono le risorse per ristabilire i criteri di equità, solidarietà e flessibilità. Nel periodo che va dal 2013 al 2020 circa 80 miliardi di euro entreranno nelle casse dello Stato. Una cifra enorme che è stata, di fatto, prelevata dalle tasche dei contribuenti senza alcuna giustificazione visto che il sistema previdenziale italiano era stato giudicato sostenibile da tutte le istituzioni nazionali ed internazionali. Perché allora mantenere tutta questa rigidità? Perché questo accanimento contro i lavoratori? Si potrebbe utilizzare una parte di queste risorse per consentire il pensionamento anticipato a chi ha tanti contributi, senza penalizzazioni o collegamenti con l’attesa di vita. Ma dobbiamo anche chiudere le salvaguardie per i lavoratori “esodati” con una soluzione strutturale che garantisca a quei lavoratori il diritto pensione. Così come bisogna assicurare un trattamento pensionistico adeguato e dignitoso ai giovani, a chi svolge lavori saltuari, precari o discontinui, con retribuzioni, tra l’altro, basse.

Anche la gestione separata Inps va ripensata perché accorda tutele diverse e minori agli iscritti, rispetto alla generalità dei lavoratori. L’Italia è il paese con il più alto tasso di disoccupazione giovanile ed al contempo quello con il sistema pensionistico più rigido. È un cane che si morde la coda. Per questo noi proponiamo che sia incentivato anche il part-time fra i lavoratori anziani negli ultimi anni della carriera lavorativa, collegandolo all’assunzione dei giovani preparati all’uso delle nuove tecnologie, per un necessario turn-over nelle aziende e nella Pubblica Amministrazione. È inaccettabile anche la penalizzazione che si è fatta della previdenza integrativa e dei fondi pensione che invece andrebbero sostenuti ed estesi anche nel settore pubblico. Per questo bisognerebbe riportare ‪all’11‬ per cento l’imposta sostitutiva che oggi è al 20 per cento per una malintesa idea di equiparazione con le rendite finanziarie.

Il nostro paese è di fronte ad un bivio: come difendere il potere d’acquisto delle pensioni visto che su esse grava una tassazione doppia rispetto alla media europea. Come si può salvaguardare il valore degli assegni pensionistici, senza una rivalutazione annuale? Questi sono i nodi da affrontare, trovando le soluzioni giuste, perchè è in gioco il destino di tante famiglie italiane. Bisogna pensare ad una diversa politica fiscale che sostenga i redditi dei pensionati, realizzando la completa equiparazione della no-tax area con i lavoratori dipendenti. Ecco le ragioni della nostra mobilitazione sindacale di sabato : vogliamo cambiare radicalmente il sistema previdenziale nel segno della equità, della sostenibilità finanziaria e della giustizia sociale. Far sentire la voce di tanti lavoratori, pensionati, donne e giovani che chiedono maggiore rispetto ed un futuro più dignitoso.

*Segretaria Generale Cisl

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

Baratro Inps, perdite di bilancio per oltre 11 miliardi all’anno

di Gianni Zorzi

Più di undici miliardi all’anno è la perdita di bilancio che l’Inps subisce regolarmente dal 2012 (anno in cui ha incorporato l’Enpals e soprattutto l’ex Inpdap), e che stima di registrare anche al termine del 2016. Il patrimonio netto che cinque anni fa misurava oltre 40 miliardi di euro è ormai diretto verso la completa erosione, e con esso i 21 miliardi di euro incassati tramite un intervento straordinario di ripianamento delle perdite risalente a due anni fa.

Il conto a fine anno potrebbe essere ancora peggiore, innanzitutto perché per gli esercizi 2015 e 2016 il disavanzo è ancora una previsione, e in passato i consuntivi hanno fatto registrare delle perdite ben più ampie di quelle inizialmente preventivate. Anche se i dati per una volta risultassero in linea con le attese, il patrimonio netto fotografato al 31 dicembre 2016 non andrebbe oltre gli 1,8 miliardi, con la sostanziale imminente necessità di un ulteriore ripiano da parte dello Stato.

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C’è un costo in particolare che l’Inps ha sempre regolarmente sottostimato fino ad ora nei suoi bilanci preventivi: il costo derivante dalla svalutazione dei crediti, ovvero di quella parte dei contributi che l’ente previdenziale si attende inizialmente di riscuotere ma che nei fatti viene persa. Il fenomeno è dovuto a cause diverse: a parte gli evasori si va dal caso di debitori falliti o liquidati, oppure deceduti senza eredi che ne abbiano accettato l’eredità, a quello di crediti caduti in prescrizione, o per i quali ne viene accertata l’insussistenza.

Per il 2016 l’accantonamento preventivato a conto economico sfiora gli 8 miliardi: un valore ben più allineato a quanto rilevato a consuntivo negli ultimi anni, anche in considerazione – riporta testualmente il bilancio Inps – della “vetustà dei residui attivi” e della “presunta probabilità di effettivo realizzo degli stessi”. Per l’anno appena chiuso invece le previsioni assestate contengono accantonamenti per 5,7 miliardi a fronte di meno di un miliardo messo in preventivo.

Concettualmente il problema è analogo a quello che affrontano le banche: i mancati incassi si accumulano nei bilanci (soprattutto in anni di crisi) e diventano a tutti gli effetti crediti deteriorati. Una parte di questi viene efficacemente recuperata mentre la restante quota perde progressivamente la probabilità di un recupero fino a essere soggetta a definitiva svalutazione.

Anche la gestione dei crediti e del loro recupero, del resto, è un’attività che richiede risorse e che può essere condotta in modo più o meno efficace ed efficiente. Talvolta può risultare conveniente delegarla a terzi attraverso strumenti quali la cartolarizzazione o la cessione del credito a operatori qualificati (in questo caso può effettuarsi con uno sconto, anche molto elevato, rispetto al loro valore nominale).

Per dare un’idea delle dimensioni del problema, la massa dei contributi non incassati dovrebbe superare a fine anno per la prima volta la quota dei cento miliardi, crescendo nel frattempo al ritmo medio di 740 milioni di euro al mese (è una tendenza ormai consolidata da anni). Il conto esatto sarebbe di oltre 104 miliardi, di cui oltre la metà (56,3) sottoposti a svalutazione.

Uno degli aspetti più delicati è proprio la stima di quanti crediti verranno effettivamente incassati e su quanti invece l’Inps dovrà inevitabilmente gettare la spugna. Ad oggi le svalutazioni previste o effettuate si basano essenzialmente su due parametri ben definiti: il primo è l’anno di riferimento del credito (più lontano è nel tempo è peggiore la probabilità di recuperarlo) e il secondo è la gestione specifica a cui si riferisce (per alcune gestioni il recupero è più difficile che in altre).

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Si scopre dunque che questi criteri sono stati rivisti al ribasso proprio negli ultimi bilanci. I crediti risalenti fino al 2009, indipendentemente dalla gestione cui si riferiscono (42,8 miliardi secondo gli ultimi dati disponibili), vengono svalutati al 99%, riconoscendone quindi la sostanziale irrecuperabilità salvo episodi del tutto sporadici.

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Per il triennio successivo (mancano informazioni aggiornate ma per il 2010-2012 è arduo stimarli in meno di 20 miliardi), la svalutazione è del 55% per le gestioni dei lavoratori dipendenti e gli agricoli, mentre è del 30% per gli artigiani e i commercianti e si limita al 10% per la gestione separata. Sui crediti relativi all’ultimo triennio è proposta una svalutazione media del 10%.

La gravità delle stime è in aumento sia per i parametri utilizzati (ben più pessimistici rispetto all’ultimo consuntivo), sia per il fatto che materialmente, anche se manca una relazione apposita in bilancio, il recupero crediti non sembra sinora riuscito a sostenerle: di anno in anno il volume di contributi non incassati cresce e nel contempo cresce pure la quota che l’Inps deve accantonare al rispettivo fondo di svalutazione.

Inoltre, le gestioni che mostrano le più basse probabilità di recupero sono – non sorprendentemente – quelle più rilevanti: 56,7 miliardi di crediti non incassati (il 54,3% del totale) si riferiscono alle gestioni dei lavoratori dipendenti (incluso le prestazioni temporanee) mentre in minoranza troviamo quelle dei commercianti (20,7%) e artigiani (15,3%). Solo per il 2,3% dei mancati incassi (e con anzianità dei crediti piuttosto bassa) pesa la gestione separata di parasubordinati e autonomi.

La preoccupazione (lecita) è dunque già riferita al presente: sono sufficienti e realistiche le svalutazioni sinora effettuate dall’ente oppure sono ancora ottimistiche? È sufficientemente strutturata ed efficace l’attività di recupero dell’Inps, specialmente su volumi in consistente crescita? Si può affrontare il problema con strumenti migliori e, in tal caso, quanto può costare non attivarli per tempo?

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Alcuni strumenti come la cessione dei crediti e la cartolarizzazione (sempre che si dimostrino più efficienti per il recupero degli incassi) richiedono appositi strumenti normativi. Le ultime operazioni di trasferimento – delle quali l’esito non è reso chiaro – risalgono ormai al 2005: sappiamo solo che di 26 miliardi di crediti residui ben 11 sono insorti prima del nuovo millennio, e il 10% non risulta ancora svalutato.

I pur nutriti rendiconti dell’Inps (l’ultimo consuntivo misura complessivamente 3883 pagine) non brillano per esaustività con riguardo a questi aspetti. Nemmeno gli schemi sintetici (quelli più fruibili da una platea di non addetti ai lavori) riescono a descrivere con esattezza le dimensioni del problema, che nel dibattito nazionale è rimasto – salvo qualche eccezione e nonostante le sue crescenti proporzioni – sinora sorprendentemente sottaciuto.

 

 

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

Pennisi: “Che fine hanno fatto i dati su pensioni lunghe e silenti?”

di Giuseppe Pennisi

L’Inps dovrebbe inoltre fare chiarezza su due questioni sulle quali il suo sito non fornisce alcun dato preciso. La prima è quella sul flusso annuale delle ‘pensioni lunghe’ godute da una vastissima platea di uomini e donne che, in virtù di norme speciali, hanno iniziato a riscuotere assegni di anzianità quando non erano nemmeno quarantenni. Quante sono? Si vocifera di più di 80mila casi e quel che è certo è che non si tratta di pensioni correlate ai contributi versati. L’altra questione su cui vige una “congiura del silenzio” è quella – si permetta il gioco di parole – dei ‘silenti’: quanti sono e quanto è il ‘montante’ dei contributi di coloro che hanno effettuato versamenti senza poterne fruire perché non hanno raggiunto il minimo di anni contributivi o perché deceduti o perché emigrati? È in queste voci che si devono cercare risorse, non in quelle su pensioni di reversibilità a vedove ed orfani.

*Presidente del board scientifico di ImpresaLavoro

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Pensioni, presto necessaria una nuova riforma

Massimo Blasoni – Metro

Il presidente dell’Inps Boeri ha avuto il coraggio di annunciare con schiettezza che gli attuali trentenni dovranno lavorare fino a 75 anni per incassare assegni pensionistici sensibilmente inferiori a quelli dei loro genitori. Se è vero che gli interventi effettuati dal 2004 a oggi hanno garantito al sistema previdenziale una sostenibilità nel breve periodo, resta ancora irrisolto il nodo delle pensioni che potremo erogare alle prossime generazioni.

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O riforme radicali o più sacrifici per tutti

O riforme radicali o più sacrifici per tutti

Massimo Blasoni* – Panorama

La tenuta del nostro sistema pensionistico non è una variabile indipendente dal contesto socio-economico in cui viviamo. Un modello a ripartizione, con i lavoratori attivi che versano contributi per pagare gli assegni di chi è in pensione, è sostenibile se al crescere dei pensionati aumentano anche Pil e occupazione. In questi anni la spesa per pensioni è cresciuta, nonostante un Pil stagnante e tassi di occupazione fermi al palo. Il premier Matteo Renzi tende a etichettare come “gufi” tutti coloro che si dimostrano poco entusiasti rispetto all’andamento della nostra economia: purtroppo sono i numeri a dire che con questa crescita anemica, e sempre sotto la media europea, il nostro sistema pensionistico non sarà sostenibile. O si attuano riforme radicali in grado di liberare la crescita e spingere l’occupazione ai livelli dei Paesi più avanzati o servirà un’altra riforma previdenziale con più sacrifici per tutti.

*Imprenditore e Presidente del Centro Studi ImpresaLavoro

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

di Paolo Ermano* – Panorama

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano e della sua sostenibilità economica nel tempo è sembrato passare in secondo piano. Gli ultimi governi che si sono succeduti alla guida del Paese sono tutti dovuti intervenire su questo tema, politicamente molto sensibile, con provvedimenti non sempre in coerenza tra loro. La Riforma Fornero, da molti considerata “il male assoluto” soprattutto per aver creato il fenomeno dei cosiddetti “esodati”, avrebbe dovuto rappresentare la soluzione definitiva. Tutti ricordano le lacrime, passate ormai alla storia, dell’ex ministro del Welfare e la richiesta ai lavoratori italiani di ulteriori sacrifici per poter garantire un modello pensionistico equo e sicuro per tutti. Per raggiungere questo obbiettivo ambizioso la riforma ha introdotto sostanzialmente due grandi novità: ha allungato ulteriormente l’età in cui è possibile ritirarsi dalla vita lavorativa e ha modificato i meccanismi di calcolo dell’assegno che spetta ai futuri pensionati.

I primi risultati misurabili segnalano numeri contrastanti: da un lato è diminuita la quantità di assegni erogati dall’Inps (c’è meno gente che va in pensione), dall’altro è salito l’importo complessivo che il nostro Paese impegna per la previdenza. A fronte di una riduzione nelle prestazioni di poco più del 2%, vi è un aumento della spesa pari al 7,6%, circa 20 miliardi di euro: mediamente più di mille euro a pensionato.

«È la cosiddetta “gobba annunciata” ossia l’aumento della spesa previdenziale che si determina in un periodo di transizione come questo» spiega il professor Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro. «In questi anni vanno in pensione i lavoratori che hanno beneficiato degli effetti del cosiddetto “autunno caldo” del 1969 e del conseguente aumento delle retribuzioni (e dei contributi) in termini sia monetari che reali, proseguito fino alla crisi iniziata del 2008». Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare e riguarda i tempi di questa transizione: «In Svezia, nel 1995, la riforma pensionistica fu attuata con una transizione durata tre anni mentre in Italia, su spinta soprattutto dei sindacati, si è scelta una transizione decisamente più lunga e vicina ai 18 anni complessivi».

Per il futuro, poi, non c’è da stare allegri. Grazie agli interventi effettuati dal 2004 a oggi il sistema pensionistico si è messo su una traiettoria sostenibile nel breve periodo. Per stimare l’andamento nel tempo delle pensioni, si devono proporre ipotesi di scenario: oltre alle variabili demografiche (stimate secondo metodiche condivise a livello europeo), per simulare l’andamento di spesa futura è importante ipotizzare con precisione un tasso medio di crescita economica per l’avvenire. I grafici che spesso si producono per dimostrare la sostenibilità nel medio-lungo periodo del nostro sistema pensionistico sono frutto delle simulazioni effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato che però assume per vere delle condizioni su cui è lecito nutrire qualche dubbio. Si ipotizza, infatti, un tasso di crescita medio del nostro Pil dell’1,5% su base annua per il periodo 2020-2060 accompagnato da un innalzamento consistente del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che passerebbe per la fascia di età tra i 20 e i 69 anni dal 63,1% del 2014 al 74,7% del 2060.

Sono ipotesi credibili? Analizziamole nel dettaglio. Primo: secondo il Nucleo di Valutazione della Spesa Pensionistica del Ministero del Lavoro, fra il 1989 e il 2010 il tasso di crescita medio del Pil nel nostro Paese è stato di poco superiore all’1%, e stiamo parlando di un’Italia demograficamente più giovane ed economicamente molto più dinamica di quella che ci attende nei prossimi 40 anni. Secondo: l’Istat nelle stime sulla crescita 2015-2017 fissa il tasso di crescita medio per questo triennio all’1,26% mentre il Fondo Monetario Internazionale ci dice che il nostro Paese crescerà ancor meno: l’1,06% all’anno fino al 2020. Terzo: secondo le ipotesi fatte per dimostrare la sostenibilità del nostro sistema pensionistico, la crescita reale del Prodotto Interno Lordo nei prossimi 50 anni porterebbe l’economia italiana a raddoppiare la sua ricchezza, a fronte di un aumento della popolazione decisamente contenuto (+5%).

Questo vorrebbe dire che una società sempre più vecchia e con meno figli si ritroverebbe a essere due volte più ricca di quanto è ora. È una speranza che ci piacerebbe poter condividere ma che pare poco attendibile. La crescita anemica di questi trimestri e l’ultimo dato Istat che certifica un Pil che cresce meno delle attese confermano infatti l’idea che una nuova riforma delle pensioni si renderà presto necessaria.

* Professore a contratto di Economia internazionale presso l’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro

Sono diritti o privilegi?

Sono diritti o privilegi?

di Carlo Lottieri

Quando si tenta di riformare in senso liberale le istituzioni, in Italia come altrove, spesso ci si scontra con l’idea che una serie di cambiamenti verrebbero a ledere diritti acquisiti. Quei cambiamenti sarebbero, per tale motivo, illegittimi e andrebbero rigettati.
In tutto questo c’è qualcosa di illogico e anche linguisticamente discutibile. I diritti individuali non sono “acquisibili”, perché sono in realtà originari o, come si dice con una terminologia classica, “naturali”. Ogni uomo ha un diritto naturale su di sé e per questo motivo la schiavitù è ingiusta. Per lo stesso motivo ognuno ha diritto a essere proprietario. Di cosa? Ecco: qui entra in campo la titolarità, perché ognuno ha diritto a essere proprietario di quei titoli che ha acquisito in maniera legittima grazie a doni, scambi, retribuzioni, ecc.
I diritti sono insomma connaturati all’uomo, mentre i titoli si acquisiscono. E come si acquisiscono, ovviamente, si possono perdere. Io sono proprietario di una casa (ho un titolo legittimo su di essa) e ovviamente perdo tale titolo nel momento in cui la dono o la vendo. A rigore, allora, non vi sono diritti acquisiti, ma solo titoli. Ed esattamente di titoli che si parla quando – nel linguaggio corrente – si vuole impedire questa o quella riforma.
Un caso classico è quello dei prepensionati o dei vitalizi d’oro assicurati agli uomini politici. In un caso come nell’altro non è di diritti in senso proprio che si parla (non stiamo parlando di prerogative che spettino a ogni uomo in quanto uomo), ma appunto di titoli: e per giunta di titoli ottenuti non in virtù di scambi o contratti tra privati, ma grazie a decisioni politiche del tutto arbitrarie.
In altre parole, se compro un’abitazione ho un titolo di proprietà forte su di essa, quale risultato di un negozio tra privati. Se invece ricevo una pensione di 4 mila euro al mese perché per cinque anni sono stato consigliere regionale, in questo caso è diverso: un atto di volontà politica mi ha attribuito un privilegio o una facoltà. In altre parole, ho la possibilità di esigere ogni mese che ognuno dei miei concittadini destini a me – ad esempio – un centesimo di quanto produce in modo tale che io possa godere di questo vitalizio.
Ho un diritto a tutto ciò? No. Non c’è alcun diritto in gioco.
Ho un titolo che è stato “costruito” politicamente a mio favore. E che ovviamente può essere cancellato da un altro atto politico di segno opposto: dalla decisione, ad esempio, di abolire questi privilegi che i politici si sono auto attribuiti (nel caso dei vitalizi post-elezione) o che hanno attribuito ad altri (nel caso delle pensioni-baby).
Detto questo è egualmente chiaro che non si può mettere esattamente sullo stesso piano molte modeste baby-pensioni e i super-assegni che i politici hanno deciso mensilmente di regalarsi. Per giunta molti tra di coloro che sono andati in pensione prima dei quarant’anni oggi non sono più in condizione di lavorare. Per tale motivo, negare loro la pensione che ricevono significa togliere a queste persone ogni mezzo di assistenza, dopo aver assicurato loro – con un privilegio definito per via legislativa – che avrebbero ricevuto quella pensione vita natural durante.
Sul piano politico la situazione è caotica, socialmente delicata, e non è facile trovare una via d’uscita. Ma stiamo parlando di titoli ottenuti politicamente, insomma: di privilegi, e non già di diritti acquisiti. Sapere che le cose stanno in questi può quanto meno aiutare a mettere la discussione sui giusti binari.
Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Ecco gli assegni da fame dei pensionati del futuro

Sandro Iacometti – Libero

Già oggi, con il «ricco» sistema retributivo la quota di pensionati che alla fine del mese riceve meno di 1.000 euro lordi è del 42,5%. Si tratta di 6,6 milioni di italiani che evidentemente, anche calcolando l’assegno previdenziale sulla base delle retribuzioni degli ultimi 10 anni di lavoro, come prevede il sistema per chi nel 1996 aveva già 18 anni di contributi all’attivo, non sono riusciti ad ottenere cifre più sostanziose per la vecchiaia.

Con il metodo contributivo introdotto dalle riforme Dini e Fornero, e in questi giorni tornato alla ribalta anche per alcune ipotesi di ricalcolo delle pensioni già erogate, le cose non potranno che peggiorare. E di molto. Soprattutto per chi, e saranno molti considerata la situazione economica e l’evoluzione del mercato del lavoro, non avrà una storia contributiva lineare e monolitica.

Considerato che il 46% degli italiani si colloca nella fascia di contribuenti fino a 15mila euro, che un altro 49% ha redditi compresi tra i 15 e i 50mila euro e che le entrate medie annue emerse dalla dichiarazione dei redditi 2014 si attestano a 20.070 euro (statistiche che comprendono ovviamente anche i pensionati), abbiamo chiesto al Centro studi ImpresaLavoro di effettuare una serie di simulazioni sui futuri trattamenti previdenziali di lavoratori con redditi compresi tra i 20 e i 30mila euro l’anno.

I risultati non sono incoraggianti. Anzi, dimostrano, se mai ce ne fosse stato bisogno, che senza una serie di interventi che incoraggino e rilancino la previdenza integrativa (che invece continua ad essere tartassata) tra qualche decennio l’Italia sarà popolata da un esercito di anziani che dovrà tirare avanti con pochi euro in più della pensione sociale.Le elaborazioni sono state tutte effettuate su un’ipotesi di età pensionabile di 66 anni e un’eta contributiva di base di 40 anni.

La situazione risulta sulla soglia della sostenibilità per il lavoratore dipendente nella fascia alta di stipendio tra quelle prese in considerazione. Con 30mila euro lordi all’anno la sua pensione annua con il contributivo sarà di 22.271 euro (1.713 euro lordi mensili) rispetto ad un trattamento con il retributivo di 24mila euro (1.846 euro mensili). Abbassando l’asticella le cose, ovviamente, peggiorano. Con un reddito di 25mila euro la pensione retributiva ammonterebbe a 20mila euro annui (1.538 euro mensili), ma quella contributiva scenderà a 18.559 (1427 euro mensili). Riducendo le entrate del lavoratore a 20mila euro l’assegno si avvicina alla soglia dei 1.000 euro lordi. Operando solo sul montante contributivo si avrà, infatti, una pensione di 14.847 euro lordi all’anno, ovvero 1.142 al mese.

Lo scenario si fa ben più cupo per i lavoratori autonomi che hanno un’aliquota contributiva (sarà a regime nel 2019) del 24% della retribuzione interamente a loro carico, rispetto al 33% versato dai dipendenti (il 23,8% è pagato dal datore di lavoro). Con un reddito di 30mila euro e 40 anni di contributi il lavoratore autonomo, che con il retributivo avrebbe preso 24mila euro di pensione, riceverà invece un assegno mensile di 1.245 euro lordi (16.197 euro annui). Con 25mila euro il trattamento scende a 1.038 euro (13.497) e con 20mila euro il lavoratore autonomo entra nel club dei 6,6 milioni di italiani, con 830 euro lordi al mese di pensione (10.798 euro all’anno).

Fin qui abbiamo visto lavoratori «fortunati», con una retribuzione stabile e un percorso lavorativo senza interruzioni. Cosa succederebbe in caso di periodi di disoccupazione forzata, vuoti contrattuali e salti contributivi? Il nostro lavoratore autonomo dovrà faticare molto per arrivare alla fine del mese. Con un reddito di 20mila euro abbiamo già verificato che la soglia dei 1.000 euro diventa lontana. Lo stesso, però, accadrà anche a chi guadagna cifre maggiori se la sua condizione di precario lo ha fatto inciampare in qualche anno di disoccupazione.

Prendiamo in esame un reddito di 25mila euro annui. In questo caso basterebbe un buco contributivo di 3 anni a far precipitare il lavoratore nell’ambìto club. La sua pensione sarebbe, infatti, di 12.485 euro annui (960 euro mensili lordi). E il conto peggiorerebbe assai con 5 (11.810 euro) e 7 anni (11.135) di vuoto lavorativo. L’unico che riesce a restare sopra la soglia dei 1.000 euro, seppure per poco, è il lavoratore autonomo con un reddito di 30mila euro annui. Qui il trattamento previdenziale scenderebbe a 14.982 euro (1.152 euro mensili) con 3 anni di vuoto, a 14.172 euro (1.090) con 5 anni e a 13.362 (1.027) con 7 anni.

«Quello previdenziale», ha detto l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente del Centro studi ImpresaLavoro, «è un tema che il governo dovrebbe affrontare rapidamente. Con questi tassi di partecipazione al lavoro e con un livello di disoccupazione giovanile che non scende, il rischio che corriamo è quello di aver scaricato sulle future generazioni il peso delle nostre scelte sbagliate. Oggi il 43% delle pensioni è inferiore ai mille euro: come dimostra il nostro studio, per i nostri giovani mille euro rischiano di essere un traguardo impossibile da raggiungere».

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