Troppo ottimismo sul futuro delle pensioni

di Paolo Ermano* – Panorama

Dopo 6 grandi riforme dal 1992 al 2011 il problema del riequilibrio del sistema previdenziale italiano e della sua sostenibilità economica nel tempo è sembrato passare in secondo piano. Gli ultimi governi che si sono succeduti alla guida del Paese sono tutti dovuti intervenire su questo tema, politicamente molto sensibile, con provvedimenti non sempre in coerenza tra loro. La Riforma Fornero, da molti considerata “il male assoluto” soprattutto per aver creato il fenomeno dei cosiddetti “esodati”, avrebbe dovuto rappresentare la soluzione definitiva. Tutti ricordano le lacrime, passate ormai alla storia, dell’ex ministro del Welfare e la richiesta ai lavoratori italiani di ulteriori sacrifici per poter garantire un modello pensionistico equo e sicuro per tutti. Per raggiungere questo obbiettivo ambizioso la riforma ha introdotto sostanzialmente due grandi novità: ha allungato ulteriormente l’età in cui è possibile ritirarsi dalla vita lavorativa e ha modificato i meccanismi di calcolo dell’assegno che spetta ai futuri pensionati.

I primi risultati misurabili segnalano numeri contrastanti: da un lato è diminuita la quantità di assegni erogati dall’Inps (c’è meno gente che va in pensione), dall’altro è salito l’importo complessivo che il nostro Paese impegna per la previdenza. A fronte di una riduzione nelle prestazioni di poco più del 2%, vi è un aumento della spesa pari al 7,6%, circa 20 miliardi di euro: mediamente più di mille euro a pensionato.

«È la cosiddetta “gobba annunciata” ossia l’aumento della spesa previdenziale che si determina in un periodo di transizione come questo» spiega il professor Giuseppe Pennisi, presidente del board scientifico di ImpresaLavoro. «In questi anni vanno in pensione i lavoratori che hanno beneficiato degli effetti del cosiddetto “autunno caldo” del 1969 e del conseguente aumento delle retribuzioni (e dei contributi) in termini sia monetari che reali, proseguito fino alla crisi iniziata del 2008». Ma c’è un altro aspetto da non sottovalutare e riguarda i tempi di questa transizione: «In Svezia, nel 1995, la riforma pensionistica fu attuata con una transizione durata tre anni mentre in Italia, su spinta soprattutto dei sindacati, si è scelta una transizione decisamente più lunga e vicina ai 18 anni complessivi».

Per il futuro, poi, non c’è da stare allegri. Grazie agli interventi effettuati dal 2004 a oggi il sistema pensionistico si è messo su una traiettoria sostenibile nel breve periodo. Per stimare l’andamento nel tempo delle pensioni, si devono proporre ipotesi di scenario: oltre alle variabili demografiche (stimate secondo metodiche condivise a livello europeo), per simulare l’andamento di spesa futura è importante ipotizzare con precisione un tasso medio di crescita economica per l’avvenire. I grafici che spesso si producono per dimostrare la sostenibilità nel medio-lungo periodo del nostro sistema pensionistico sono frutto delle simulazioni effettuate dalla Ragioneria Generale dello Stato che però assume per vere delle condizioni su cui è lecito nutrire qualche dubbio. Si ipotizza, infatti, un tasso di crescita medio del nostro Pil dell’1,5% su base annua per il periodo 2020-2060 accompagnato da un innalzamento consistente del tasso di partecipazione al mercato del lavoro, che passerebbe per la fascia di età tra i 20 e i 69 anni dal 63,1% del 2014 al 74,7% del 2060.

Sono ipotesi credibili? Analizziamole nel dettaglio. Primo: secondo il Nucleo di Valutazione della Spesa Pensionistica del Ministero del Lavoro, fra il 1989 e il 2010 il tasso di crescita medio del Pil nel nostro Paese è stato di poco superiore all’1%, e stiamo parlando di un’Italia demograficamente più giovane ed economicamente molto più dinamica di quella che ci attende nei prossimi 40 anni. Secondo: l’Istat nelle stime sulla crescita 2015-2017 fissa il tasso di crescita medio per questo triennio all’1,26% mentre il Fondo Monetario Internazionale ci dice che il nostro Paese crescerà ancor meno: l’1,06% all’anno fino al 2020. Terzo: secondo le ipotesi fatte per dimostrare la sostenibilità del nostro sistema pensionistico, la crescita reale del Prodotto Interno Lordo nei prossimi 50 anni porterebbe l’economia italiana a raddoppiare la sua ricchezza, a fronte di un aumento della popolazione decisamente contenuto (+5%).

Questo vorrebbe dire che una società sempre più vecchia e con meno figli si ritroverebbe a essere due volte più ricca di quanto è ora. È una speranza che ci piacerebbe poter condividere ma che pare poco attendibile. La crescita anemica di questi trimestri e l’ultimo dato Istat che certifica un Pil che cresce meno delle attese confermano infatti l’idea che una nuova riforma delle pensioni si renderà presto necessaria.

* Professore a contratto di Economia internazionale presso l’Università di Udine e ricercatore del Centro studi ImpresaLavoro