Crisi delle banche: ecco a quanto ammonta il conto per i risparmiatori
di Paolo Ermano
Tre miliardi e 900 milioni è il controvalore complessivo di titoli azionari e obbligazionari subordinati di Banca Marche, Banca Etruria, Cassa di Risparmio di Ferrara e Carichieti, andati interamente in fumo nel weekend del 21-22 novembre, in seguito ai provvedimenti di risoluzione emanati dal Governo e da Banca d’Italia per salvare la parte buona delle quattro banche dell’Italia centrale da anni in stato di crisi. Il computo fornito da ImpresaLavoro è stato realizzato sulla base dei dati contenuti negli ultimi bilanci pubblicati dalle banche cadute in liquidazione, nonché degli ultimi aumenti di capitale e dei dati Reuters sui titoli obbligazionari colpiti. I soci delle quattro banche, oltre agli obbligazionisti subordinati, si sono visti infatti letteralmente azzerare il valore dei propri investimenti, senza per loro alcuna chance di recupero poiché sulle nuove banche (che hanno raccolto la parte buona dei vecchi istituti) non possiedono alcun diritto, né patrimoniale né di voto.
La procedura di risoluzione adottata in novembre rappresenta una sorta di anticipo rispetto a quanto potrebbe accadere dal 2016 anche per altre banche con l’entrata in vigore delle norme sul bail-in, ovvero sulle procedure di salvataggio interno che limitano drasticamente – se non annullano – le possibilità di intervento del contribuente al ripianamento delle perdite degli istituti in difficoltà. In realtà, l’applicazione rigida del bail-in alle quattro banche avrebbe avuto dei risvolti ancor più drammatici poiché avrebbe comportato delle perdite anche per i titolari di obbligazioni ordinarie e, probabilmente, anche di una parte dei correntisti con giacenze superiori a 100mila euro.
Le quattro banche oggetto del “salvataggio” hanno bruciato circa 3,1 miliardi di valore in capitale azionario (di cui oltre 500 milioni raccolti – quasi tutti da piccoli risparmiatori – solamente tra il 2011 e il 2013), mentre a quasi 800 milioni corrisponde la perdita per le obbligazioni “junior”, ovvero subordinate rispetto alle più comuni ordinarie, anch’esse collocate per gran parte a piccoli risparmiatori. Il dissesto sarà certamente ricordato tra i più gravi della storia finanziaria del nostro paese, tanto da essere già stato paragonato ai casi di Parmalat e Cirio, anche se il confronto più azzeccato – fatte le dovute proporzioni – è quello con il crac del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, intervenuto nel 1982. Anche allora il valore delle azioni fu azzerato, ma i soci ricevettero il diritto di partecipare al capitale del Nuovo Ambrosiano, che dopo un lungo risanamento e una serie di operazioni di fusione con altri istituti ha contribuito alla nascita dell’odierno gruppo Intesa Sanpaolo.
Le quattro banche oggetto, lo scorso mese, della procedura di risoluzione erano state da tempo commissariate da Banca d’Italia (Carife lo era addirittura dal 2013). L’amministrazione straordinaria, del resto, segnala un grave stato di crisi e negli ultimi anni ha portato metà delle banche coinvolte a chiudere i battenti, mentre l’altra metà si è salvata riprendendo la normale attività oppure trovando acquirenti come nel caso recente di Banca Tercas e Caripe, acquistate dalla Popolare di Bari. Ad oggi tuttavia sono ancora dieci gli istituti bancari in tutta Italia sottoposti a questa procedura, e per i quali dunque perdura la situazione di crisi.
Non sono commissariate ma stanno affrontando una situazione molto delicata anche Veneto Banca e Popolare di Vicenza, le due grandi popolari del Nordest che figurano tra le società ad azionariato diffuso (ovvero tra i cui soci figurano una moltitudine di piccoli risparmiatori), che prevedono di quotarsi in Borsa solo nella primavera del 2016, momento nel quale emergerà il reale valore di mercato delle stesse. Dal 2014 infatti, il meccanismo interno di rivendita delle azioni di tali istituti si è sostanzialmente bloccato, sotto il peso di svalutazioni di bilancio e perdite sempre più consistenti, e della consapevolezza ormai diffusa che il prezzo delle azioni fissato “a tavolino” dal Cda negli ultimi anni è oggi ampiamente fuori mercato, e per questo tale da scoraggiarne l’acquisto.
Agli inizi di dicembre il Cda di Veneto Banca ha determinato il prezzo di recesso per le azioni in 7 euro e 30 centesimi, con una gravissima perdita (pari all’81,5%) rispetto al prezzo di 39 euro e 50 che gli stessi titoli avevano solo nove mesi prima. Viste le numerose analogie tra i due istituti, si teme che una proporzione del genere possa applicarsi anche a Banca Popolare di Vicenza; in entrambi i casi oltre al danno si aggiunge anche la beffa, dal momento che gli scambi delle rispettive azioni sono comunque ancora bloccati e potranno riprendere solamente tra qualche mese con l’approdo in Borsa, dove potrebbero subire peraltro nuove riduzioni di valore. Il conto delle perdite, dunque, per i soci delle grandi popolari del Nordest, potrebbe essere già oggi stimabile in 6,2 miliardi di euro, nonostante i quasi 1,9 miliardi versati dagli azionisti negli ultimi 2 anni sotto forma di aumenti di capitale e di rimborso anticipato (in azioni) di obbligazioni convertibili. Entrambe le banche inoltre si apprestano a richiedere ai soci altri 2,5 miliardi di capitale nei primi mesi del 2016, al fine di ripristinare i livelli di patrimonio e garantire la continuità aziendale.
Al di fuori delle due popolari venete (che a dispetto della denominazione hanno nel tempo assunto una dimensione nazionale e tale da essere incluse tra le 15 “big” italiane vigilate direttamente dall’Europa), vi sono una quarantina di istituti non quotati ma con azionariato diffuso, e dunque con una compagine sociale costituita in gran parte anche da piccoli risparmiatori. Oltre alla Popolare delle Province Calabre (commissariata), tra questi istituti non risultano altre crisi in corso paragonabili a quelle di Vicenza e Veneto Banca, ma la trasparenza dei prezzi e nelle quantità di azioni di questi istituti, scambiate attraverso i loro “borsini interni” più o meno evoluti, risulta in media molto scarsa (seppur variando significativamente tra istituto e istituto). Oltretutto, il prezzo di tali azioni risulta in media più alto rispetto ai multipli di borsa ed è dunque possibile che, a fronte di eventuali nuove svalutazioni, emergano perdite per i loro piccoli azionisti per un totale di altri 2,5 miliardi di euro.
Molto più trasparente, ma anche molto più grave, il conto per le più grandi banche italiane quotate in Borsa. Il mercato azionario ha punito i loro investitori sin dai primi inizi della crisi finanziaria, ovvero dal 2007. Nonostante il netto recupero che si sta materializzando sui titoli quotati sin dal 2013, secondo i dati di Borsa Italiana il settore delle banche italiane risulta aver bruciato, rispetto al 2007, ben 100,1 miliardi di valore, a cui si devono aggiungere i 48,9 miliardi versati dai soci tramite aumenti di capitale dal 2008 a oggi. Tra le quotate, oltre alla già citata Banca Etruria caduta in liquidazione, a presentare le perdite più vistose sono state Banca Carige e il Monte dei Paschi, che hanno però superato i più recenti test europei sul capitale. Inoltre, vanno citati anche gli azionisti di Banca Popolare di Spoleto, che vivono nell’incertezza da almeno due anni, con il titolo sospeso dalle quotazioni e con il commissariamento di Banca d’Italia (conclusosi nel 2014), ora impugnato dagli ex-vertici.
Ma la vera spada di Damocle che incombe sulle nostre banche sostanzialmente comune a tutto il sistema ed è ancora quella dell’elevato volume dei crediti deteriorati, problema ad oggi irrisolto, che corrisponde, secondo le recenti stime della European Banking Authority, addirittura a oltre 17 punti del nostro Pil. Nella sostanziale impossibilità di un aiuto pubblico in soccorso dei dissesti bancari, rimarcata dalle nuove regole del bail-in, una cosa è certa: i piccoli risparmiatori dovranno necessariamente aumentare il proprio grado di consapevolezza, e ricordarsi che in base alle nuove norme gli unici strumenti davvero tutelati saranno i conti correnti e depositi (e solo entro i 100mila euro per istituto), mentre gli altri titoli bancari come azioni e obbligazioni (ancor di più se non quotati), già oggi possono presentare un grado di rischio più alto di quanto inizialmente prospettato.