Europa a due velocità
Dopo lo sdoganamento da parte del Cancelliere Merkel della possibilità di un’Europa a due o più velocità ci si interroga se tale ipotesi sia desiderale e, soprattutto, fattibile. La lettura in materia è sterminata. Un utile e coinciso lavoro è stata pubblicato nel settembre 2015 da tre giovani studiosi del “Centro Marco Biagi” dell’Università di Modena e Reggio Emilia: Paola Berolini, Francesco Pagliacci e Antonio Pisciotta.
Il lavoro prende l’avvio dalla “Strategia Europa 2020” e sottolinea come l’Unione europea si presenti come un insieme tutt’altro che omogeneo. Già nel 2006 Jacques Sapir, analizzando i principali modelli sociali europei, aveva individuato «quattro diversi modelli sociali europei, ciascuno con la propria performance in termini di efficienza ed equità». Tali modelli erano di fatto riconducibili a quattro diverse aree geografiche all’interno dell’Ue a 15: i Paesi nordici (Danimarca, Finlandia e Svezia oltre che i Paesi Bassi) si caratterizzavano per alta efficienza ed alta equità; i Paesi anglosassoni (Irlanda e Regno Unito) apparivano efficienti ma non equi; i Paesi continentali (Austria, Belgio, Francia, Germania e Lussemburgo) erano equi ma non efficienti; infine, i Paesi mediterranei (Grecia, Italia, Portogallo e Spagna) presentavano tratti tali da non assicurare né equità né efficienza. Sapir osservava quindi la sostanziale inadeguatezza della “Strategia” di fronte a sistemi sociali così difformi e che avevano bisogno di essere riformati in vista delle sfide poste dalla globalizzazione e dalle dinamiche demografiche dell’UE.
Pochi Stati membri hanno raggiunto l’obiettivo comunitario del 75% di occupati sulla popolazione in età da lavoro. Rispetto alle aggregazioni per modelli sociali, è possibile vedere il netto distacco del Nord Europa, che nel complesso ha già raggiunto (e superato) l’obiettivo comunitario, sebbene il confronto temporale segnali un peggioramento per quasi tutti i Paesi (a eccezione della Svezia). All’opposto, il modello mediterraneo mantiene la peggiore performance, con un ulteriore peggioramento prodotto dalla crisi: anche il Portogallo, infatti, che si stava avvicinando al modello anglosassone (Sapir, 2006), vede peggiorare nettamente la propria posizione. La situazione dell’Est Europa appare invece alquanto eterogena. Inoltre va segnalato che gli obiettivi nazionali definiti dai singoli Paesi, in queste due aree, appaiono in molti casi irrealistici, alla luce dei dati e della performance perseguita nel periodo.
In posizione particolarmente arretrata si notano Grecia, Spagna, Ungheria, Bulgaria, Portogallo e Italia; per tutti questi Paesi, è difficile ipotizzare il raggiungimento dei rispettivi obiettivi entro il 2020. Infine va notato che l’area continentale – pur mantenendo una distanza, anche se relativamente contenuta, sia rispetto all’obiettivo europeo sia rispetto all’area nordica – mostra la migliore resilienza in termini occupazionali rispetto alla crisi, dato che l’occupazione nel periodo è cresciuta o non ha subito rilevanti flessioni.
Passando alla spesa interna lorda in Ricerca e Sviluppo, anche in questo caso si nota una grande eterogeneità negli obiettivi fissati dai singoli Stati membri, essendo diverse le possibilità degli stessi. Ad esempio nel 2013 i Paesi nordici erano già al di sopra dell’obiettivo europeo del 3% e non sorprende di vedere obiettivi nazionali al 4%. La periferia sud-orientale dell’Europa, invece, presenta la peggiore performance (meno dell’1% del Pil): in particolare, i Paesi mediterranei, oltre ad avere in media una performance peggiore rispetto all’area orientale, presentano incrementi della spesa per R&D inferiori a quest’ultima area, dove alcuni Paesi hanno visto crescere in modo significativo il valore dell’indicatore (ad esempio Repubblica Ceca, Estonia e Slovenia). I Paesi dell’Europa centrale migliorano nettamente gli investimenti in R&D nell’arco del periodo considerato, mentre l’area anglosassone presenta difformità tra Irlanda e UK e un investimento medio comunque ben inferiore all’indicatore della Strategia
L’analisi delle differenze esistenti tra Stati membri nel perseguimento degli obiettivi previsti dalla “Strategia Europa 2020” restituisce un’immagine nitida circa il gap tra i territori centrali del continente e le sue periferie. Tali differenze sono il risultato di processi di portata storica: non è pensabile che essi possano essere colmati nell’arco di pochi anni (o di qualche decennio).
Su tali differenze è lecito attendersi che la crisi economica abbia avuto un impatto molto diverso, data la difformità delle economie e dei modelli sociali sviluppati. Con riferimento al tasso di occupazione, la crisi economica ha certamente determinato un allargamento dello scarto esistente tra le aree considerate. La spesa percentuale in R&S è invece aumentata ovunque nel Continente, anche se in modo non particolarmente significativo, probabilmente per gli effetti del perdurare della crisi economica. I maggiori progressi sono stati compiuti dai Paesi dell’Europa orientale (+0,3%) ma anche da quelli dell’Europa centrale (+0,12%), mentre nell’area meridionale non si registrano miglioramenti significativi. I Paesi nordici, che partivano già da livelli molto elevati nel 2008, hanno continuato ad accrescere tali investimenti. La quota di energia prodotta da fonti rinnovabili è aumentata in modo sensibile, vedendo in questo caso accomunati i Paesi della periferia sud-orientale con quelli nordici (nonostante livelli di partenza molto difformi). I Paesi anglosassoni, caratterizzati da un ridotto utilizzo di energie prodotta da fonti rinnovabili, hanno registrato i minori progressi in termini percentuali. È evidente che, nonostante la Strategia abbia stimolato i Paesi a migliorare la loro performance, neppure in questo caso è possibile parlare di processo di convergenza a livello europeo.
Rispetto al livello di educazione terziaria, invece, si registrano ottime performance per quasi tutti i Paesi dell’Est Europa (che al 2013 hanno superato, in media, quelli dell’Europa mediterranea) e dei Paesi anglosassoni. I risultati peggiori, invece, riguardano proprio la dimensione inclusiva della crescita. In nessuna delle cinque aree considerate si registra una diminuzione della percentuale di popolazione a rischio di povertà. Tuttavia, proprio i modelli sociali caratterizzati, secondo Sapir (2006), da maggiore equità (ovvero il modello nordico e quello centrale) si sono dimostrati maggiormente capaci di limitare tale aumento (rispettivamente +0,9% e + 0,3%). Al contrario, nei Paesi anglosassoni e in quelli mediterranei la popolazione a rischio di povertà è aumentata in misura molto sensibile (di quasi il 4%). I Paesi dell’Europa orientale, nonostante una decisa caduta dei tassi occupazionali nel periodo 2008-2013, hanno avuto un incremento contenuto del rischio di povertà, anche se l’analisi per Stati evidenzia differenze significative.
L’analisi evidenzia performance molto difformi anche all’interno delle macro-aree individuate. Adesempio colpisce la distanza tra Irlanda e Regno Unito nel modello anglosassone, il progressivo allontanamento dell’Olanda dal modello nordico e la relativa difformità che sta emergendo in questo gruppo di paesi; ciò potrebbe segnalare il cambiamento di impostazione nella politica sociale di tali aree. Significativa è anche la profonda differenza di performance nell’area orientale, che potrebbe indicare una difformità di modelli sociali anche in quest’area. Di conseguenza, sarebbe interessante una nuova e più approfondita riflessione sui modelli sociali europei alla luce dei cambiamenti indotti sia dall’allargamento che dalla crisi.
Certamente, a dieci anni dal Rapporto Sapir, molto poco è stato fatto in concreto per rendere l’Unione europea un’area più omogenea e coesa rispetto agli obiettivi di “Europa 2020”. D’altro canto la Strategia non si è dimostrata efficace a tale scopo: date le perduranti difformità, a metà del suo ciclo di vita, il raggiungimento di molti dei suoi obiettivi sembra ormai compromesso. Soprattutto, ad oggi appare sempre più urgente un efficace contrasto alle tendenze centrifughe che stanno interessando l’Ue e in particolare le sue aree più periferiche.