Le cronache di questi giorni sono dominate da due eventi diversamente inquietanti: il rilancio del terrorismo islamista e la crisi europea focalizzata sulla Grecia e sul’euro. In entrambi i casi è chiaro che vi sono responsabilità specifiche: non sono senza colpe i greci, vissuti al di sopra delle loro possibilità e ora indisposti a pagare i debiti accumulati; e devono pure saper riflettere seriamente sulla propria condizione culturale le popolazioni di quel mondo arabo-musulmano che, a ragione, vuole evitare ogni identificazione tra religione e violenza terroristica, ma che al tempo stesso non può negare l’esistenza di un nesso tra Islam e islamismo radicale.
La Grecia ha le sue responsabilità e anche la società musulmana. Non bisogna però negare come l’Occidente in generale e l’Europa in senso più specifico abbiano egualmente commesso molti, anzi moltissimi errori: in un caso come nell’altro. E c’è un’ideologia europea e più specificamente franco-tedesca che in qualche modo sta all’origine di tutto questo. La follia della Jihad, in particolare, non può essere separata dal fatto che negli ultimi due secoli – e non solo a causa del colonialismo – gli europei hanno esportato un po’ ovunque lo Stato moderno e, insieme a esso, una visione giacobina delle istituzioni. In alcune parti del mondo questo ha fatalmente causato forti reazioni con elementi basilari di società di carattere tradizionalista, provocando reazioni di rigetto. Il terrorismo che uccide in nome di Allah è anche una conseguenza dei vari “kemalismi” di matrice europea e di un’ideologia basata sul potere statuale, su un’astratta idea dei diritti umani, sul mito della burocrazia e dell’esercito. La visione del mondo di stampo europeo che ha ispirato la politica dello Scià in Persia ha poi di fatto aperto la strada a Khomeini, ma situazioni analoghe si sono viste anche in molti contesti.
La cultura europea – specialmente tra Francia e Germania – si è innamorata di ideologie costruttiviste e antiliberali. Non è allora un caso se nelle università di Parigi si sono forgiati intellettuali e uomini di governo, provenienti dall’Africa e dall’Asia, che poi hanno preteso di riaffermare nelle loro società astratte logiche di matrice illuminista. Anche in Europa si è sviluppato un processo simile, se si considera che sotto vari punti di vista il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa ha pensato di replicare lo Stato moderno a livello continentale, partendo dalla burocrazia francese (si pensi a Jean Monnet) e dal vuoto identitario di una Germania post-nazista che ha capito di dover essere europea da momento che non poteva più essere tedesca. Il programma dirigistico di istituzioni politiche europee ora mostra però la corda e questo a seguito del fatto che l’Europa non è una società coerente, non è un luogo di dibattiti e scambi quotidiani, non è un mondo davvero integrato e non è bene che sia retta da un solo governo. Da decenni s’insegue però questo sogno e si è pronti a pagare prezzi anche molto alti pur di preservare il mito di un’unità europea a venire.
La nascita dell’euro è stata il prodotto più importante di questo costruttivismo, proiettato a fissare regole buone per i danesi come per gli italiani, per i tedeschi come per i greci. Oggi è comunque chiaro a tutti che la Grecia non sarebbe dovuta entrare nel club dell’euro e doveva comunque essere messa fuori da tempo. Se questo non è avvenuto è perché – soprattutto a Parigi e Berlino – ci si è innamorati della dimensione ideologica del progetto unitarista. Le società europee possono essere orgogliose di molta parte della loro storia. Devono però comprendere i propri errori fondamentali: il proprio ideologismo, l’infatuazione per lo Stato, l’illusione di avere trovato soluzioni e principi applicabili a ogni latitudine. Non è così ed è bene esserne consapevoli al più presto. Nella nostra cultura politica – da Rousseau a Marx, da Hegel a Comte – c’è una tara illiberale che non smette di produrre frutti velenosi. Solo se sapremo capire fino in fondo tutto questo sapremo evitare nuovi errori.