Vent’anni di occasioni perse dall’Italia
Claudio Gatti – Il Sole 24 Ore
Di gufi e disfattisti ce ne sono sicuramente. Ma non è certamente per colpa loro che l’Italia sta in fondo alle classifiche che contano per il benessere e soprattutto il futuro di un Paese. Ne basta una per tutte: negli ultimi venti anni, un periodo in cui l’economia mondiale è stata caratterizzata da una crescita senza precedenti dei cosiddetti Investimenti diretti esteri, l’Italia è stata solo sfiorata da un fenomeno che secondo gli esperti fa da cartina di tornasole dello stato di salute di un Paese.
I numeri sono a prova di gufi e disfattisti: tra il 1994 e il 2013, l’Italia ha attratto Investimenti diretti esteri, o Ide, per un totale di 290 miliardi di dollari. Nello stesso ventennio, la Spagna ne ha assorbiti 567, la Germania 799, la Francia 823 e la Gran Bretagna addirittura 1.418 – quasi cinque volte più di noi. E a meno che non si raggiunga la piena consapevolezza di quanto profondo è il deficit di “attrattività” dell’Italia nel mondo, di quali sono le sue cause e dell’urgenza a porvi rimedio, l’economia italiana è destinata a rimanere esclusa da qualsiasi ripresa. Questo hanno dichiarato all’unisono economisti, consulenti e investitori stranieri consultati da Il Sole 24 Ore per quest’inchiesta. Anche perché gli Ide rappresentano un essenziale veicolo di crescita e trasmissione di sviluppo economico.
Ma cominciamo da un’analisi delle cause. «Le ragioni del peggior andamento dei flussi di investimento estero in Italia sono sia strutturali sia congiunturali», spiega al Sole 24 Ore Riccardo Cristadoro, economista della Banca d’Italia. «Tre i motivi principali: il quadro macroeconomico peggiore, il quadro istituzionale e regolamentare meno favorevole e le ridotte dimensioni d’impresa». I più recenti attestati di disistima straniera sono venuti da due aziende americane, una piccola e una gigantesca. Pochi giorni fa la Alps South, società di dispositivi medici di base a St Petersburg, in Florida, ha annunciato di aver rinunciato ad aprire una filiale in Italia. Quasi simultaneamente Alcoa, terzo produttore mondiale di alluminio con impianti in 44 Paesi, ha deciso la chiusura definitiva del suo stabilimento a Portovesme, in Sardegna. «La fonderia di Portovesme era una delle più costose della rete Alcoa e non c’era possibilità di renderla competitiva», ha spiegato Bob Wilt, presidente di Alcoa Global Primary Products. Adesso ad Alcoa in Italia è rimasto un singolo stabilimento, il laminatoio di Fusina, di fronte alla laguna di Venezia. Contro i 12 stabilimenti in Francia, i 9 in Spagna e i 7 sia in Germania che in Gran Bretagna.
Anche chi investe in Italia lo fa con grandissima cautela e in modo molto opportunistico, insomma a caccia di saldi. Come hanno fatto i grandi fondi americani Blackstone e BlackRock. Quest’ultimo controlla l’1,5% del totale della capitale delle società quotate italiane ed è quindi il primo investitore di Piazza Affari, ma da noi ha investito molto meno che altrove in Europa. Il motivo è chiaramente espresso dal Sovereign Risk Index, l’indice del rischio-Paese che Blackrock ha pubblicato a luglio: su un totale di 50 nazioni prese in considerazione, l’Italia è al 44esimo posto. Davanti solo ad Argentina, Portogallo, Ucraina, Egitto, Venezuela e Grecia.
Illuminante anche l’esperienza di Tandean Rustandy, amministratore delegato di Arwana Citramulia, ditta indonesiana con un fatturato annuale di quasi 100 milioni di euro. «Da quando ho fondato la mia ditta di piastrelle, 21 anni fa, mi sono sempre servito di macchine utensili italiane. Ma in questi due decenni, mentre la mia azienda è cresciuta, uno dopo l’altro i miei fornitori italiani o si sono ridimensionati o sono andati in bancarotta. Uno dei problemi dell’Italia è questo: troppe aziende sono one-man show, con una singola persona che le fonda, le gestisce e prende tutte le decisioni. Non c’è sistema, né senso di appartenenza all’azienda”, dice al Sole 24 Ore Rustandy. Che continua: «Più in generale, dall’estero si ha l’impressione che in Italia oggi ci siano tecnologia, capacità e know-how ma manchino una buona governance e consapevolezza della gravità della crisi. E come può crescere e migliorare un Paese senza governance e spirito competitivo?».
Altra testimonianza diretta viene da Wolfango Piccoli, direttore di Teneo Intelligence, parte della holding di consulenza fondata dal braccio destro di Bill Clinton, Doug Band: «Un nostro cliente, una multinazionale nordamericana, doveva decidere se investire quasi mezzo miliardo di dollari per acquisire una cartiera. Pensava all’Italia e alla Spagna. E alla fine ha optato per la Spagna. Per i soliti motivi: il carico burocratico, i tempi e le incertezze della giustizia civile, la facilità di accesso al credito, la pressione fiscale, l’opacità del sistema normativo italiano e l’impossibilità di fare proiezioni di lungo periodo per via della mutevolezza delle politiche legate alle esigenze di bilancio».
Che negli ultimi vent’anni l’Italia abbia mostrato una minore capacità di attrazione di capitale dall’estero, nonostante la dimensione del mercato e la competitività del suo sistema d’imprese lo vedono anche in Banca d’Italia. «Una determinante che ci penalizza nel confronto internazionale è data dalla qualità delle istituzioni e delle regole di mercato», conferma Cristadoro. Che aggiunge: «Secondo una nostra recente analisi, sembrerebbe che i tempi e la complessità delle procedure burocratiche, più che i loro costi, persino sulle scelte di localizzazione degli investimenti».
Gli stessi handicap che scoraggiano gli stranieri ostacolano ovviamente anche le imprese italiane. «La multinazionale si localizza dove è più conveniente. Se le caratteristiche locali non la favoriscono, non viene. Ma le sue esigenze sono le stesse delle imprese locali. Quindi o si creano condizioni per lo sviluppo – per l’una o per l’altra – oppure ci si rinuncia. Sia per l’una che per l’altra . Non c’è via di mezzo. E negli ultimi due decenni le condizioni l’Italia non le ha sapute creare», spiega Roberto Basile, professore di Economia alla Seconda Università di Napoli che da dieci anni analizza i flussi di Investimenti diretti esteri.
Il suo primo studio, pubblicato nel 2005 assieme ai colleghi Luigi Benfratello e Davide Castellani, ha appurato che «le regioni italiane soffrono di un duplice svantaggio: hanno caratteristiche che le rendono poco attraenti per gli investitori stranieri e attraggono meno Ide rispetto ad altre regioni europee con caratteristiche simili. Tale gap, quantificato nel 40% in meno, è stato ricondotto ad alcune caratteristiche nazionali». Tra i fattori che alimentano questo gap lo studio segnala l’inefficienza dell’apparato burocratico e del sistema di protezione dei diritti di proprietà, l’elevata rigidità del mercato del lavoro, un farraginoso sistema della giustizia civile e della protezione dei diritti sanciti dai contratti, l’adozione di meccanismi informali di decisione e la scarsa qualità dell’educazione terziaria. Conclusione: «Il sistema-Paese deprime ulteriormente l’attrattività potenziale delle regioni italiane… A parità di caratteristiche osservabili, le regioni italiane sono insomma meno attraenti di regioni con caratteristiche simili collocate in contesti istituzionali diversi… Il che conferma che il basso livello di Ide in Italia sia da attribuire per lo più a fattori istituzionali nazionali».
In un secondo studio di quattro anni dopo, gli stessi autori hanno appurato che il gap è addirittura peggiorato, arrivando a una punta del 75% nel caso degli investimenti in attività manifatturiere. Da allora, dice sconsolato il professor Basile al Sole 24 Ore, «le cose possono essere solo peggiorate, perché non si è fatto nulla per cambiare e migliorare la posizione competitiva dell’Italia». Secondo Basile la situazione non è ancora irrimediabile. E le riforme programmate dal governo Renzi vanno nella direzione giusta. Se realizzate potrebbero dunque favorire un significativo recupero: «Soltanto portando il numero di procedure necessarie a tutelare i diritti contrattuali al valore medio europeo, per esempio, l’Italia registrerebbe un aumento del tasso di attrattività pari a circa il 60%», dice il professore. L’economista di Banca d’Italia Stefano Federico concorda: «L’effetto di una migliore qualità istituzionale non sarebbe trascurabile. E se l’Italia si allineasse alle migliori pratiche dell’Eurozona, i flussi di Investimento esteri diretti ne guadagnerebbero in misura significativa».
Ma il tempo stringe. «Il mondo del business internazionale ha apprezzato l’avvento di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, vedendolo come una svolta non solo generazionale», ci dice Piccoli. «Ma non bisogna illudersi che gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte di investitori internazionali indichino una maggiore propensione a puntare sul nostro Paese. Perché gli investimenti finanziari oggi entrano e domani escono. Quello che invece serve è l’investitore che ha fiducia nel Paese e vi mette radici creando posti di lavoro. Questo continua a mancare. E la finestra di opportunità, come si dice in inglese, non rimarrà aperta a lungo».