Senza privatizzazioni e riforma della PA non esiste alcuna spending review
Mariastella Gelmini – Libero
Le previsioni sull’economia italiana segnalano un autunno di burrasca e le parole del commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, devono essere motivo di riflessione per tutti. Non sono che l‘ultimo campanello di allarme. La prospettiva di una manovra autunnale è reale, è particolarmente preoccupante alla luce dell’affaticamento economico del Paese. Dopo il governo Berlusconi, l’ultimo scelto direttamente dagli elettori, i tre successivi hanno fatto manovre per quasi 90 miliardi di imposte. Nello stesso periodo prima l’allora ministro Giarda, poi un manager di valore come Enrico Bondi, quindi Cottarelli, che ha guidato il dipartimento di finanza pubblica del fondo monetario, hanno lavorato al cantiere della «spending review».
Il bilancio dello Stato é una cosa tremendamente complicata, ci vuole una vita di studi per venirne a capo, molto spesso ministri e governi sono spettatori passivi rispetto alle dinamiche di spesa. Per questo, è stato giusto ricorrere all’esperienza di tecnici preparati. Ma il risultato, davvero poco confortante, è che se alcuni tagli, peraltro minimi, alla spesa sono stati individuati, sin ora non e stato tagliato neanche un centesimo. L’Italia ha una spesa pubblica, al netto degli interessi, di poco superiore al 50% del Pil. Ogni volta che sentiamo interessi di parte chiedere più risorse, ogni volta che ascoltiamo autorevoli colleghi parlamentari tuonare contro il pareggio di bilancio e il fiscal compact, ogni volta che qualcuno paventa l’ipotetica «ritirata dello Stato» che avrebbe avuto luogo negli scorsi anni, ricordiamoci di questo dato di fatto. La spesa pubblica supera la metà del prodotto interno lordo: neanche nell’Egitto del faraoni!
La Germania ha una spesa pubblica che nel decennio 2002-2012 si è sempre attestata attorno al 44,7%, misurata. In più, negli ultimi anni, quel Paese è vistosamente cresciuto, cosa che noi non abbiamo fatto. Potrebbe quindi permettersi, per così dire, più spesa pubblica. Il che è invece, oggi, al di là delle nostre possibilità.
Interventi incisivi e fruttuosi sulla spesa pubblica vanno fatti «per cassa», devono cioè produrre benefici immediati in termini di deficit e, nel medio termine, sul debito. Quando ero ministro dell’Istruzione sollevai il problema di uno squilibrio di spesa in quel settore. A parte la scarsità di risorse, posi una questione di fondo rimasta ancora senza risposta: quale tipo di istruzione e di crescita civile può assicurare un Paese se l’80% delle risorse se ne vanno in stipendi e soltanto il 20% in infrastrutture, manutenzione e investimenti? Quella situazione non riguardava e non riguarda soltanto quel dicastero. Si pensi alla Sanità dove, con l’eccezione di alcune Regioni del Nord, la spesa è assorbita per il 75% dagli stipendi (nel Sud si arriva fino all’85-90%).
Renzi pensa alla staffetta generazionale nella pubblica amministrazione. Si è chiesto a carico di chi andranno le maggiori spese? Quali saranno i costi? Per ridurre sensibilmente la spesa pubblica, vanno almeno chiarite due questioni di metodo e di merito, sulle quali purtroppo nessuna rassicurazione ci giunge da questo governo.
In primo luogo, proprio per quanto scrivevo poc’anzi, per ridurre la spesa pubblica serve una buona riforma della Pa. Una buona riforma della Pa è una riforma che ne riduce i costi. L’attuale esecutivo parla di riforma della Pubblica Amministrazione eludendo sapientemente il tema dell’impatto economico. È probabile che la nostra Pa abbia bisogno di assorbire nuove persone e nuove competenze. Ma in assenza di un disegno di razionalizzazione, non si tratta di altro che di un disegno fanfaniano di «occupazione» dello Stato.
In seconda battuta, la spending review non può prescindere da un’altra questione, alla quale il governo Renzi ha messo la sordina: le privatizzazioni. È giusto e opportuno che il presidente del Consiglio ascolti esperti ed economisti, ma la riduzione della spesa è una questione eminentemente politica. La domanda alla quale rispondere è: quanto e quale Stato vogliamo? Che cosa desideriamo che faccia, lo Stato? Che cosa altri possono fare meglio di lui? E sotto questo profilo, è del tutto illogico considerare revisione della spesa e privatizzazioni come questioni del tutto indipendenti l’una dall’altra.
Le riforme istituzionali sono importanti, noi siamo i primi a crederlo, è un merito di Renzi averle messe al centro del dibattito. Ma il silenzio del presidente del Consiglio, altrimenti assai loquace, su questi temi ci lascia sospettare che egli non abbia un pensiero in merito. O perlomeno che non abbia una maggioranza, in grado, quel pensiero, di seguirlo e sostenerlo.