Capitali cinesi
Davide Giacalone – Libero
Non mi spaventano i soldi che i cinesi investono in Italia, mi preoccupano quelli che non investono. E’ curioso che ci si agiti, con animo giulivo o contrito, per l’acquisto di pacchetti azionari di società quotate, ovvero per quello che la proprietà aveva già venduto. Semmai si dovrebbe avvertire che la pretesa di vendere e restare proprietari, esercitata mediante artificiali ostacoli al mercato, già esistenti (come le soglie basse per far scattare l’obbligo di segnalazione) o che si vogliono introdurre (come il voto plurimo in capo a chi è già azionista), è uno di quei sintomi che rivela quanto la globalizzazione venga vissuta come minaccia, anziché opportunità. Tre sono le osservazioni che devono essere fatte, per capire quel che succede e per trarne il massimo vantaggio.
1. Considerato che l’Italia è la seconda potenza industriale e la terza economica d’Europa, le operazioni cinesi (e non solo) d’ingresso nel capitale delle grandi società è largamente al di sotto del nostro peso effettivo. Detto in modo diverso: sono poche e per valori bassi. Rothschild Italia calcola che le operazioni fatte da noi sono state 35, su 400 relative all’intera Unione europea. Segno che l’attrattività del nostro mercato è inferiore alla sua importanza e ricchezza. Sicché, a dispetto di quelli che vanno strillando circa l’ipotetica invasione cinese, il problema è opposto: vanno più altrove che qui.
2. Si deve distinguere fra le operazioni attivate da istituzioni finanziarie e quelle che hanno come protagonisti dei soggetti industriali. Se prendiamo gli acquisti che hanno dato luogo a segnalazioni rivolte all’autorità di controllo (Consob), vediamo che banche cinesi hanno investito in titoli come Eni o Enel. In buona sostanza, sono delle rendite. La banca diversifica il rischio, per conto dei propri clienti e correntisti, acquistando quel che assicura un guadagno. Eni ed Enel non ci guadagnano nulla, sono i loro guadagni ad arricchire gli azionisti. Chiunque questi siano. Poi c’è Fca, la fu Fiat, che è quotata anche in Italia, ma è ardito definire italiana. Investire in quel titolo non significa avviare una conquista, piuttosto scommettere sulla riuscita del disegno industriale, sostenuto anche dal mercato cinese. Telecom è azienda mal messa, da tempo priva di strategia e con investimenti bassi. Comprare significa puntare sulla sottovalutazione del titolo, oppure, più realisticamente, sulla convinzione che l’attuale assetto proprietario non è in grado di reggere. Se si avviasse una scalata, quegli acquisti si dimostrerebbero un ottimo affare.
Poi ci sono gli investimenti industriali: State Grid compra il 35% di Cdp reti e Shanghai Eletric compra il 40% di Ansaldo energia, perché fanno mestieri simili. Potenzialmente sinergici. La cosa singolare è che le vendite che comportano una certa cessione di sovranità (perché essere proprietari esclusivi delle reti di distribuzione energia o esserlo in società con altri non è per niente la stessa cosa) vengono fatte dallo Stato. Sia nella versione Cassa depositi e prestiti che in quella Finmeccanica. Il fatto che ciò avvenga dopo un viaggio in Cina del ministro dell’economia e del presidente del Consiglio può essere casuale. Ma anche no. In quei casi sarebbe stato ragionevole che qualcuno avesse da eccepire. Non è succeso. Se i cinesi (o altri) investono in rendite, quali queste sono, si mettono nella condizione d’importare ricchezza (nostra) senza esportarne (loro). Non è un dettaglio.
3. Le istituzioni finanziarie si muovono seguendo i rating, come pollicino seguiva mollichine e sassolini. Il guaio, serio, è che resta fuori dal tracciato la parte succosa e promettente della ricchezza italiana, fatta d’innovazione e prodotti eccellenti, ma assistita da gracilissima o inesistente finanza: la piccola e media impresa. Come restano fuori gli investimenti infrastrutturali. Se al governo stessero cercando crescita, e non solo soldi, dovrebbero subito approntare una seria collaborazione finanziaria con la Cina (e non solo), destinata a portare l’irrigazione verso il terreno più fertile, ma anche più aggredito dall’aridità. Ci guadagnerebbero i cinesi, perché un fondo di quel tipo avrebbe rendimenti non immediati, ma alti. Ci guadagneremmo noi italiani, perché vedremmo crescere la nostra capacità produttiva e d’esportazione, non solo il bisogno e la voglia di vendere pezzi di proprietà.
Questi sono i denari che non vengono investiti. Questi quelli che mi preoccupano. Questo il lavoro che lo Stato potrebbe fare, senza mettere le mani nel mercato, ma aiutandolo ad avere libere e forti le proprie mani. Se restassero cinque minuti liberi, mentre ci si occupa di nomine nei mille enti misteriosi (quando non del tutto inutili), si potrebbe dedicarli a far nascere una politica di cooperazione finanziaria, capace di trasformare in piante d’alto fusto quei germogli e quei cespugli cui, oggi, si nega luce e acqua. O che se le trovano da soli, sperando di non essere visti.